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 percorsi di vita  
                 
a cura di Ascanio Celestini e Alessio 
                  Lega  
                foto di Paolo Navalesi ed Eleonora Pellegri,  
Fino al cuore della rivolta, Fosdinovo   
 
 Incrocio 
                  di sguardi  
                 
Cominciamo da “Pro patria” 
                 Il libro ce l'ho nelle mani da oggi 10 di maggio. Dunque l'ho 
                  chiuso un paio di mesi fa. Dunque l'ho scritto a novembre. Dunque 
                  la lunga chiacchierata, dalla quale il libro prende le mosse, 
                  risale alla fine d'agosto 2011, dentro una Roma torrida. 
                  Perciò del nuovo spettacolo di Ascanio “Pro patria”, questo libro è impregnato interamente, perché 
                  lui ci stava lavorando a rotta di collo. Quando anch'io ho visto 
                  questo spettacolo ne sono uscito sconvolto, emozionato, intenerito, 
                  turbato, divertito, inorridito... mi resta una constatazione 
                  che vorrei condividere con tono moderato ma con certezza incrollabile: 
                  Celestini è un genio. Sono proprio contento di aver avuto 
                  la ventura di lavorare con lui e, in particolare, che questo 
                  nostro libro esca mentre lui è impegnato nella tourné 
                  di un capolavoro come “Pro patria”, il suo spettacolo 
                  più anarchico, il più anarchico degli spettacoli 
                  che abbia visto. 
                  “Pro patria” è uno spettacolo sulla galera, 
                  fa parte del filone anti-istituzionale di Ascanio, come già 
                  “Fabbrica” e “La pecora nera. Elogio funebre 
                  del manicomio elettrico”. 
                  Il protagonista di “Pro patria” – Ascanio 
                  che è da solo in scena – è un detenuto che 
                  elabora il proprio discorso all'umanità, che lo ripassa 
                  e lo rivede, lo ripercorre e lo chiosa continuamente, se lo 
                  studia e lo approfondisce. Il suo monologo è in realtà 
                  un dialogo serrato con un Giuseppe Mazzini, muto e accigliato 
                  super-io. 
                  A fare da sfondo a questo monologo/dialogo c'è la vita 
                  priva di vita dell'ergastolano in mezzo ad altri reclusi, l'arroganza 
                  ridicola e crudele dei secondini. La tragedia della detenzione, 
                  resa acuta dalle reminiscenze del passato, dall'emergere dalle 
                  nebbie del ricordo della figura paterna, che echeggia la reale 
                  figura di Nino, il padre di Ascanio. 
                  L'ardita, durissima verità storica proposta dallo spettacolo 
                  è che una rivoluzione repubblicana e anarchica è 
                  stata interamente travisata nel nostro risorgimento. Le figure 
                  di Mazzini, Orsini, Pisacane, dei martiri della Repubblica romana, 
                  rivivono e, nella dimessa chiave di Celestini, senza ombra di 
                  retorica, giganteggiano in una rievocazione di bellezza, epica 
                  e commovente. Come faccia Ascanio – sobrio, ironico e 
                  demistificante – a rendere tanto pathos, è mistero 
                  che attiene alla sua eccellenza di scrittore e di attore. 
                  La chiave dello spettacolo è proprio nel filo che collega 
                  questa rivoluzione tradita a quelle che l'hanno seguita. Lo 
                  Stato italiano nasceva proprio sulle sue ceneri, anzi, faceva 
                  delle ceneri di questi rivoluzionari il proprio mito di fondazione. 
                  Ma, ci dice in conclusione Ascanio, questi non sono mai stati 
                  “patrioti”, sono stati dei terroristi, e i luoghi 
                  che paradossalmente più “onorano” (sia detto 
                  davvero fra virgolette) la loro memoria sono le carceri italiane: 
                  fra le peggiori al mondo per affollamento, per tasso di suicidio, 
                  per violenze subite, per disumanità. 
                  In quelle carceri c'è l'eco della vita e delle idee di 
                  Mazzini, Pisacane e compagnia, quelle carceri sono il più 
                  sincero tributo alla loro volontà di cambiamento. 
                  La rivoluzione sognata dai repubblicani e dagli anarchici che 
                  “fecero l'Italia” non è conciliabile con 
                  alcuno Stato – e in particolare con lo Stato della Repubblica 
                  italiana – perché questo Stato non esiste senza 
                  le sue prigioni, perché la prigione è l'essenza 
                  stessa dello Stato: senza di essa questo Stato si accartoccerebbe 
                  fino a scomparire. Se volete visualizzare il rapporto fra gli 
                  ideali dei martiri del risorgimento e lo Stato italiano, non 
                  cercate la statua di Garibaldi, guardate le ultime immagini 
                  di Stefano Cucchi, di Federico Aldrovandi, di Carlo Giuliani. 
                   
