società  
                ILVA, antimafia, Fornero, RAI...  
                di Antonio Cardella  
                 
                Dovunque ci si rigiri, la situazione 
                  italiana è a dir poco preoccupante. E i bocconiani al 
                  governo, aldilà delle grandi dichiarazioni, in effetti... 
                 
                 
                  Vi sono reazioni a caldo ad eventi 
                  imprevisti che illustrano più di qualunque analisi critica 
                  la natura profonda, direi, la vocazione naturale di chi quella 
                  reazione manifesta. 
                  L'emergenza ILVA ha svelato la natura berlusconiana della compagine 
                  montiana: a botta calda e in coro i ministri se la sono presa 
                  con i giudici, che, a sentir loro, hanno espropriato l'esecutivo 
                  della potestà di decidere sulla politica industriale. 
                  Naturalmente, nessuna voce dell'opposizione, nessun organo di 
                  stampa e nessun giornalista illuminato si è peritato 
                  di chiedere a questo punto agli impettiti ministri bocconiani 
                  di quale politica industriale parlassero visto che in Italia 
                  di politica industriale non si ragiona più dagli anni 
                  Sessanta del secolo passato, anni in cui le coalizioni a guida 
                  democristiana decisero di smantellare l'apparato industriale 
                  che conta (la chimica, l'energia, la cantieristica,il tecnologico 
                  avanzato) e di offrirlo a prezzi stracciati ai privati. Il risultato 
                  è che il nostro Paese è oggi privo di un polmone 
                  produttivo che costituisca l'asse portante di ogni possibile 
                  modello di sviluppo. La stessa ILVA (ex Finsider) fu venduta 
                  ai Riva nel 1995 per 1700 miliardi di vecchie lire, con la clausola 
                  vincolante che 700 di quei miliardi fossero destinati alla bonifica 
                  dei componenti inquinanti della fabbrica. Non se ne fece niente 
                  o solo molto poco se si considera che un rapporto del Ministero 
                  dell'Ambiente di due anni dopo (1997) denunciava danni all'ambiente 
                  e alle persone della stessa entità di quelli denunciati 
                  dal rapporto del Ministero della Sanità nell'agosto di 
                  quest'anno: nella popolazione che gravita intorno alla fabbrica 
                  si registra il 30% di tumori alle vie respiratorie in eccesso 
                  rispetto alle medie nazionali e il 15% in più delle malattie 
                  oncologiche in generale. Senza considerare i danni all'ambiente, 
                  alcuni dei quali pressoché irreversibili o reversibili 
                  in centinaia di anni se si smettesse subito di inquinare. 
                  In questo quadro desolante, in cui è palese l'inerzia 
                  dei governi – di tutti i governi che dal dopoguerra avrebbero 
                  dovuto decidere e sorvegliare – adesso i sepolcri imbiancati 
                  della nomenclatura bocconiana rivendicano la primogenitura ad 
                  intervenire. Ma se sono loro a decidere, poiché nessuna 
                  politica industriale può prescindere dal dettato costituzionale 
                  che tutela in prima istanza la salute dei cittadini, ci dicano 
                  come intendono procedere e con quali risorse a Taranto ma non 
                  solo, perché l'Italia è piena di territori devastati 
                  da impianti che inquinano impunemente. Penso alle raffinerie, 
                  che hanno desertificato migliaia di chilometri di costa e che 
                  continuano a minare la salute di intere popolazioni. Nella mia 
                  Sicilia, Gela nel nisseno, Priolo ed Agusta nel siracusano: 
                  chilometri e chilometri di costa ormai impraticabile, sottratta 
                  alla fruizione dei cittadini. Terreni ormai incoltivabili, allevamenti 
                  impossibili. Ci dicano, questi soloni del rigor mortis 
                  quali sono i loro piani industriali, a parte le rivendicazioni 
                  verbali e gli insulti a giudici che hanno applicato la legge. 
                  Ma è inutile attendersi una risposta da un governo il 
                  cui ministro dello sviluppo si è portato a casa le carte 
                  che gli consentano, nella pausa agostana, di preparare un disegno 
                  di legge (speriamo non un decreto) che liberalizzi quei pochi 
                  paletti che la legge vigente pone alle perforazioni petrolifere. 
                  Ci sono già oltre 150 richieste in attesa di evasione 
                  e riguardano la costa calabro-lucana e su sino alla costa emiliano-romagnola, 
                  un mare – l'Adriatico – che è un bacino praticamente 
                  chiuso e che con estreme difficoltà può smaltire 
                  l'ulteriore inquinamento di altre piattaforme petrolifere, specie 
                  se, come vorrebbe il ministro, fosse abolito il divieto di perforare 
                  entro 5 miglia marine dalla costa. 
                  È inutile girarci intorno. Questi tecnici dal volto arcigno 
                  e acrimonioso considerano l'Italia una loro colonia, da offrire 
                  a poco prezzo al profitto di pochi e alla speculazione che tutt'ora 
                  li foraggia. Basti ricordare che, in maggioranza, sono l'espressione 
                  di quel sistema bancario che è il responsabile diretto 
                  e impunito della crisi attuale. Delle popolazioni che sono in 
                  grande sofferenza non gliene importa proprio nulla. Anzi, provano 
                  insofferenza e un certo malcelato disprezzo per la plebe che, 
                  al contrario di loro, è costretta ad una vita di sacrifici. 
                  Diretti discendenti di quell'aristocrazia nera dei tempi del 
                  potere temporale del Papa-Re, si ritengono in possesso di una 
                  indiscutibile verità rivelata: sono insofferenti verso 
                  chiunque li contraddica e considerano i cittadini loro sudditi 
                  da guardare dall'alto dei loro manieri. 
                  Ci viene ripetuta ad ogni occasione la favola che il loro avvento 
                  al governo della nazione ha ridato credibilità internazionale 
                  al Paese. La verità è che con il loro mandato 
                  si è ricostituita la famiglia dei grand commis 
                  europei, turbati dalla presenza, per circa diciassette anni, 
                  di un plebeo arricchito che, in maniera certo confusa, la pensava 
                  come loro, ma che, stilisticamente, era impresentabile, con 
                  le corna esposte nelle rituali foto di gruppo e con gli irripetibili 
                  apprezzamenti sulla Merkel, per citare solo due esempi. 
                   
