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			   storia 
              Perché rapimmo il vice-console spagnolo  
              testimonianza di Amedeo Bertolo 
              raccolta da Mimmo Pucciarelli 
                 
                   
              Nel 1962, a Milano, alcuni giovani anarchici 
                  rapiscono un diplomatico del governo franchista, per ottenere 
                  la cancellazione 
                  della pena di morte per un anarchico spagnolo. Obiettivo raggiunto. 
                 
                   
                   
                  I brani che seguono 
                  sono estratti da un'intervista più ampia realizzata nel 
                  2003 nell'ambito di una ricerca internazionale sui percorsi 
                  esistenziali e politici di alcuni militanti anarchici. 
                  L'intervista completa è stata poi pubblicata in francese 
                  nel volume L'anarchisme en personnes pubblicato dall'Atelier 
                  de Création Libertaire di Lione nel 2006. 
                   
                  [...] Prima dell'estate del 1962, organizzo un'assemblea nel 
                  mio ex-liceo «Berchet» per raccogliere fondi di 
                  solidarietà con la resistenza libertaria nella Spagna 
                  franchista. Con questi soldi, una somma modesta, riesco ad acquistare 
                  un ciclostile manuale che successivamente porterò in 
                  Spagna. Ma già da qualche mese ero entrato in contatto 
                  con elementi di quell'organizzazione che si chiamava Defensa 
                  Interior, in particolare con Octavio Alberola che allora si 
                  faceva chiamare «Juan». Ed era stato allora che 
                  io e un altro mio compagno del gruppo giovanile libertario, 
                  Luigi Gerli, che al tempo studiava filosofia, c'eravamo impegnati 
                  ad andare in Spagna. Si trattava di una missione clandestina 
                  per portare dei volantini della FIJL (Federación Ibérica 
                  de Juventudes Libertarias) e dei nuovi codici di comunicazione 
                  (dopo una delle tante «cadute» di compagni dell'interno). 
                   
                    “Ero 
                  abbastanza incosciente, sai la gioventù...”
                
  Io viaggio da solo in motocicletta e il Gerli, anche lui in 
                  moto, assieme a un certo Vittorio De Tassis, che si definiva 
                  comunista rivoluzionario. Partiamo separatamente: qualche giorno 
                  prima Gerli e De Tassis, poi io. Io passo da Toulouse, dove 
                  incontro Alberola che mi dà tutte le indicazioni necessarie 
                  per la missione. Porto con me il ciclostile manuale, che nel 
                  frattempo ho camuffato da cassetta per pittore con l'inchiostro 
                  al posto dei colori e con un quadro abbozzato per darmi una 
                  copertura. Un quadro fatto da mio fratello Gianni, che sa dipingere 
                  meglio di me. In quell'epoca, era sedicenne, ma già anarchico 
                  anche lui. 
                  Una volta arrivato in Spagna, passo da Barcellona, dove incontro 
                  Jorge Conill Valls del Gruppo giovanile di quella città, 
                  poi vado a Madrid, dove incontro il Gerli, che sta finendo la 
                  sua missione. Qui non riesco a stabilire il contatto, per ben 
                  due appuntamenti successivi, con il compagno spagnolo. Non ho 
                  mai saputo per quale motivo, forse perché era stato arrestato 
                  o forse perché non era riuscito ad arrivare a tempo all'appuntamento. 
                  Dopo Madrid scendo fino a Cadice, Almería e Alicante 
                  dove ho tre contatti a cui consegno i nuovi codici e dei volantini 
                  firmati FIJL da me ciclostilati, una cosa che facevo a ogni 
                  tappa con il ciclostile manuale impiegandoci due o tre ore in 
                  camere d'albergo. 
                  Poi inizio il viaggio di ritorno. Ripasso da Barcellona, vedo 
                  di nuovo i compagni del luogo, dormo nella loro sede clandestina, 
                  una soffitta nel Barrio Gótico vicino alla cattedrale, 
                  lascio il ciclostile che avevo portato dall'Italia e riprendo 
                  la strada del ritorno. 
                  Questa missione dura un paio di settimane, tra fine luglio e 
                  inizi agosto. Per poterla fare, utilizzo i soldi che mi hanno 
                  dato i miei genitori per le vacanze. Loro sanno che vado in 
                  Spagna e mio padre sospetta che io ci vada per motivi politici 
                  in quanto sa che sono anarchico. Infatti, non è per nulla 
                  contento. Mia madre non dice nulla. Dunque non ho tanti soldi. 
                  Dormo in ostelli della gioventù o in albergacci d'infima 
                  categoria oppure nella tenda che ho portato con me. Ricordo 
                  che una notte, sulla spiaggia tra Almería e Alicante, 
                  mi sono appena messo a dormire in un sacco a pelo, quando vengo 
                  svegliato da due Guardia Civil che pattugliano la zona e che 
                  hanno visto le luci della motocicletta quando sono arrivato. 
                  In quell'occasione devo dire che la mia copertura di turista 
                  e artista ha funzionato perfettamente, non mi hanno neanche 
                  perquisito. Per fortuna, perché avevo un pacco di volantini… 
                  Quella sera ho avuto un po' di paura, ma neppure tanto, anche 
                  perché ero abbastanza «incosciente». Sai 
                  la gioventù… Avevo vent'anni… 
                   