                  Qualche stralcio 
                  La premessa del libro 
                   
                  Le parole di Ascanio Celestini sono un corso inarrestabile, 
                  con mille affluenti. Ascanio è un predicatore medievale 
                  senza dottrina, con cento saperi. Ascanio è un teatrante 
                  nel cui parlare vivono voci. È raro che il suo discorso 
                  sia diretto. È raro che Ascanio sia un ‘io' premesso 
                  a tutto un discorso. Ascanio non è un trattato aristotelico, 
                  piuttosto è un dialogo platonico. Vive prima della scrittura, 
                  e riesce a far vivere anche le cose scritte. 
                  Alle domande dirette le risposte di Ascanio prendono la piega 
                  della messa in scena a più voci. Nel suo parlare continuano 
                  a materializzarsi centinaia di personaggi, veri personaggi della 
                  realtà, ipotetici personaggi di un dialogo interiore. 
                  Se ci sono più di tre frasi nel suo discorso c'è 
                  già una drammaturgia. 
                  Ascanio ti sta parlando di una cosa, una cosa qualsiasi, 
                  si arresta un secondo – un lunghissimo secondo, visto 
                  che in un secondo lui infila dieci parole – come per dire 
                  «due punti», come per fare un esempio, e lì 
                  entrano in scena dei personaggi. Il monologo si sdoppia. Si 
                  direbbe che, come i suoi matti, Ascanio sia abitato da voci, 
                  decine di voci che continuamente commentano e mettono in dubbio 
                  o confermano o danno una lettura alternativa di ciò che 
                  lui ti sta dicendo. Abitato da queste voci, Ascanio ha trovato 
                  un modo di farle sgorgare, di liberarsi di questo fiume di frammenti 
                  di pensieri che lo attraversano costantemente, che rischiano 
                  di ingorgarlo. 
                  Il fluire della voce, l'organizzazione del pensiero, la forma 
                  dell'espressione, questo dialogo fra sé e sé – 
                  con me per testimone – sono un viaggio, nuovo e straordinario, 
                  nelle follie e nelle possibilità del nostro tempo. Quello 
                  che ho qui registrato è in fondo uno spettacolo di Ascanio. 
                  Mi sento anche di dire che è una bellissima storia, anzi, 
                  come “Cecafumo”, come “Fabbrica”, come 
                  “Scemo di guerra”, è molte bellissime storie 
                  tutte assieme. 
                  
                  A.L. 
                 
                
                 
                   
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                    Milano, 
                        17 maggio, chiostro del Piccolo Teatro.  
                        Ascanio Celestini e Alessio Lega durante la  
                        presentazione del loro libro/conversazione 
                        (foto Roberto Gimmi)   | 
                   
                 
                