                    Un cumulo 
                  di macerie
                
  Adesso, ogni mattina, questi incartapecoriti esponenti clerico-moderati 
                  dell'alta burocrazia italiana si azzimano, baciano la prole 
                  che sin dalla culla ha l'avvenire assicurato, abbracciano il 
                  partner ove esistente e, con il decalogo del perfetto liberista 
                  sotto il braccio, si recano al lavoro. Sempre più spesso 
                  si fanno accompagnare all'aeroporto per raggiungere a Bruxelles, 
                  Parigi o Berlino i loro omologhi europei egualmente azzimati. 
                  Espletati i preliminari di rito, gli inchini, i baciamano, le 
                  riprese che li immortalano mentre, a passo deciso e su corsie 
                  rosse, oltrepassano la soglia di porte che prontamente si chiudono 
                  alle loro spalle, fatte tutte queste cose edificanti, si seggono 
                  attorno a enormi tavoli ovali per declinare le solite liturgie. 
                  L'austerità, gli ammonimenti agli stati non obbedienti, 
                  o non abbastanza obbedienti, la necessità di difendere 
                  l'euro da una crisi da loro stessi innescata. Tutto questo in 
                  un deficit di democrazia anche soltanto apparente, che lascia 
                  ai margini i così detti poteri elettivi: il Consiglio 
                  d'Europa e le Commissioni. 
                  A decidere tutto, in regime di autoreferenzialità, sono 
                  la Merkel (anche se negli ultimi tempi ondivaga per opportunità 
                  o necessità) e il gruppo di Francoforte, costituito dai 
                  titolari della Banca Centrale e del Fondo Monetario Internazionale, 
                  dal leader dell'Eurogruppo J.Claude Junker e dai due presidenti 
                  dell'Ue, Barroso e van Rompuy. Questi personaggi privi di qualsiasi 
                  legittimità elettiva, rappresentanti di un variegato 
                  mondo di interessi privati, emettono editti, elaborano trattati 
                  come quello di Lisbona che, tra l'altro, obbliga i governi nazionali, 
                  presenti e futuri – a prescindere dal loro colore e vocazione 
                  – a rispettare i vincoli di bilancio che si pretende vengano 
                  inseriti nelle singole Costituzioni: uno schiaffo all'autonomia 
                  politico-normativa degli Stati membri, che l'Italia dell'asse 
                  Monti-Napolitano ha subito recepito. 
                  È evidente che il fatto che l'eurozona sia ridotta a 
                  un cumulo di macerie (con una disoccupazione soprattutto giovanile 
                  drammatica e drammaticamente in crescita, con la produzione 
                  di ricchezza reale in calo o in stagnazione – in Italia 
                  il Pil è stimato in diminuzione del 2,2% – con 
                  la produzione di beni e servizi in grande sofferenza ed i consumi 
                  interni in caduta verticale) non scalfisce questi esponenti 
                  delle passioni politico-narcisistiche vissute nel chiuso dei 
                  loro ghetti, non turba questi pallidi epigoni di un continente 
                  in rapido declino, che vede aumentare in progressione geometrica 
                  i livelli di povertà anche di categorie sociali (il ceto 
                  medio) sino a qualche anno fa risparmiate. 
                   