                  E poi c'era anche l'Idea! 
                   
                  Sì, l'Idea. Pensa che all'epoca, ma questo l'ho saputo 
                  dopo, erano in corso delle retate d'anarchici, in particolare 
                  di quelli collegati con Defensa Interior. Comunque, io parlo 
                  un poco lo spagnolo, perché l'ho imparato quando mio 
                  padre aveva progettato di andare a lavorare a Portorico. Anzi, 
                  secondo Alberola lo parlo sufficientemente bene da non suscitare 
                  sospetti… ma è un'esagerazione. Diciamo semplicemente 
                  che lo parlo abbastanza da intendermi con i compagni spagnoli 
                  che vado a trovare. In conclusione, ritorno soddisfatto da questa 
                  missione e prima di rientrare in Italia passo dal campeggio 
                  internazionale anarchico che si tiene dalle parti di Marsiglia, 
                  dove conosco altra gente. 
                  Poi, a metà settembre di quel 1962, leggiamo in una breve 
                  nota di Le Monde che sono stati arrestati tre compagni 
                  di Barcellona, Jorge Conill Vals, Marcelino Jiménez Cubas 
                  e Antonio Mur Peirón, uno di loro studente universitario 
                  e gli altri due operai. Sono stati arrestati per due o tre attentati 
                  dimostrativi, di cui uno alla sede della Falange e uno a quella 
                  dell'Opus Dei. Qualche giorno dopo veniamo a sapere che sono 
                  stati condannati dal tribunale militare: pena di morte per Conill 
                  e trenta anni di reclusione per gli altri due. Allora decidiamo 
                  di fare immediatamente qualcosa per impedire l'esecuzione di 
                  questo assassinio.
                 
                   
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                    Vernazza 
                        1960 (in senso antiorario): Aimone 
                        Fornaciari, Amedeo Bertolo, non identificato, 
                        Luigi Gerli durante una gita  | 
                   
                 
                  
