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                  Maggio 2012/Una giornata importante per Torino 
                   
                  Quel giorno l'attenzione si è concentrata sulle contestazioni 
                  a Fassino e ai bonzi sindacali di turno o sugli scontri con 
                  la polizia davanti al comune. Merita ricordare anche P.zza San 
                  Carlo. Nel finale del corteo, quando lo spezzone del pd -reduce 
                  da una mattinata non proprio felice, il cui percorso può 
                  essere paragonato ad una via crucis come metafora del disastro 
                  di una sinistra che ha perso ogni riferimento storico-ideologico 
                  - non è stato fatto entrare in piazza. Le macerie dei 
                  terremoti possono rappresentare il presente di quest'area politica. 
                  Abbiamo provato a ricordare quei momenti dove lo scontro 
                  non si è svolto con le forze del disordine ma con il 
                  partito dell'austerità, dei tagli responsabili, della 
                  coesione sociale, della legalità ideologica, della magistratura 
                  buona per montagne di arresti, delle coop rosse, delle guerre 
                  mascherate da missioni di pace e chi più ne ha ne metta. 
                  Queste poche righe sono il racconto di due compagni trovatisi 
                  nel mezzo del cambiamento italiano.  
                  Cercare strade per ritrovare la convinzione che questa società 
                  non è la migliore possibile. Grazie a tutte le persone 
                  presenti quella mattina. 
                 Enzo e Sergio 
                 È successo un giorno di maggio. Un giorno che ricorderò 
                  con un piacere misto alla rabbia che ha suscitato in me quell'onda 
                  di emozioni che ti prende alla gola fino alla voce trasformandola 
                  in urlo. “ANDATEVENE!!!” Le persone intorno a me 
                  sono sconosciute. Dove sono gli amici-che, i fratellisorelle 
                  i compagnie? Vedo giovani insanguinati. Sento la mia bocca 
                  impastata di qualcosa che irrita. Non capisco cos'è. 
                  Lo capirò dopo. Non riesco a controllarmi. Troppo tempo 
                  che aspetto questo momento. Davanti a me uomini con pettorine 
                  con scritto qualcosa. Servizio d'ordine. Non li vogliamo far 
                  passare. Aderisco inconsciamente al mio desiderio di vedere 
                  la loro macchina da guerra incepparsi, girare a vuoto, balbettare 
                  confusa. Loro non capiscono. Un muro umano di un centinaio di 
                  persone ha deciso che loro non sono parte di noi. Anni di bombardamenti 
                  sui popoli rei di non stare agli ordini dell'occidente sono 
                  riscattati da un deciso “basta! andatevene con il vostro 
                  furgone funebre”. Ho paura per la mia sicurezza, se questi 
                  cani da guardia ricevono l'ordine di fare a botte finisce male 
                  per tutti. Non mi muovo. Un signore come me mi affronta armato 
                  di foulard e spilla di Emergency. La solita solfa che “non 
                  siamo democratici”. Non mi tengo gli dico che i furgoni 
                  non possono entrare in piazza! Vorrei dire ben di più. 
                  La dialettica è scomparsa. La nostra arma segreta sono 
                  i i ragazzi pink. Con la musica hanno risposto agli spray al 
                  peperoncino con le rime gioiose hanno replicato agli spintoni. 
                  Grazie a loro abbiamo sentito il coraggio di serrare le fila. 
                  Abbiamo costruito quel muro che sostiene le nostre convinzioni. 
                  Sono giovani. Chissà chi sono, da dove vengono chi sono 
                  le loro famiglie. Il mio occhio vaga alla ricerca di facce amiche. 
                  A parte Lorenzo vedo i soliti che aspettano di mettersi d'accordo 
                  per decidere dove andare a fare il pranzo del primo maggio. 
                  Sono contento che Lorenzo sia qui con menoi. Se c'è 
                  lui vuol dire che è una cosa che va fatta, portata avanti. 
                  Non è un momento di puro delirio estremistico. Siamo 
                  la prova che è possibile fermarli. Fermarli con i nostri 
                  corpi. Ecco li abbiamo fermati. La loro arroganza è bloccata. 
                  I loro capi isterici. Ma chi sono i loro capi? Stanno festeggiando 
                  da altre parti. I fischi di un ora prima non li hanno infastiditi. 
                  Convinti di continuare a governare all'infinito. Quali analisi 
                  fare? Non so, la felicità si mescola al dispiacere di 
                  essere incattiviti. 
                  Oggi il partito dell'ordine non vince a Torino. piazza san Carlo 
                  è libera dalla polizia democratica. 
                   
                  Another brick  in the wall? 
                   