				
                  I matti 
                  Alessio: Hai citato anche il caso di Franco Mastrogiovanni, 
                  che nella sua storia incontra due volte la repressione, la prima 
                  negli anni settanta perché anarchico, e questo gli rovina 
                  la vita. La seconda nel 2009 perché considerato matto, 
                  e questo proprio gliela toglie la vita. È una vittima 
                  predestinata, una vittima al quadrato. I matti ti stanno a cuore, 
                  e ti sta a cuore anche quel grande liberatore che fu Franco 
                  Basaglia. 
                  Ascanio: Franco Basaglia mi sta a cuore proprio perché 
                  ha fatto esattamente il contrario del lavoro di mutazione linguistica, 
                  lui ha detto «i matti non esistono». Voleva dire 
                  nessuno è soltanto 'matto'. 
                  Sentire le voci è una cosa drammatica, perché 
                  le voci le senti davvero e non le distingui dalla gente che 
                  ti parla. Però uno che sente le voci può essere 
                  – per esempio – un grande enologo. Allora chi è? 
                  «è uno che fa un vino straordinario». Ma 
                  quello è un grande enologo o è un matto? 
                  Nessuno è solamente 'un matto'. Così come uno 
                  che si rompe la gamba è uno con l'osso rotto, che però 
                  è anche uno che scrive libri o li legge o uno che cucina 
                  molto bene, o magari è un gran rompicazzo… ma 
                  certo lui non è solo la sua gamba rotta. 
                  Che cos'è 'la disabilità'? È un altro processo 
                  linguistico, una sineddoche: la parte per il tutto. Tu diventi 
                  'quello che sente le voci'. Diventi 'lo zoppo'. Diventi 'il 
                  cieco'. 'Il sordo'. 'Il nullafacente'. 'Quello che compie reati'. 
                  Se invece pensi che abbia un senso riportare quell'individuo 
                  all'interno di tutto quel tessuto che è 'la società', 
                  tu non devi lavorare sul fatto che è 'un ladro', quasi 
                  non glielo devi dire. Perché più tu lavori sul 
                  fatto che è 'un ladro' – pur dicendo che non bisogna 
                  rubare – più tu insisti sull'elemento che lo pone 
                  'al di fuori' della società. Il carcere, il manicomio, 
                  sono luoghi 'confinati', sono luoghi al di fuori della società. 
                  Visto che la gente si ammala delle stesse malattie, dentro e 
                  fuori il carcere, perché non curarli tutti nello stesso 
                  posto? O meglio, allo stesso modo. In effetti anche l'ospedale 
                  è un luogo confinato, in cui si favorisce il contagio 
                  delle malattie, come in carcere il contagio delle devianze. 
                  In questi centri di cura territoriali, tu curi l'ergastolano 
                  accanto al bambino che ha la varicella – con un po' di 
                  attenzione, certo – ma in maniera che tu fai sentire il 
                  bambino vicino a una persona che altrimenti lui vedrebbe solo 
                  in televisione come un mostro, e il mostro vicino a una persona 
                  accanto alla quale, probabilmente, si sentirà un po' 
                  meno mostro. Invece noi tendiamo a cogliere nell'individuo l'unico 
                  comportamento deviante e azzerare tutto il resto per isolarlo. 
                  Questa cosa non è solo sbagliata – io sono ideologicamente 
                  contrario – ma è pure inutile, stupida. Non funziona. 
                  Se tiro un muro da una parte metto i buoni, dall'altra i cattivi. 
                  I cattivi li metto in galera, i buoni stanno fuori. Se funzionasse, 
                  capirei... ma non funziona! 
                  Se io metto da una parte i malati, dall'altra i sani, se funzionasse, 
                  avrei fatto un 'lager', però utile a qualcosa. Invece 
                  non funziona. Visto che non funziona e continua a non funzionare 
                  da due o tre secoli, tanto vale prendere un'altra strada. 
                   
                  La lotta di classe 
                  Alessio: Nei tuoi spettacoli più maturi la riflessione 
                  si è appuntata su tre istituzioni: fabbrica, manicomio, 
                  carcere, rispettivamente negli spettacoli “Fabbrica”, 
                  “La pecora nera”, e in quest'ultimo “Pro 
                  Patria”. Tutte queste istituzioni hanno dei muri. 
                  Anche il precariato è una prigione, è una fabbrica, 
                  ma le sue mura sono invisibili. La condizione precaria dilaga 
                  per tutta la vita, la imbratta. Impedisce di decidere in quale 
                  direzione muoversi, impedisce la scelta. È un limbo globale 
                  senza confini. Per fare una lotta – anche quella di classe 
                  – ci vuole un ring, ma il ring è smaterializzato. 
                  Ascanio: Sanguineti diceva «la lotta di classe 
                  la fanno solo i padroni». 
                  In questa nuova lotta condotta dai padroni non c'è più 
                  il muro, dunque come fai a buttarlo giù? Oggi sei vuoi 
                  fermare la produzione cosa fai? vai a fare un picchetto in Cina? 
                  in Corea del Sud? a Taiwan? dove vado a fermare il krumiro che 
                  entra in fabbrica al posto mio, io che sto a Segrate? 
                  Ecco perché oggi diventa sempre più interessante 
                  il conflitto territoriale. Noi non siamo assolutamente in grado 
                  di interagire con chi sposta il metano da un gasdotto siberiano. 
                  Però so che, se stanno facendo un inceneritore ad Albano, 
                  io lì qualcosa posso farla. Lì io quella cosa 
                  la posso fermare. Da lì posso riorganizzare tutto un 
                  discorso. Perché se io vado dal mio vicino di casa a 
                  parlargli del gas libico, quello mi risponde «ma che mi 
                  frega del gas libico, come posso io interagire se manco so chi 
                  c'è oggi al posto di Gheddafi. Con chi parlo? con l'ENI, 
                  con IMPREGILO? E se, nel momento in cui si viene a sapere che 
                  Gheddafi è morto, IMPREGILO prende un sacco di punti 
                  in borsa, io non so neanche cos'è IMPREGILO, non so cosa 
                  sta facendo l'ENI... come faccio? andiamo in Libia? macché 
                  davvero? ma in quanti? un milione? per fermare e cambiare cosa?». 
                  Invece, se tu spieghi che ad Albano l'acqua già non è 
                  potabile, che per quell'inceneritore serve un sacco d'acqua, 
                  e lì di acqua ce n'è proprio poca... allora quello 
                  lì capisce, perché gli stai parlando di quello 
                  che esce dal rubinetto di casa sua. Così, immediatamente, 
                  tu stai parlando di monnezza, di consumi, di energia. Di qualcosa 
                  che è relativo ad Albano, ma anche al pianeta e alla 
                  vita sul pianeta. Sono discorsi che ormai riesci a fare solo 
                  a livello territoriale e che a parere mio funzionano molto. 
                   