                    In modo 
                  abbastanza dilettantesco 
                  Prima di tutto decidiamo di prendere nuovamente contatto con 
                  i rappresentanti giovanili dei partiti, questa volta persino 
                  con i giovani cattolici (noi del Gruppo giovanile libertario 
                  eravamo solo quattro, dunque figurati cosa potevamo fare da 
                  soli), e cerchiamo di organizzare una manifestazione comune 
                  o comunque di farli muovere in qualche maniera. Ma non riceviamo 
                  nessuna risposta positiva. I giovani cattolici di «sinistra», 
                  o cattolici sociali, prendono contatto con l'allora cardinale 
                  di Milano (Montini, il futuro papa Paolo VI), ma costui risponde 
                  che la vicenda non è di sua competenza. 
                  Viste le reazioni decidiamo di andare sul pesante, cioè 
                  di sequestrare il console spagnolo di Milano per richiamare 
                  l'attenzione dell'opinione pubblica sulla vicenda dei tre compagni 
                  spagnoli e in particolare sulla condanna a morte di uno di loro. 
                  Non ricordo esattamente come si sia arrivati a prendere questa 
                  decisione, ma nei mesi precedenti si era parlato di cosa fare 
                  se fossero stati condannati dei compagni spagnoli e fra le ipotesi 
                  evocate c'era anche quella di agire sulle rappresentanze diplomatiche 
                  e i suoi funzionari. In via teorica se n'era dunque già 
                  parlato. Ma in sostanza, dopo la condanna a morte del compagno 
                  spagnolo e la mancata reazione degli altri giovani a cui ci 
                  eravamo rivolti, abbiamo deciso precipitosamente (ma i tempi 
                  non consentivano di tergiversare) di prendere in ostaggio il 
                  console spagnolo di Milano. 
                  Organizziamo quest'azione in modo abbastanza dilettantesco, 
                  ma la cosa funziona ugualmente. Il nostro gruppetto di libertari 
                  milanesi – ovvero io, Luigi Gerli, Gianfranco Pedron e 
                  Aimone Fornaciari – decide di coinvolgere nel progetto 
                  anche De Tassis, che ha partecipato alla missione in Spagna, 
                  e un paio di giovani socialisti di sinistra veronesi che studiano 
                  all'università di Milano, con i quali abbiamo già 
                  avuto diversi incontri e discussioni. Decidiamo di coinvolgerli 
                  non solo perché non siamo sufficienti per compiere quest'azione, 
                  ma anche perché ci serve qualcuno che abbia la patente 
                  per poter guidare un'automobile. Inoltre abbiamo bisogno di 
                  una pistola... 
                   
                  Una sola? 
                   
                  Una l'avevamo già... un residuato della Resistenza... 
                  Il 27 settembre 1962 arriviamo davanti al consolato spagnolo 
                  con un'automobile noleggiata a Verona su cui all'ultimo momento 
                  è stata attaccata una targa falsa. O meglio una targa 
                  di cartone provvisoria tolta a un'altra automobile (una volta 
                  davano delle targhe provvisorie di cartone per i primi mesi 
                  di circolazione delle automobili). Il progetto è di entrare 
                  nel consolato e lì fare il necessario per prendere in 
                  ostaggio il console. Ma quando arriviamo il consolato è 
                  già chiuso perché siamo arrivati con cinque o 
                  dieci minuti di ritardo sull'orario d'apertura degli uffici. 
                  Come ti ho detto, eravamo dilettanti... ma forse la fortuna 
                  assiste i dilettanti perché ripieghiamo agevolmente su 
                  un altro piano. 
                  Andiamo dapprima a casa del vice-console, perché nel 
                  frattempo abbiamo saputo che il console è in ferie e 
                  il suo posto è attualmente occupato dal suo vice, che 
                  si chiama Isu Elías. Quando arriviamo in Via Vincenzo 
                  Monti, dove abita questa persona, non ci sembra granché 
                  opportuno tentare di rapirlo lì perché il suo 
                  palazzo è proprio di fronte a una caserma dei carabinieri... 
                  Allora ripieghiamo su un piano più fantasioso. Telefono 
                  al vice-console spacciandomi per il segretario del vice-sindaco 
                  di Milano e lo invito a pranzo il giorno successivo dicendogli 
                  che sarei andato a prenderlo con un autista per portarlo al 
                  ristorante. 
                  Il giorno dopo telefoniamo per conferma al consolato. L'autista 
                  è un veronese, Alberto Tomiolo, che ha noleggiato l'automobile 
                  solo per un paio di giorni perché i soldi che abbiamo 
                  a nostra disposizione non sono tanti. È l'unico della 
                  «banda» che ha la patente per guidare un'automobile. 
                  Per l'occasione indossa il mio vestito grigio scuro (quello 
                  che mettevo per andare alle «feste») e un berretto 
                  d'autista che ero andato a comprare il giorno prima. 
                  Arrivati al consolato, Aimone Fornaciari rimane a fare il palo 
                  all'angolo di Via Ariberto. De Tassis, che è quello che 
                  ha l'aria più matura fra di noi, sale negli uffici per 
                  andare a prendere il vice-console, proprio come se fosse il 
                  segretario del vice-sindaco. Ridiscende, infatti, con il vice-console. 
                  L'autista, Tomiolo, allora esce dall'automobile, apre la portiera 
                  e fa salire il vice-console Elías. De Tassis si siede 
                  davanti e ai due lati del vice-console saliamo io e Pedron, 
                  impugnando le pistole...
                   