                  Il conflitto, probabilmente, non è la mia cifra stilistica 
                  naturale, lo auspico, ma lo patisco. Se poi rifletto, in particolare, 
                  sulle azioni accese e violente di piazza, credo di non essere 
                  proprio mai riuscito a provare godimento o vanto. La vicinanza 
                  del nemico politico, con un progetto diverso dal mio, per lo 
                  più mi conduce a immaginare e pensare alle storie di 
                  uomini e donne altro da me. Debolezze occidentali? 
                  Mi viene in mente, a questo proposito, un vecchio compagno anarchico 
                  che ebbi modo di conoscere molti anni fa e che, proprio in un 
                  Primo Maggio a cavallo fra gli anni '80 e '90, vidi discutere 
                  con un poliziotto in divisa nel tentativo di fargli cambiare 
                  lavoro. Lui - già ottuagenario, ma ancora determinato 
                  nelle sue convinzioni, di fronte a un ragazzone non ancora trentenne 
                  - che parlava del suo errore di gioventù: l'essere entrato 
                  in polizia. Immaginai lo spiazzamento dello sbirro di fronte 
                  ad una storia così insolita come quella di un uomo proletario-poliziotto 
                  che capisce di stare dalla parte sbagliata, arrivando a compiere 
                  una scelta concreta e radicale di militanza. (Mi chiedo che 
                  penserebbe il Pasolini di “Valle Giulia” di questa 
                  vicenda). 
                  Oggi qui a Torino ci troviamo di fronte ad un servizio d'ordine 
                  di un partito che sostiene il governo Monti; un servizio d'ordine 
                  pagato, perché, parafrasando Gaber, il partito si rinnova... 
                  per evidente indebolimento, e assume con “contratti a 
                  chiamata” per mezzo di finanziamenti pubblici. 
                  Facce spaurite, fra molti di essi, anche loro dalla parte sbagliata, 
                  giovani con pettorina neanche troppo corpulenti, grida, insulti, 
                  ordini dalle retrovie che comandano la resistenza contro i “nemici 
                  della democrazia”. Partono spinte, schiaffi, pugni, poi 
                  sangue. Una signora anziana viene portata via travolta dalla 
                  mischia. Dopo un po' ci si ferma, ma il “muro contro muro” 
                  prosegue con sguardi e parole. 
                  Vedo una bandiera rossonera per terra che mi appresto a recuperare. 
                  Schierato dalla parte di muro giusta, la tengo stretta in mano, 
                  quando vedo un dipendente precario, in pettorina, del PD con 
                  un labbro che sanguina e che si fa beffe di noi, mostrando un'altra 
                  bandiera uguale a quella appena raccolta da me. Urlo che la 
                  pretendo indietro, ma non sta guardando me e non mi sente. Grido 
                  più forte lo stesso concetto, mi sente e risponde facendomi 
                  capire che non ne vuole sapere. Smetto di essere muro e vado 
                  a prenderla: ora sono un mattone che cammina. 
                  Qualcuno non mi vuole far passare: spingo e lo mando a stendere. 
                  Circumnavigo l'“Enemy block”, ma nell'avvicinarmi 
                  fanno cerchio intorno al ladruncolo. Non ho paura, mi sorregge 
                  la forza della ragione e la consapevolezza che il Partito Democratico 
                  rimarrà fedele ai propri principi di facciata, senza 
                  rischiare un ulteriore sputtanamento pubblico. 
                  Riproponendomi come sempre di non iniziare per primo, si trovano 
                  disorientati, perché si aspettano che reagisca violentemente 
                  alle loro provocazioni verbali. Il precario si distrae per un 
                  momento, allora provo a strappargliela, ma altri lo aiutano. 
                  Dirigenti più corpulenti si fanno avanti: ribadisco il 
                  motivo della mia presenza. Uso, inoltre, le loro stesse armi 
                  e chiedo loro se vogliono picchiarmi (s'intimidiscono solo per 
                  la presenza di una discreta platea). “Ti sei spinto troppo 
                  oltre”, mi spiega uno, facendo sfoggio di cultura zoologica. 
                  Curioso ma, io per loro, divento ora quello che, rivolendo la 
                  bandiera sottratta, sta invadendo il loro territorio. 
                   
                  “Me ne torno a fare muro” 
                   
                  “Bandiera”- urlo ancora. La risolvono a modo loro, 
                  confabulando e decidendo di nasconderla, ma me ne accorgo. A 
                  quel punto devono portarla via e, con un colpo di genio vigliacco, 
                  il dipendente precario PD la dà ad una ragazza, dicendomi 
                  che mi spaccherà la faccia se proverò a toccare 
                  la sua fidanzata. Arriva pure uno da fuori che parteggia per 
                  loro, dicendo che siamo noi i provocatori e che ha tutta l'intenzione 
                  di pestarmi. Ci insultiamo un po', quindi dice che mi aspetterà 
                  dopo senza indicare le categorie fondamentali di luogo e tempo 
                  (mai minaccia fu meno convincente). Gli dico, stando al gioco, 
                  che va bene. 
                  Me ne torno a fare muro, mentre nel frattempo la celere, prima 
                  impegnata a caricare davanti al Comune, arriva a fare da intercapedine 
                  di parte per evitare infiltrazioni fra i mattoni degli schieramenti. 
                  Il partito si defila di lato e tutto termina con un applauso 
                  liberatorio. 
                  Incontro l'amico di sempre che mi racconta di lui, mentre io 
                  di me. Prima di ricomporci, cercando di fare ordine con i nostri 
                  pensieri, abbozzo un sorriso pensando al precario, stasera a 
                  casa, con la sua ragazza e la bandiera anarchica rubata. 
                 Enzo Gregori e Sergio Gambino 
                  Torino 
                  
                   
                     