                  Alessio Lega 
                  alessio.lega@fastwebnet.it 
                 
                
                   
                    |   80 
                        anni divisi a metà  | 
                   
                   
                     Ascanio 
                      Celestini  
                      (Roma, 1972) è la voce più nota del teatro 
                      di narrazione, al quale arriva da una formazione non accademica 
                      e da studi di antropologia. Interessato all'oralità, 
                      reinterpreta con grande originalità le formule della 
                      letteratura e della storia popolare, proponendo un teatro 
                      fortemente innovativo basatosu monologhi di narrazione torrenziale. 
                      In men o di vent'anni produce più di dieci spettacoli, 
                      scritti e messi in scena interamente da lui, riscuotendoun 
                      enorme successo di pubblica e di critica. Negli stessi anni 
                      pubblica anche quattro romanzi, svariati racconti teatrali, 
                      una raccolta di favole, un album da cantautore, un documentario 
                      sul precariato (Parole sante) e un film (La pecora 
                      nera), che dirige e interpreta, presentato in concorso 
                      al festival del cinema di Venezia nel 2010. Trova anche 
                      il tempo di collaborareassiduamente con la radio, approdando 
                      infine in televisione con brevimonologhi a cadenza settimanale 
                      che, nel programma Parla con me di Serena Dandini, 
                      lo rendono noto al grande pubblico. E inviso ai potenti.  
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                     Alessio 
                        Lega 
                        (Lecce, 1972), caparbiamente convinto che cambiare il 
                        mondo sia sempre possibile, anche con la musica, ha iniziato 
                        a scrivere canzoni nel 1985. Da allora, per scelta più 
                        «cantapoeta» che cantautore, ha tenuto centinaia 
                        di concerti in tutta Italia e ha inciso cinque cd che 
                        gli sono valsi due nomina-tion e una Targa al Premio Tenco 
                        (quest'ultima nel 2004 con l'album Resistenza e amore). 
                        Storico della canzone d'autore, nelle tante espressioni 
                        che ha assunto in tutto il mondo, ha anche pubblicato 
                        il libro Canta che non ti passa (Stampa Alternativa, 
                        2008). 
                        
                        
                       
                       
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                Soltanto ore d'aria  
                di Laura Antonella Carli 
                 
                  
                  In margine all'ultimo spettacolo teatrale di Ascanio Celestini 
                     
                    Ma bisogna anche, e forse soprattutto,  
                    porre il problema inverso:  
                    come si è fatto perché gli uomini  
                    accettino il potere di punire,  
                    o semplicemente, essendo puniti,  
                    tollerino di esserlo.  
                     