                   
                    Gran 
                  clamore della stampa 
                
  Partiamo verso una baita situata in un paesino vicino alla 
                  frontiera svizzera che abbiamo da un anno circa in uso gratuito. 
                  Si tratta di un rustico, una ex-stalla. È lì che 
                  abbiamo deciso di tenere sequestrato il nostro ostaggio. Senza 
                  entrare in ulteriori dettagli della vicenda, diciamo che abbiamo 
                  tenuto lì il vice-console per tre giorni. Naturalmente 
                  sulla stampa c'è un gran clamore. Infatti, rivendichiamo 
                  subito il sequestro in nome della Federazione internazionale 
                  della gioventù libertaria, chiarendone le motivazioni, 
                  cioè la condanna a morte del compagno spagnolo, e chiedendo 
                  come contropartita una commutazione della pena. 
                  Ma la faccenda si fa subito un po' intricata perché il 
                  Tomiolo, tornato a Verona e forse impaurito, anziché 
                  starsene buono com'era stato programmato e lasciarci gestire 
                  il seguito della vicenda, si confida con un avvocato suo amico. 
                  Il quale gli dice di non fidarsi degli anarchici, perché 
                  sarebbero inaffidabili e la cosa potrebbe volgersi in dramma, 
                  e gli suggerisce di far liberare di sua iniziativa il vice-console 
                  prendendo contatto con i giornalisti di un quotidiano paracomunista, 
                  Stasera, che usciva allora a Milano. 
                  Noi veniamo a sapere di questa «interferenza» e 
                  decidiamo di accelerare i tempi della liberazione per anticipare 
                  le mosse del Tomiolo e dei giornalisti di Stasera. Noi 
                  nel frattempo avevamo preso accordi con alcuni compagni spagnoli, 
                  con Alberola in particolare, per consegnare il vice-console 
                  a loro affinché lo portassero a Ginevra e lo rilasciassero 
                  nella sede di qualche organizzazione delle Nazione Unite chiudendo 
                  così la vicenda con un atto clamoroso. Sennonché 
                  dobbiamo rinunciare a questo piano perché c'è 
                  l'interferenza dovuta ai timori del Tomiolo. Allora decidiamo 
                  di liberarlo per conto nostro. Prendo contatto con il giornalista 
                  Nozzoli del quotidiano milanese Il Giorno (un giornale 
                  all'epoca di centro-sinistra) e salgo con lui alla baita per 
                  liberare il vice-console in sua presenza. Ma, quando arriviamo 
                  lassù, il vice-console non c'è più e neanche 
                  De Tassis che era il suo guardiano. 
                  Infatti nel frattempo si è messa in moto un'ulteriore 
                  interferenza: un giornalista di un settimanale scandalistico, 
                  ABC, ha raccolto voci a sufficienza nell'ambiente frequentato 
                  dai veronesi e dal De Tassis – un ambiente d'artisti e 
                  finti artisti, gente di sinistra, sfaccendati, eccetera – 
                  da risalire fino alla baita e al vice-console. E costui arriva 
                  sul posto mezz'ora prima che arrivassimo io e Nozzoli. Il De 
                  Tassis, convinto che fosse il giornalista mandato da me, gli 
                  consegna il vice-console... 
                   
                  All'epoca non c'erano i telefonini... 
                   