                  A proposito delle librerie Feltrinelli/amareggiato e infastidito 
                   
                  Gentile Paolo, 
                  (...) volevo sottolinearti una mia amarezza. Un'amarezza che 
                  riguarda il fatto che i circuiti librari della Feltrinelli non 
                  saranno più disponibili ad esser punto vendita di “A”. 
                  La cosa non solo mi ha amareggiato ma mi ha profondamente infastidito. 
                  Io da abbonato sostenitore continuerò a diffondere la 
                  rivista (e qualche volta a chieder ospitalità per qualche 
                  mio piccolo scritto sulle avanguardie giovanili) e soprattutto 
                  continuerò ad invitare i miei amici, colleghi universitari, 
                  studenti e chiunque mi capiti “a tiro” (soprattutto 
                  ai credenti di una sinistra sempre più addomesticata 
                  e massacrata dalla storia) di leggere la rivista e di entrare 
                  nel vivo di un pensiero e di un agire (quello Anarchico) che 
                  oggi più che mai è un respiro di vita. 
                  A presto. 
                 Alfonso Amendola 
                  Salerno 
                  
                   
                    A.A.A. 
                  Estrema destra cerca idoli 
                 Ieri fascisti, oggi fascisti del terzo millennio, cosa è 
                  cambiano durante tutti questi anni? L'estetica è la stessa, 
                  la retorica anche, i simboli e gli slogan urlati durante i loro 
                  raduni hanno tutti i sapori nostalgici del ventennio ma, i loro 
                  idoli oggi sono diversi. 
                  In questi ultimi anni, in Italia, abbiamo assistito alla nascita 
                  di nuove organizzazioni neofasciste, fra le più note 
                  alla cronaca ricordiamo CasaPound, alla quale era iscritto Gianluca 
                  Casseri lo squilibrato che a Firenze il 13 Dicembre dello scorso 
                  anno uccise 2 senegalesi e ne ferì gravemente 3; gli 
                  atti di violenza sono un abitudine alla quale non riescono proprio 
                  a sottrarsi i camerati del terzo millennio, come il revisionismo 
                  storico che adottano per modificare a proprio piacimento la 
                  vita di personaggi illustri, per poterli infine usare nelle 
                  loro campagne propagandistiche. 
                  Quando ha inizio questo “taglia e cuci” di notizie 
                  senza alcun fondamento storico l'impossibile diviene realtà, 
                  così una persona dapprima contestata dall' estrema destra, 
                  come Ernesto “Che” Guevara è sempre stata, 
                  vive inconsapevolmente un'altra vita e diviene così “l'altro 
                  Che” custode dei valori di una destra in calo di notorietà, 
                  la stessa triste sorte è toccata a Rino Gaetano, utilizzato 
                  come volto per numerosi manifesti affissi da estremisti di destra 
                  forse ignari delle simpatie esplicite che nutriva il giovane 
                  cantante e menefreghisti delle denuncie inviate dalla famiglia 
                  del cantautore. La falsificazione è così esplicita 
                  che lascia increduli e sbigottiti, come l'uso improprio di una 
                  frase tratta da “la locomotiva” celebre canzone 
                  del cantautore Francesco Guccini, frase che è stata dedicata, 
                  dai camerati, ai soldati di Salò e provocatoriamente 
                  riportata su numerosi manifesti in giro per le città 
                  durante il 25 Aprile, giorno nel quale cade la ricorrenza della 
                  liberazione italiana dal nazifascismo, inutile dire che Guccini, 
                  il cantautore divenuto famoso negli anni delle lotte studentesche 
                  antifasciste, ha preso prontamente le distanze da questa provocazione 
                  e condannandola ha ribadito le sua appartenenza antifascista 
                  per la quale non ha mai nutrito alcun dubbio. Altre simpatie 
                  unilaterali furono rivolte al protagonista del fumetto “Corto 
                  Maltese” disegnato da Hugo Pratt, uomo dall'animo libertario 
                  e dalle forti simpatie per le lotte studentesche antifasciste 
                  negli anni 70, anche in questo caso l'idea del “pirata 
                  camerata” non è andata giù ai suoi collaboratori 
                  Vianello e Fuga e alla figlia del disegnatore Silvia Pratt. 
                  Il revisionismo tocca in tutti, da Peppino Impastato a Bobby 
                  Sands, perfino Mary de Rachewilt figlia di Ezra Pound, uomo 
                  dal quale prende nome l'associazione CasaPound, li ha denunciati 
                  per l'uso improprio del nome del padre, ma nulla scoraggia i 
                  camerati che per protesta decisero di cambiare per 24 ore il 
                  nome della loro associazione da CasaPound a CasaBene in ricordo 
                  dell'artista Carmelo Bene, ma la scelta risultò poco 
                  furba perché sia la figlia Salomè che la vedova 
                  Raffaella Baracchi denunceranno l'associazione per l'inopportuna 
                  idea. 
                  Cosa hanno trovato in Carmelo Bene di fascista, forse il rifiuto 
                  per lo Stato, per la famiglia e per la religione? Questo non 
                  ci è dato sapere, ma qualcosa invece è più 
                  che chiara, l'estrema destra soffre la carenza di “eroi” 
                  e personaggi da idolatrare e questa “goliardia” 
                  opportunistica con la quale giustificano ogni loro provocazione 
                  è la constatazione che dietro ogni slogan frase fatta 
                  dell'estrema destra si nasconde una abissale mancanza di cultura. 
                 Giuseppe Di Giulio 
                  Potenza 
                  
                   
                    Botta.../Ma 
                  Brassens non era «reazionario e moralista» 
                   