                    Nessuno 
                  disturbi i conduttori
                  Certo Monti non ha la sfrontatezza di un Berlusconi, che, 
                  sino alla fine, ha negato la crisi (i ristoranti sono pieni 
                  – diceva – e gli aerei volano completi di viaggiatori), 
                  ma, nella sostanza, la differenza si ferma lì. Ancora 
                  alla fine di agosto, mentre tutti gli analisti e gli indicatori 
                  statistici, pubblici e privati, riportavano dati sconvolgenti 
                  sull'andamento dell'economia e sulle condizioni sociali del 
                  Paese, il duo Monti-Passera, dal pulpito a loro assai congeniale 
                  di Comunione e Liberazione, affermavano che intravedevano 
                  prossima l'uscita dal tunnel della crisi. Se gli accreditassimo 
                  la buonafede potrebbe trattarsi di un abbaglio, ma di buonafede 
                  in questo governo ce n'è davvero poca. Basti accennare 
                  alle cose che ha in programma di fare o di non fare. Ne citiamo 
                  solo alcune che sono in perfetta continuità con il governo 
                  precedente, di cui Monti stesso ha spesso rivendicato l'eredità. 
                  La ministra Fornero, nel suo attacco puramente simbolico all'art.18, 
                  ha ripetutamente affermato che gli investitori italiani e stranieri 
                  sono scoraggiati nell'impegnare i loro capitali in Italia dall'alto 
                  costo del lavoro e dalla legislazione troppo restrittiva che 
                  ne protegge i diritti. 
                  Questo approccio ideologico ai problemi della produzione e dell'occupazione 
                  nasconde il disegno di indicare un falso obiettivo che riesca 
                  a distrarre gli allocchi da una realtà alla quale, in 
                  armonia con il disegno berlusconiano, non vogliono mettere mano: 
                  ed è il controllo del territorio da parte della criminalità 
                  organizzata, con la complicità di ampi settori della 
                  politica e dei poteri pubblici. È evidente che con questa 
                  drammatica anomalia italiana la compagine governativa Napolitano-Monti-Passera 
                  intende convivere e prosperare. Non si spiegherebbe altrimenti 
                  come si possa abolire il reato di appoggio esterno all'organizzazione 
                  mafiosa; oppure intervenire pesantemente nel settore delle intercettazioni 
                  telefoniche e ambientali, che sono sempre state il cavallo di 
                  battaglia di Berlusconi, a tutela della sua impunità 
                  e dell'impunità dei suoi sodali collusi con la malavita. 
                  In questo senso è significativo l'affondo di Monti contro 
                  la procura di Palermo, mentre il tema del conflitto di attribuzione, 
                  sollevato da Napolitano, è all'attenzione della Corte 
                  Costituzionale. Se non fosse un nervo scoperto del sodalizio 
                  Monti-Berlusconi, il primo ministro avrebbe dovuto, per opportunità 
                  (e decenza), astenersi dall'intervenire sull'argomento. 
                  E, a proposito della procura di Palermo, tranne una sola eccezione 
                  (Il Fatto quotidiano) è passato in un silenzio 
                  tombale lo smantellamento del pool investigativo antimafia dei 
                  carabinieri, in blocco destinato ad altri incarichi. Dubitiamo 
                  che questo avvicendamento assolutamente anomalo e senza precedenti, 
                  sia opera esclusiva dei vertici dell'Arma: è assai probabile, 
                  invece, che, su input governativo, si sia voluto smantellare 
                  il gruppo investigativo che faceva capo al sostituto procuratore 
                  Ingroia, destinato dall'ONU a combattere per un anno il cartello 
                  della droga in Guatemala. Come non immaginare la segreta speranza 
                  di tutto l'apparato di governo e del suo suggeritore Berlusconi, 
                  che quella criminalità riservi al giudice italiano la 
                  sorte che la mano mafiosa e i suoi occulti suggeritori riservarono 
                  al generale Dalla Chiesa a Palermo, nel 1982? In connessione 
                  diretta o indiretta con il settore sin qui accennato delle collusioni 
                  tra potere statale e malavita, si inscrivono la depenalizzazione 
                  del reato di concussione, per la parte che riguarda direttamente 
                  il Berlusconi del processo Ruby, il mancato ripristino del reato 
                  di falso in bilancio e il blocco della legge anticorruzione. 
                  C'è poi la necessità che nessuno disturbi i conduttori 
                  e così ci sono in prospettiva l'approvazione di una legge-bavaglio 
                  sull'informazione, la riconsegna della Rai ad una governance 
                  di forte impronta berlusconiana e l'annunciata e mai attuata 
                  messa all'asta delle frequenze televisive, alla quale Berlusconi 
                  si oppone decisamente minacciando di togliere l'appoggio al 
                  governo. 
                  E ancora: l'avversione di Berlusconi alla tassazione delle transazioni 
                  finanziarie e ad ogni forma di patrimoniale è ostentatamente 
                  patrimonio dell'attuale governo. Alla fine di agosto, il Grilli-parlante, 
                  titolare delle finanze, ha rassicurato gli italiani che non 
                  vi è all'orizzonte nessun progetto per la tassazione 
                  dei patrimoni: evidentemente la rassicurazione era per gli italiani 
                  ricchi e non per la stragrande maggioranza degli italiani che 
                  non hanno patrimoni da proteggere. 
                  Resta la domanda che, purtroppo, non trova ancora risposta: 
                  come fa un intero popolo, in gran parte evoluto ed informato, 
                  ad accettare con rassegnazione questa melma istituzionale che 
                  minaccia di sommergerlo irreversibilmente?
                   
                  Antonio Cardella
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