                  Non c'era neanche quello fisso nella baita, dove mancava anche 
                  una parete... E così, convinto che questo giornalista 
                  fosse mandato da me, gli consegna il vice-console e scende con 
                  lui fino a Varese dove si fa lasciare, mentre il giornalista 
                  conduce il vice-console a Milano e fa lo scoop. Ho saputo solo 
                  recentemente che questo giornalista, Nino Pulejo, era all'epoca 
                  stipendiato dai servizi segreti. Non so se questo c'entrasse 
                  con la liberazione del vice-console... certo c'entrava con il 
                  suo orecchiare i discorsi nell'ambiente di Brera. 
                  Dunque, arrivato alla baita e scoperto che non c'è più 
                  nessuno, torno a Milano dove ci dormo un poco sopra. La mattina 
                  dopo, sul presto, contatto Gerli e Pedron, li avviso di quanto 
                  è avvenuto e suggerisco loro di tagliare la corda. Gerli 
                  decide di scappare per conto suo e con i suoi mezzi, mentre 
                  Pedron decide di non scappare e di rischiare l'arresto, come 
                  poi puntualmente è avvenuto. Io mi affido per la mia 
                  fuga al movimento anarchico, soprattutto a Franco Leggio e ai 
                  compagni da lui conosciuti. In effetti, riesco ad andarmene 
                  da casa qualche ora prima che arrivi la polizia, dopo un ultimo 
                  abbraccio a mia madre piangente, cui avevo raccontato della 
                  mia responsabilità nel sequestro. Nel frattempo la polizia 
                  ha identificato la baita e Pedron, che è il nipote di 
                  un abitante di quel paese [Cugliate Fabiasco]. Dopo averlo fermato 
                  lo interroga, e lui quasi immediatamente racconta la vicenda. 
                  Del resto non ha indicazioni di tacere perché a quel 
                  punto, una volta trovata la baita, si trova anche il gruppo 
                  di giovani che lì si riunivano e quindi la loro identificazione 
                  è solo questione di tempo. 
                   
                    Quel 
                  conto aperto con l'oste anarchico
                  Come ho detto, io riesco ad allontanarmi da Milano e vado 
                  a Genova, dove resto un paio di giorni a casa di Carlo Boccardo, 
                  un operaio metallurgico, poi da lì passo alla casa di 
                  Dino Fontana, un compagno individualista, un tipo pittoresco: 
                  esperantista, naturista, vegetariano, sarto, fautore del libero 
                  amore, cioè quel tipo d'individualismo all'E. Armand. 
                  Abita in provincia di Novara, a Carpignano Sesia, dove rimango 
                  per una quindicina di giorni. Poi passo a Domodossola, vicino 
                  alla frontiera, a casa di un altro compagno, Dante Remi, e ci 
                  rimango il tempo necessario per organizzare il mio espatrio. 
                  Passo le Alpi. Mi guida un compagno esperto di passaggi in queste 
                  montagne perché è un raccoglitore d'erbe medicinali 
                  che va a cogliere in Svizzera, un'attività che non credo 
                  fosse «legale». In ogni modo, grazie a questa sua 
                  attività conosce bene i passaggi. Mi accompagna dunque 
                  dapprima in motoretta, poi facciamo due ore a piedi fino a un 
                  rifugio dove passiamo la notte. La mattina successiva mi accompagna 
                  al colmo di un passo dove mi lascia da solo. Nel frattempo, 
                  sul versante svizzero ha incominciato a nevicare e la neve mi 
                  arriva già a metà polpaccio. A quel punto lui 
                  ritorna indietro e mi dice di andare sempre dritto che avrei 
                  trovato la strada. E io vado avanti. Vestito da città, 
                  procedo con qualche difficoltà aiutato da una borraccia 
                  d'acquavite. Mi ricordo che a un certo punto quasi cado in un 
                  ghiacciaio perché, camminando dritto nella neve, mi trovo 
                  a scivolare a qualche metro da questo ghiacciaio. 
                  In ogni caso l'acquavite mi aiuta a superare senza timore l'avventura, 
                  cioè aggiunge alla mia incoscienza giovanile anche un 
                  poco d'incoscienza etilica, e arrivo infine, bagnato, inzuppato, 
                  alla strada. Lì faccio l'autostop e riesco a farmi accompagnare 
                  fino alla stazione ferroviaria di Briga. Qui mi asciugo alla 
                  stufa della stazione e prendo il treno per Ginevra, dove sono 
                  ospitato da Pietro Ferrua, che il giorno successivo mi accompagna 
                  in automobile attraverso la frontiera fino in Francia. Di lì 
                  parto per Parigi, dove sono preso in consegna dai compagni spagnoli 
                  che mi danno in uso un mini-appartamento in una delle loro «case 
                  sicure», dove rimango fino alla vigilia del processo. 
                  Nota di colore che si aggiunge alla vicenda: avevo allora un 
                  «conto aperto» con il gestore di una trattoria di 
                  Parigi che era un anarchico italiano abbastanza anziano di cui 
                  ora non ricordo il nome. Costui mi dava da mangiare gratuitamente 
                  ogni qual volta mi presentavo nel suo locale sapendo i motivi 
                  per i quali mi trovavo a Parigi. Ecco, tutta la mia fuga è 
                  stata costellata da anelli di solidarietà anarchica. 
                  Sono rimasto a Parigi fino alla vigilia del processo, che è 
                  stato fissato con una rapidità straordinaria per la metà 
                  di novembre. Decido quindi di ritornare in Italia, ma prima 
                  rilascio un comunicato stampa all'AFP dove preannuncio che mi 
                  costituirò. Rifaccio il percorso a ritroso, ma questa 
                  volta attraverso il confine a Lugano, o meglio a Chiasso e più 
                  precisamente attraverso un valico minore vicino Chiasso... 
                   