                  Spett. A, 
                  non sono una abbonata alla vostra rivista ma la conosco, la 
                  apprezzo e la compro occasionalmente. 
                  Ho apprezzato il dossier 
                  su Georges Brassens (“A” 371, maggio 2012), 
                  non voglio fare le pulci ad alcune imprecisioni non determinanti. 
                  Quello che mi ha lasciata veramente perplessa è il contributo 
                  di Alessio Lega, un autore che stimo. Cose come Brassens 
                  «reazionario e moralista» nella canzone Le mouton 
                  de Panurge? C'è qualcosa di moralistico nel dire 
                  che l'amore si può fare per amore, per soldi o per piacere, 
                  come pare e piace, come la canzone (e non solo questa, anche 
                  altre) racconta? Brassens non è forse il cantore della 
                  libertà? C'è forse qualche forma di libertà 
                  di pensiero nel seguire la moda senza nemmeno provare un piacere 
                  qualsiasi nel farlo? Nessuna delle strofe di Brassens va isolata 
                  dalle altre, Lega dovrebbe ben saperlo! Anche l'ultima strofa 
                  è l'ironia al massimo grado: la ragazza si innamorerà 
                  quando tornerà di moda il romanticismo. Una canzone può 
                  piacere oppure no, ci mancherebbe, ma va comunque letta con 
                  onestà. 
                  Ancora più grave, il falso riporto di Les deux oncles. 
                  Non «le idee fanno tre giretti, tre piccoli morti e poi 
                  se ne vanno», ma è «è folle morire 
                  per delle idee che fanno tre giretti, tre piccoli morti 
                  e poi se ne vanno», mi sembra che la differenza non sia 
                  da poco. I morti in guerra, si parla di quella del '40, non 
                  sono morti per l'idea della libertà, come si racconta, 
                  ma per le idee insensate, balorde di Adolf Hitler. È 
                  forse rimasto qualcosa di quelle idee, oltre ai morti e all'eredità 
                  lasciata ai naziskin, ancora più stupidi e pericolosi 
                  del loro maestro? 
                  Quanto a Mourir pour des idées, De André 
                  ci teneva tanto ai garrotati spagnoli che non ha pensato a scrivere 
                  una canzone sua sponte. Detto questo, la rima con falce 
                  si fa solo con alce (escluso a priori), calce o salce, variante 
                  di salice. Da qui, la scelta di una rima mancata falce/pace. 
                  Volendo, poteva trasformare la falce in una ranza, ottenendo 
                  qualcosa come: «La morte non ha bisogno che le si tenga 
                  la ranza, / basta intorno ai patiboli far la danza». Rima 
                  comunque imperfetta, una delle z è dura e l'altra dolce. 
                 Daniela Vighesso 
                  Agrate Conturbia (No) 
                
                 
                    ...e 
                  risposta/Brassens qualche caduta di stile, secondo 
                  me, ce l'ha 
                   
                  Cara Daniela, 
                  mi perdonerai ma, nel risponderti più che volentieri, 
                  mi prendo la libertà di darti del tu. 
                  Premetto che Brassens è uno dei dei miei più irrinunciabili 
                  punti di riferimento, proprio e soprattutto perché la 
                  sua opera porosa e aperta ben tollera la discussione, l'analisi 
                  acuta. Malissimo invece quell'opera si dispone ai “guardiani 
                  del tempio”, soprattutto se autonominatisi. Brassens, 
                  fra le molte cose che è, è anche un grande provocatore, 
                  e il non lasciarci a-criticamente a bocca aperta, ma disporci 
                  al contempo all'ammirazione come al dissenso, è di certo 
                  uno dei suoi scopi. 
                  Brassens è un “moralista”, temperato dal 
                  fatto di non voler imporre la sua morale ad alcuno. D'altronde 
                  anch'io sarei fiero di esser considerato tale. 
                  Nello specifico mi pare che quando canta un inno alla fedeltà 
                  di coppia in un capolavoro assoluto quale “Saturne” 
                  o nella bellissima “La princesse et le croque-notes”, 
                  sia del tutto condivisibile proprio perché è lui 
                  stesso coi suoi sentimenti al centro della questione. “Le 
                  mouton de Panurge” invece, nella quale bistratta la riappropriazione 
                  del corpo femminile attraverso l'uso strumentale del sesso, 
                  continua a parermi una canzone bacchettona. Terribilmente ben 
                  scritta e raffinata, ma bacchettona nella sostanza. Ribadisco 
                  che la sua tirata a favore delle “veneri della vecchia 
                  scuola” e il suo evidente disprezzo per quelle della “nuova” 
                  - che fanno l'amore solo perché è di moda farlo 
                  - è un atteggiamento da vecchio signore, che rimpiange 
                  i “sani” bordelli di una volta, quando le puttane 
                  erano delle professioniste di buon cuore. È un topos 
                  brassensiano ripreso in un altro bozzetto a mio avviso piuttosto 
                  mediocre: “Concurrence Déloyale”. Queste 
                  canzoni sono delle piccole cadute di stile del “vecchio 
                  leone”, che nulla tolgono alla sua immensa vena, alla 
                  sua poesia fresca e minuziosa, al suo rigore impareggiabile. 
                  A te poi queste canzoni potranno anche piacere e ci potrai leggere 
                  tutto il contrario di quello che ci leggo io (la grande poesia 
                  è sempre suscettibile di punti di vista alternativi), 
                  ma è nel tacciare di disonestà la mia lettura 
                  critica che fai un grande dispetto, non tanto a me, quanto al 
                  menestrello libertario del quale ti ergi ad avvocato d'ufficio. 
                  Stendiamo pure un velo sull'altra canzone di Brassens che citi 
                  “Les deux oncles”, forse la sua più ambigua, 
                  dove si arriva a mettere a paragone non i morti sui due fronti 
                  del 1940, bensì quelli del '43/'45, ovvero a dire che 
                  paiono indifferentemente biasimabili i collaborazionisti e i 
                  resistenti (“De vos épurations, vos collaborations/Vos 
                  abominations et vos désolations”). Io penso ancor 
                  oggi, che quando mi si propone di mettere sullo stesso piano 
                  i “ragazzi di Salò” e “la meglio gioventù” 
                  resistente, faccio le barricate e mi stringo grato alla memoria 
                  partigiana. 
                  Temo di non aver per nulla capito i tuoi rilievi in merito a 
                  “Morire per delle idee”. Lì, senza entrare 
                  nel merito né della canzone di Brassens (precedente al 
                  garrotaggio di Puig Antich) né della traduzione deandreiana, 
                  mi limitavo a proporre quell'ipotesi intrigante, che ci racconta 
                  solo come ogni traduzione sia un lavoro creativo, a volte più 
                  creativo della critica propriamente detta. 
                  Ti saluto e spero di aver confutato le tue posizioni senza minare 
                  la stima che professi per me all'inizio della tua lettera.  
                 Alessio Lega 
                  