                    (Michel Foucault, Sorvegliare e punire) 
                   In principio l'idea era raccontare 
                    la storia, non sufficientemente nota, della Repubblica romana 
                    del 1849; il colpo di genio di Celestini è stato filtrare 
                    la vicenda attraverso un punto di vista inedito: un ergastolano 
                    dei giorni nostri, che elabora la sua personale riflessione 
                    sulla storia e sulla società attraverso le prove di 
                    un fantomatico Discorso, che da anni va esercitando 
                    e rimeditando, con l'ausilio di un interlocutore ideale: Giuseppe 
                    Mazzini. 
                    In aperta polemica con la storia dei vincitori, Celestini 
                    offre al pubblico il racconto di tre sconfitte: la Repubblica 
                    romana, che voleva governare “senza prigioni e senza 
                    processi”, la Resistenza e la lotta armata degli anni 
                    settanta, scatenata dalla strage di Piazza Fontana: “il 
                    giorno in cui i padroni hanno rincominciato a sparare sul 
                    popolo, come Bava Beccaris”. Una storia di sconfitte 
                    raccontata dai perdenti, penetrata nelle carceri attraverso 
                    le letture consentite dalla censura e filtrata attraverso 
                    l'esperienza e la coscienza politica del narratore, una coscienza 
                    politica maturata in carcere, “scuola di rivoluzione”. 
                    Gli stessi spunti che consentono al protagonista, Il ladro 
                    di mele, di elaborare una riflessione politica e di abbracciare 
                    la lotta armata gli forniscono gli strumenti per meditare 
                    sulla stessa istituzione carceraria, messa in discussione 
                    con occhio foucaultiano, soprattutto per quanto riguarda la 
                    figura dell'imputato: non più cittadino, ma rappresentato 
                    per sineddoche dal reato che ha compiuto. Il carcerato è 
                    il suo reato, come il matto è identificato con la sua 
                    presunta pazzia, che finisce per assorbire ogni altra caratteristica 
                    dell'individuo: “eppure uno zoppo – osserva polemico 
                    Celestini in un'intervista – non è soltanto la 
                    sua gamba rotta”. Oltre a questa singolare tangenza, 
                    viene messo in luce un ribaltamento significativo: il furto 
                    di una mela non è reato, afferma Il ladro di mele. 
                    È un manifesto politico inequivocabile: “Se tutti 
                    avessero una mela, rubarla costituirebbe un reato, ma in questa 
                    società, possedere la mela è reato e rubarla 
                    è un atto di giustizia”. 
                  
                     
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                      Alessio 
                          Lega e Ascanio Celestini 
                          (foto Paolo Novalesi)   | 
                     
                   
                   In genere tutto il monologo vive delle due tematiche, strettamente 
                    intrecciate, della lotta politica e della critica all'istituzione 
                    carceraria: dopo la fabbrica e il manicomio prosegue il discorso 
                    di Celestini sulle istituzioni e sui loro meccanismi di esclusione. 
                    Proprio il legame che intercorre tra la storia della Repubblica 
                    e la storia della prigione offre una delle più importanti 
                    chiavi di lettura dello spettacolo: con intento demistificatorio 
                    nei confronti della retorica risorgimentale e dei suoi freddi 
                    monumenti di marmo, per bocca di un personaggio che non ha 
                    più molto da perdere Celestini dichiara a gran voce 
                    che la storia della Repubblica “è fatta di galera 
                    e lotta armata, non di monumenti” e che la sconfitta 
                    si registra quando la rivoluzione combattuta dai figli viene 
                    tradita dai padri, gli ex rivoluzionari che si ritrovano, 
                    a loro volta, a reprimere rivolte. 
                    Ritornano le cifre stilistiche del teatro di Celestini, che 
                    poi sono le peculiarità del “teatro di parola”, 
                    dalla scenografia minimale: una pedana di 2 metri per 2 che 
                    restringe il campo d'azione, simulando lo spazio angusto di 
                    una cella, alla dizione formulare, tipica dei racconti orali, 
                    fatta di ripetizioni ed epiteti riconoscibili, a volte passibili 
                    di modifiche attraverso il corso della vicenda. Un caso emblematico 
                    è quello del “negro matto africano”, vicino 
                    di cella e protagonista di fughe rocambolesche, che diventa 
                    “il negro matto africano convertitore” allorché 
                    la visione del suo corpo nudo riesce a produrre, in un gruppo 
                    di suore, una repentina conversione dal cattolicesimo ad un 
                    generico culto dionisiaco-orgiastico. È solo una delle 
                    figure che popolano la vita dell'ergastolano, evocate nel 
                    Discorso ora come interlocutori, ora come semplici 
                    protagonisti di aneddoti: dall'illustre Mazzini, alla figura 
                    del padre; per finire con il “secondino merda”, 
                    altrimenti detto “l'intoccabile – come quello 
                    dei Promessi Sposi”. Sarà quest'ultimo 
                    a suggerire al Ladro di mele, con la sua fredda rassegna 
                    di suicidi carcerari, di abbandonarsi alla “controvertigine”. 
                    Cinico e svogliato è il “secondino merda” 
                    ad avere l'ultima parola, dando conferma di quel che il Ladro 
                    di mele ha sempre saputo, e cioè che se il mondo 
                    è la totalità dei fatti, non delle cose, come 
                    diceva Wittgenstein; e se la galera è un fatto: allora 
                    il mondo è anche una galera. Si passa perciò 
                    “da una prigione ad un'altra prigione, e in mezzo non 
                    c'è libertà, soltanto ore d'aria”.  
                     
                    Laura Antonella Carli 
                  
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