                  Viaggiavi sempre con la pistola che avevate usato per 
                  il sequestro? 
                   
                  No, l'aveva seppellita mio fratello in un campo vicino a casa 
                  mia. E devo dire che quando un giorno siamo andati a riprenderla 
                  non l'abbiamo più trovata... 
                  Attraverso quindi questo valico minore con uno dei miei due 
                  avvocati, dormo a casa sua e il giorno dopo mi presento clamorosamente 
                  all'udienza fingendo di essere il suo giovane d'ufficio che 
                  gli portava la borsa in tribunale. Una volta entrato mi consegno 
                  ai giudici. A quel punto c'è subbuglio in aula perché 
                  la polizia aveva fatto blocchi stradali e ferroviari per prendermi 
                  dopo che avevo annunciato il mio ritorno. Come ultima beffa 
                  c'è dunque stata questa mia libera consegna, e non l'arresto, 
                  com'era capitato a tutti gli altri attori e complici (conosciuti).
                 
                   
                    |   | 
                   
                   
                    Varese, 
                        novembre 1962: Amedeo 
                        Bertolo e Gianfranco Pedron 
                        ammanettati durante le fasi del processo  | 
                   
                 
                  
                    Il processo, 
                  un successo 
                  Il processo è una grande occasione di propaganda antifranchista. 
                  C'è un gran clamore sulla stampa... Ma non dimentichiamoci 
                  che a questo punto la notizia più importante è 
                  che la condanna a morte è stata nel frattempo commutata. 
                  Infatti, dopo la vicenda del vice-console, la notizia di quella 
                  condanna era uscita in prima pagina su tutti i quotidiani e 
                  i partiti si erano finalmente mossi, soprattutto i comunisti 
                  che avevano organizzato delle manifestazioni. Solo a quel punto 
                  il cardinale Montini si decide anche lui a chiedere clemenza 
                  al cattolicissimo Franco. Così, grazie a questa mobilitazione, 
                  la pena di morte viene commutata in trenta anni di galera e 
                  la pena carceraria degli altri due viene ridotta. La nostra 
                  azione ha dunque avuto un esito positivo per i compagni spagnoli, 
                  così come il processo lo ha avuto per la diffusione delle 
                  idee libertarie e per la solidarietà con la Spagna antifranchista. 
                  Il processo ha rappresentato un successo anche per noi perché 
                  abbiamo ottenuto una pena minima, in pratica il minimo consentito 
                  dalla legge: sei mesi di reclusione per sequestro di persona 
                  e venti giorni per detenzione d'armi, con la concessione dell'attenuante 
                  per aver agito per motivi di «alto valore morale e sociale». 
                  Credo che per la prima volta sia stata concessa per fatti politici 
                  questa attenuante, che era normalmente utilizzata per i «delitti 
                  d'onore». 
                   