                   
                    Ma 
                  io sono andato a vedere il film di Giordana 
                   
                  A differenza di Carlo Oliva (Ma 
                  io il film di Giordana non lo andrò a vedere,“A“ 
                  372, giugno 2012), le cui bellissime parole condivido dalla 
                  prima all'ultima, io il film di Giordana l'ho visto. Perché 
                  mi hanno invitato all'anteprima. E' stata la prima volta della 
                  mia lunga vita, non mi era mai capitato, il mondo cinematografico 
                  mi è estraneo (anche se, negli anni '70, avevamo parlato 
                  a lungo, io e altri avvocati, con Giuliano Montaldo che voleva 
                  fare un film su Valpreda e Pinelli) e ne sono meravigliato ancora 
                  adesso. Devo essere nella mailing list di qualcuno che c'entra 
                  col film. 
                  O forse, ho pensato, a qualcuno è venuto in mente quel 
                  Comitato di Difesa e di Lotta contro la Repressione che il gruppo 
                  di giovani avvocati di cui facevo parte (e che non era il “Soccorso 
                  Rosso” con cui talvolta viene confuso, altra parrocchia) 
                  aveva costituito per far fronte in modo organizzato alle continue 
                  richieste di intervento di ragazzi (“compagni”, 
                  si diceva allora), delle loro famiglie, o di organizzazioni 
                  politiche (in particolare il Movimento Studentesco, ma non solo) 
                  fermati, arrestati, processati a séguito di manifestazioni 
                  di piazza che, all'epoca, erano all'ordine del giorno: persone 
                  per lo più sconosciute che sapevano di poter chiamare 
                  gli avvocati del Comitato, e avrebbero avuto assistenza, assolutamente 
                  gratuita. 
                  Io allora ero radicale, da quando avevo 16 anni, e ho continuato 
                  a esserlo, con variazioni di intensità, anche quando 
                  seguivo il Movimento studentesco di Mario Capanna o quando frequentavo 
                  gli anarchici (che avevo conosciuto alle marce antimilitariste 
                  Milano-Vicenza organizzate dal Partito Radicale a metà 
                  degli anni '60) o i situazionisti e altri ancora. L'idea del 
                  Comitato mi era venuta da lì, al Partito, ne avevo parlato 
                  con amici di diverse estrazioni, e il Comitato era nato. 
                  Nel film, naturalmente, di questo Comitato non si parla, eppure 
                  ha avuto un ruolo molto importante su piazza Fontana, nell'aprire 
                  gli occhi di chi non voleva chiuderli: emettavamo comunicati 
                  su comunicati ed eravamo un punto di riferimento anche per i 
                  giornalisti più attenti. 
                  Tra marce antimilitariste, Comitato di Difesa e di Lotta e conoscenze 
                  personali, ero venuto in contatto con Pino Pinelli che mi aveva 
                  chiesto di assistere Paolo Braschi per le bombe del 25 aprile 
                  alla Fiera e alla stazione centrale di Milano: innocente accusato 
                  insieme ad altri cinque anarchici in quel terribile 1969, ragazzo 
                  mite e un po' spaesato, che sono andato a trovare a S. Vittore 
                  proprio la mattina del 13 dicembre: “e adesso cosa ci 
                  succederà?” era stata la sua domanda (la sua recente, 
                  tragica scomparsa mi ha molto colpito: non l'avevo più 
                  rivisto da allora, anche lui avrebbe avuto molto da raccontare). 
                  E al Comitato si era rivolto anche Pietro Valpreda: aveva un'imputazione 
                  per stampa clandestina e offesa al Pontefice, ed era stato convocato 
                  dal Giudice Istruttore di Milano al quale avrebbe dovuto presentarsi 
                  il 12 dicembre. Valpreda non aveva capito il perché della 
                  convocazione, pensava alle offese al Pontefice, ma in realtà 
                  doveva solo essere sentito come testimone nel processo per le 
                  bombe del 25 aprile; senonché, a causa della febbre e 
                  di uno stato di salute assolutamente non consono a una deposizione 
                  davanti a un magistrato, il mio collega di studio Luigi Mariani 
                  (che aveva assunto la difesa di Pietro per l'imputazione di 
                  stampa clandestina e di offese al Pontefice), constatate di 
                  persona le sue precarie condizioni (era venuto, febbricitante, 
                  nel nostro studio la mattina del 12 dicembre per essere accompagnato 
                  in Tribunale), gli aveva spostato l'udienza prima al 13 e poi 
                  al 15 dicembre, lunedì, d'accordo con la cancelleria 
                  del Giudice. E' per questo che Valpreda era a Milano il 12, 
                  ed è uscendo dall'ufficio del Giudice il 15 che è 
                  stato prelevato da due figuri in grigio che senza spiegazioni 
                  lo hanno trascinato via (racconto della nonna Olimpia, che l'ha 
                  accompagnato prima in studio da noi e poi al Palazzo di Giustizia). 
                  Di tutto questo, che è un passaggio fondamentale nella 
                  storia di Pietro Valpreda [non si dimentichi: portato dal Tribunale 
                  in Questura, poi a Roma in auto, poi in carcere e sottoposto 
                  al famoso riconoscimento da parte di Rolandi (anch'egli portato 
                  da Milano a Roma) tra quattro azzimati poliziotti in giacca 
                  e cravatta (la fotografia del “confronto all'americana” 
                  è un piccolo capolavoro), lui che veniva da una brutta 
                  influenza e da uno sballottamento del genere, senza riposo, 
                  senza cambi d'abito, senza essersi potuto lavare] e delle manipolazioni 
                  sulla strage di piazza Fontana [la magistratura di Milano, “inaffidabile” 
                  perché garantista, scavalcata e spogliata di un processo 
                  che era suo a favore di quella romana che poi, riconosciuta 
                  la propria incompetenza, nel 1972 restituirà il processo 
                  a Milano, che lo perderà nuovamente grazie al Prefetto 
                  di Milano e alla Corte di Cassazione che, per “legittima 
                  suspicione”, lo sposterà a Catanzaro: anche la 
                  città di Milano era “inaffidabile”. Kafka 
                  non avrebbe saputo inventare di meglio] nel film c'è 
                  poco più di una battuta, fatta dire da Valpreda a una 
                  delle “spie” del Circolo XXII marzo mentre sale 
                  in macchina per partire verso Milano. 
                  Non faccio il critico cinematografico, ma quando si sceglie 
                  di far impersonare da attori “somiglianti” ai protagonisti 
                  una sceneggiatura che si vuole “somigliante” alla 
                  verità, si avrebbe il dovere di rispettarla, la verità, 
                  e non di farne l'ennesima versione superficiale (e di superficialità, 
                  nel film, ce n'è davvero tanta, forse troppa, a cominciare 
                  dalla bibliografia). 
                  Con questo non mi riferisco alla seconda parte del film, pura 
                  fantasia, forse “sogno” del commissario Calabresi 
                  se non ho interpretato male un passaggio: ma come si fa, mi 
                  chiedo, a costruire un film che vuole essere “verosimile” 
                  e poi ad appiccicarci una parte senza riscontri, che a me è 
                  parsa di puro comodo per rendere credibile il salvataggio della 
                  figura del commissario, che nel 2012 non ne aveva neppure bisogno, 
                  e che ad ogni modo, come scrive Carlo Oliva, “nessuno 
                  mi farà mai cambiare idea sulle responsabilità 
                  e le colpe di quel personaggio”. 
                  Non è soltanto questo (e sarebbe abbastanza), ma anche 
                  la ricostruzione del processo al commissario Calabresi, anzi, 
                  scusate, al direttore responsabile di Lotta Continua Pio Baldelli 
                  è molto, molto lontana dalla realtà. L'aula del 
                  Tribunale era gonfia di pubblico, di avvocati, di giornalisti, 
                  l'emozione era tangibile, in certe udienze si faceva fatica 
                  a muoversi, ci sono stati interventi della polizia per sgomberare 
                  la folla che si accalcava alle porte dell'aula già stracolma 
                  (nel film c'è solo un applausino del pubblico, subito 
                  represso dal Presidente Biotti). Bastava dare una scorsa ai 
                  giornali dell'epoca, ottobre/novembre 1970: le fotografie parlano 
                  da sole, il film no. 
                  Ancora, le piantine dei locali della Questura fornite ai giudici 
                  erano fuori scala, per cui l'ufficio dell'interrogatorio di 
                  Pinelli sembrava una stanza grande (come è poi rappresentata 
                  nel film), la scrivania aveva le dimensioni di un tavolino e 
                  le sedie bastavano a stento per un gatto. Durante il sopralluogo 
                  in Questura la realtà venne a galla: sei persone o quante 
                  erano la riempivano tutta, seduti o in piedi e con dei mobili 
                  di dimensioni normali [prendo il più “di destra” 
                  dei giornali dell'epoca: La Notte, 6 novembre 1970, la cui cronaca 
                  apre così: “La stanza è piccola, ci si muove 
                  a fatica. Una scrivania al centro, un paio di scaffali per i 
                  fascicoli, le scartoffie, qualche sedia e una poltroncina. E' 
                  la stanzetta del quarto piano...dalla finestra della quale la 
                  notte tra il 15 e il 16 dicembre dello scorso anno si buttò 
                  il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli”]. 
                  Anche di questo nel film non c'è traccia, eppure è 
                  stato uno dei momenti davvero significativi di quell'allucinante 
                  processo, ed è anche lì, oltre che nelle clamorose 
                  contraddizioni dei testimoni-poliziotti presenti al fatto, che 
                  a una persona normale non potevano non sorgere dei dubbi che, 
                  sempre per cercare di essere non faziosi, posso riassumere così: 
                  “ma che cosa si vuole nascondere?”. 
                  Senza contare tutto il resto, a partire dal fermo illegale di 
                  Pinelli, non comunicato alla Procura della Repubblica nella 
                  data in cui era avvenuto, ma solo il 15 dicembre con la falsa 
                  indicazione che era stato fermato il 14 dicembre: e nessun fermo 
                  era stato convalidato dalla Procura di Milano. 
                  Si, nel film tutto questo non c'è, come non c'è 
                  molto altro. Non c'è il “clima”, non c'è 
                  l'emozione, non c'è il pathos di una vicenda che ha segnato 
                  e stravolto storie individuali e la storia del paese. 
                