                  Quando lo avete sequestrato, come ha reagito il vice-console? 
                   
                  Era molto impaurito. Mi ricordo che quando siamo usciti dall'automobile, 
                  su in montagna, ci ha detto: «Se dovete ammazzarmi ditemelo 
                  prima, così prego». Noi gli abbiamo risposto: «Non 
                  preoccuparti, non siamo fascisti [sorride], è 
                  Franco che ammazza!». E lui: «A me non risulta...». 
                  In ogni modo, dopo un po' si è reso conto che non avevamo 
                  intenzione di fargli del male, oltre al fatto che lo avevamo 
                  sequestrato... 
                   
                  Il processo finisce bene... 
                   
                  Siamo condannati come dicevo al minimo della pena e siamo scarcerati 
                  tutti per sospensione della pena. In realtà io sono rimasto 
                  in carcere solo il tempo del processo, una decina di giorni, 
                  mentre gli altri sono rimasti tra un mese e un mese e mezzo 
                  a secondo del momento in cui sono stati arrestati. 
                   
                  Che cosa hanno fatto durante tutto questo episodio i vecchi 
                  anarchici? 
                   
                  Cosa vuoi che potessero fare... Ne hanno parlato su Umanità 
                  Nova e su L'Agitazione del Sud, naturalmente con 
                  termini entusiastici riferendosi a questi «bravi giovani 
                  che riscoprono gli ideali libertari». E hanno raccolto 
                  soldi per le spese legali. 
                   
                  Cosa hanno fatto in seguito Luigi Gerli, Gianfranco Pedron 
                  e Aimone Fornaciari? 
                   
                  Pedron ha abbandonato la militanza anarchica dopo il processo 
                  e ha continuato a studiare alla Facoltà di Agraria, dove 
                  ho studiato anch'io e dove si è laureato circa un anno 
                  dopo di me. Poi non ho più saputo nulla di lui. Gerli 
                  ha interrotto gli studi universitari e ha svolto varie attività. 
                  Ha trascorso un paio d'anni in Finlandia e poi è tornato 
                  in Italia. Da allora l'ho visto saltuariamente fino al 1967 
                  e poi non l'ho quasi più visto. Aimone Fornaciari si 
                  è trasferito in Finlandia poco dopo il processo, dapprima 
                  a tagliare alberi, poi con il passar degli anni a insegnare 
                  Italiano. Continua a ricevere la nostra stampa, legge i libri 
                  di elèuthera, è abbonato ad A e Libertaria 
                  e periodicamente ci sentiamo.
                    
                  intervista a cura di Mimmo Pucciarelli
                 
                   
                    |   | 
                    Questa testimonianza 
                        di Amedeo Bertolo è estratta dall'intervista pubblicata 
                        nel volume  l'Anarchisme 
                        en personnes, edita dall'Atelier de création 
                        libertaire di Lyon nel 2006. 
                       Per lo stesso volume, 
                        oltre ad Amedeo, hanno raccontato la loro storia altri 
                        amici e una amica ben conosciuti da “A“ rivista 
                        anarchica: Eduardo Colombo, Ronald Creagh, John Clark, 
                        Marianne Enkell e José Maria Carvalho Ferreira. 
                         
                        Per riceverne una copia (prezzo “speciale“: 
                        € 10,00) le richieste vanno fatte a: 
                        ACL, BP 1186, F - 69202 Lyon cedex 01, Francia,  
                        oppure scrivendo un'e-mail a: 
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