                   
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                    Milano, 
                        16 giugno 1980. L'avv. Luca Boneschi (foto Giovanna Borgese)  | 
                   
                 
                 E adesso mi arrogo il diritto di fare un po' il critico cinematografico: 
                  non è un bel film, anche se è stato premiato dal 
                  successo di critica e, immagino, di pubblico così come 
                  non è un bel libro quello cui il film si ispira (anche 
                  se, e questo è uno dei misteri del giornalismo italiano, 
                  di tanti bei libri su piazza Fontana è il solo, che io 
                  ricordi, a essere stato presentato e recensito in pompa magna 
                  dal Corriere della Sera e da un suo notissimo editorialista: 
                  forse perché semina il dubbio? è questa la chiave 
                  del successo? forse perché raddoppia i personaggi, non 
                  rispetta fatti veri e tende a dire che tutto è possibile? 
                  o che la verità non esiste?): andarlo a vedere o meno 
                  è, come scrive Carlo Oliva, una scelta personale, per 
                  noi che quella storia abbiamo vissuto. Forse se non mi avessero 
                  invitato non l'avrei visto neanch'io, come non ho mai letto 
                  il libro del figlio di Calabresi. 
                  Ma il vederlo mi ha scosso: non mi ha emozionato, per nulla; 
                  non mi ha commosso (l'ho già detto, è senza pathos), 
                  ma mi ha fatto tornare la voglia di parlare di quei fatti che 
                  spesso rimuovo perché troppo lontani e perché 
                  me li porto dietro da troppo tempo, di rimettere in discussione 
                  figure ormai intoccabili, di ricordare i particolari, di raccontare 
                  a chi non le sa le vicende di una storia che, a ricordarla, 
                  è ancora oggi sconvolgente. Ecco, il punto è questo: 
                  l'unica cosa da non fare, di fronte a quelle che si ritengono 
                  manipolazioni della storia, è tacere. 
                 Luca Boneschi 
                  Milano 
                   
                  Ergastolo 
                ostativo/Un libro per una battaglia di civiltà   
                Urla a bassa voce. Dal buio del 41 bis e finepenamai, edito 
                da Stampalternativa, e curato da Francesca de Carolis, con prefazione 
                di Don Luigi Ciotti, è un libro importante e necessario. 
                “Ci costringe ad aprire gli occhi di fronte a una realtà 
                che non ci piace. Ci obbliga a conoscere ciò che non vorremmo 
                sapere, realtà che vorremmo tenere distanti dalla nostra 
                vita e che - di fatto - ci riguardano” così Don Luigi 
                Ciotti nella prefazione al libro. Si tratta di una raccolta di 
                interventi di 36 ergastolani ostativi, quasi tutti passati per 
                il 41 bis, sparsi un po' in tutte le carceri italiane, nei circuiti 
                AS1. Per loro, dopo le leggi emergenziali in vigore a partire 
                dagli anni '90, e per via del meccanismo che ne deriva, scatta 
                quello che viene chiamato “ergastolo ostativo”, perché 
                non sono collaboratori di giustizia: la loro situazione, insomma 
                “osta” a che, anche dopo lunghi anni di carcere (e 
                c'è chi ne ha trascorsi in carcere trenta), possano ottenere 
                benefici normalmente previsti dalla legge. In pratica dal carcere 
                non escono né usciranno mai. 
                In questo libro parlano della loro condizione, di quello che pensano, 
                di quello che chiedono. Parole che aprono uno squarcio su un mondo 
                complesso e contraddittorio e pongono un interrogativo: è 
                giusto, qualsiasi cosa sia stata commessa (e qualcuno comunque 
                qui si dichiara innocente) essere “condannati” per 
                sempre? Perché, almeno in teoria, per chiunque è 
                ammessa “la redenzione” e per loro no? E non è 
                questo in contrasto evidente con il principio, contenuto nella 
                nostra Costituzione, del fine rieducativo della pena? Si tratta 
                delle stesse persone che hanno provocatoriamente chiesto a Napolitano 
                di tramutare la loro condanna in pena di morte perché, 
                dicono, “di morte viva si tratta”.   
                Il libro, a distanza di vent'anni dall'inasprimento delle leggi 
                introdotte per combattere la criminalità organizzata, pone 
                una questione di diritto e di diritti, e apre a molti interrogativi 
                sul senso della pena. Una questione forse da non accantonare, 
                pur in un momento di tante polemiche a proposito di 41 bis e dintorni, 
                o forse proprio per questo. È un tema di cui si parla grazie 
                ad organizzazioni che si occupano di diritti umani, della condizione 
                dei carcerati, all'interno del mondo carcerario, ma che trova 
                una grande chiusura nella società.   
                Don Luigi Ciotti è firmatario dell'appello contro l'ergastolo, 
                iniziativa di Carmelo Musumeci, che dal carcere di Spoleto, due 
                anni fa, aveva lanciato l'idea da cui è poi nato “Urla 
                a bassa voce”. Fra gli aderenti alla campagna contro l'ergastolo, 
                anche Umberto Veronesi che, sostenitore dell'origine ambientale 
                del male, afferma che “l'ergastolo equivale alla morte cerebrale”, 
                mentre oggi sappiamo che il nostro cervello può rinnovarsi, 
                premessa che può avere forti implicazioni sul piano della 
                giustizia.   
                Per info: francesca.deca@virgilio.it; 
                ufficiostampa@stampalternativa.it. 
                  
                   
                   
                   
                    
                 
                  
                     
                      |    I 
                          nostri fondi neri 
                             | 
                     
                     
                        
                           Sottoscrizioni. Katia Attiani (Roma) 6,00; 
                            Piero Torelli (Sermoneta – Lt) 20,00; Angelo 
                            Roveda (Milano) 5,00; Frigerio-Gilio (Lecco) 20,00; 
                            Alessandro Fico (Godega di Sant'Urbano – Tv) 
                            10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e 
                            Alfonso Failla, 500,00; Roberto Ceruti (Albisola Marina 
                            – Sv) 20,00; Gaetano Ricciardo (Vigevano – 
                            Pv) 40,00; Rino Quartieri (Zorlesco – Lo) 20,00; 
                            a/m G.B. Albani, Spazio “Sole e Baleno“ 
                            (Cesena) 30,00; Antonella Trinci (Montecatini Terme 
                            – Pt) 10,00; Mario Carleschi (Calcinato – 
                            Bs) 20,00; Egidio Colombo (Quartu Sant'Elena – 
                            Ca) 20,00; Libreria San Benedetto (Genova Sestri Ponente) 
                            22,50; Andrea Babini (Forlì) 30,00; Marco Sommariva 
                            (Genova) 30,00; Raimondo Aleddu Salaris (San Vero 
                            Milis – Or) 20,00; Andrea Cassol (Cesio Maggiore 
                            – Bl) 30,00; Rosanna Poi (Milano) 5,00; Remo 
                            Ritucci (San Giovanni in Persiceto – Bo) 20,00; 
                            Gianandrea Ferrari (Reggio Emilia) 70,00; ricavato 
                            dalla cena di sottoscrizione per “A“ tenutasi 
                            il 13 luglio presso l'Archivio-Biblioteca della Federazione 
                            Anarchica (FAI) di Reggio Emilia, 300,00; Andrea Cardin 
                            (Mira – Ve) 20,00; Claudio Venza (Muggia – 
                            Ts) saluti fraterni a Paolo, Aurora, Alba, 200,00; 
                            Ivano (Milano) 30,00; Firmino Ermanno Gaiardelli (Novara) 
                            27,00; Salvo Vaccaro (Palermo) 20,00; Enrico Moroni 
                            (Settimo Milanese – Mi) 10,00; Settimio Pretelli 
                            (Rimini) 20,00; Valentino Giorgio Vettore (Monselice 
                            – Pd) 10,00; Massimiliano Leombruni (Faloppio 
                            – Co) 5,00; Giorgio Pittaluga (Recco – 
                            Ge) 10,00; Patrizia Di Nasi (Caposele – Av) 
                            5,00; Davide Andrusiani (Castelverde – Cr) 20,00; 
                            Alessandro Spinazzi (Marghera – Ve) 50,00; Enzo 
                            Francia (Imola – Bo) 10,00; Ugo Fortunu (Signa 
                            – Fi) ricordando Milena e Gasperina, 30,00; 
                            Rino Quartieri (Zorlesco – Lo) 50,00. Totale 
                            € 1.765,50. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Claudia 
                            Pinelli (Milano); Francesco Alfano (Milano): Renato 
                            Girometta (Vicobarone – Pc); Rodolfo Altobelli 
                            (Canale Monterano – Rm); Attilio A. Aleotti 
                            (Pavullo nel Frignano – Mo); Giulio Abram (Trento); 
                            Alfonso Amendola (Salerno); Marcella Caravaglios (Messina); 
                            Luigi Balsamini (Urbino); Andrea Della Bosca (Morbegno); 
                            Patrizio Quadernucci (Bobbio – Pc).; Marco Buraschi 
                            (Roma); Fabrizia Golinelli (Carpi – Re); Giulio 
                            Zen (Gualdo Tadino) 250,00. Totale € 1.550,00 
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