“A 
                    volte il passato ti agguanta” aveva scritto Christa 
                    Wolf nell’ultimo suo libro La città degli 
                    angeli. Dimenticanze e rimozioni, come insegna la 
                    psicanalisi, sono modi, spesso inutili e comunque sempre sintomatici, 
                    per tentare di sfuggire, appunto, a quel passato pronto ad 
                    “agguantare” per chieder conto di ciò che 
                    si è stati, di ciò che si è detto, di 
                    ciò che si è fatto. 
                    Fare i conti con il passato è infatti un difficile 
                    esercizio, un compito arduo che a volte necessita di coraggio, 
                    e comunque sempre di disponibilità e onestà 
                    intellettuale, per andare a “scavare” tra ricordi, 
                    parole, emozioni, sentimenti e poterli così riprendere 
                    tra le mani e osservarli alla luce del tempo trascorso. 
                    Ciò vale per gli individui singoli alle prese con la 
                    propria storia, fatta di grandezze ma, a volte, anche di meschinità, 
                    però vale anche per la memoria collettiva che il tempo, 
                    non innocentemente, pian piano trasforma, per dar vita a una 
                    narrazione “limata”, a una narrazione cioè 
                    che smussi le asperità, elimini ciò che può 
                    ferire o far vergognare, a favore di un racconto spesso tanto 
                    rassicurante quanto menzognero. In Italia, ad esempio, storici 
                    prezzolati al soldo di governi opportunisti e delle loro istituzioni, 
                    negli anni della Repubblica nata “dall’antifascismo”, 
                    hanno lavorato per anni al fine di ridisegnare l’immagine 
                    di un Paese che, nonostante Mussolini, il Fascismo e poi la 
                    Repubblica Sociale, non aveva mai fatto “nulla” 
                    di particolarmente malvagio e che anzi, anche nei momenti 
                    peggiori della sua storia, si era comunque contraddistinto 
                    per bontà, onestà ed eroismo. La bandiera degli 
                    “italiani brava gente” ha potuto così svettare 
                    per anni e, tra suoni di fanfare, buoni sentimenti e tricolori, 
                    mettere a tacere qualsiasi opinione contraria. Infatti, si 
                    sono dovuti attendere decenni prima che, ad esempio, la vergognosa 
                    realtà degli italiani artefici o complici di tutte 
                    le nefandezze che i conflitti portano con sé, trovassero 
                    voce e ascolto (naturalmente, in modo sempre osteggiato dalle 
                    “alte sfere” in nome della “riconciliazione” 
                    o, molto più prosaicamente, per “ragion di stato”). 
                    In Germania le cose sono andate un po’ diversamente: 
                    se negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto 
                    mondiale, con la complicità delle stesse forze vincitrici, 
                    anche lì si era attivato un meccanismo di rimozione 
                    del proprio passato nazista (la Germania era troppo importante 
                    ai fini degli equilibri tra le due superpotenze per continuare 
                    a essere considerata “colpevole e reietta” per 
                    gli orrori della guerra), con il 1968 e gli anni successivi, 
                    il vento cominciò pian piano, ma costantemente, a mutare 
                    direzione. I giovani tedeschi di allora, infatti, durante 
                    la grande rivolta di quegli anni, posero sul tavolo del confronto/scontro 
                    “globale”, anche la questione delle responsabilità 
                    delle proprie famiglie durante il nazismo. Da allora il paese 
                    tedesco, grazie anche alla successiva “marcia nelle 
                    istituzioni” proprio di quella generazione sessantottina, 
                    ha compiuto molta strada nella direzione del non rimuovere 
                    la memoria storica degli orrori causati dal nazismo hitleriano 
                    e, anzi, di tenere vivo il ricordo di quel periodo a monito 
                    perenne per le nuove generazioni. 
                    Così, anche se fare i conti con memorie familiari che 
                    possono essere orribili (e spesso lo sono), è certamente 
                    difficile e imbarazzante, sembra che la maggior parte dei 
                    giovani tedeschi sia oggi in grado di affrontare con lucidità 
                    e sincerità i nodi che hanno legato le loro famiglie 
                    ai deliri del Terzo Reich. 
                    Ne abbiamo parlato con Grit Frölich e Jonas Gabler, trentenni 
                    berlinesi i cui nonni avevano aderito al Partito nazionalsocialista 
                    e combattuto nelle file della Wehrmacht sul fronte russo. 
                    Sia Grit che Jonas sono personalmente impegnati in attività 
                    promosse a Berlino dall’Istoreco - Istituto per la storia 
                    della Resistenza e della società contemporanea di Reggio 
                    Emilia, che hanno come obiettivo la tutela e la conoscenza 
                    della memoria storica relativa agli anni del nazifascismo 
                    e della Resistenza. Cosa ha significato per loro confrontarsi 
                    con la memoria del nazismo nella loro famiglia? Quella che 
                    segue è la trascrizione di una conversazione avuta 
                    con loro su questi temi alcuni mesi fa.  
                  
                     
                        | 
                     
                     
                      Jonas 
                          Gabler  | 
                     
                   
                     
                    Da bambino in visita a un lager 
                   Jonas – Sono nato a 
                    Berlino Ovest nel 1981. Ho passato più o meno tutta 
                    la mia vita a Berlino e in parte anche in Italia. Ho studiato 
                    scienze politiche, quindi, da parte mia, un interesse politico 
                    e storico c’è sempre stato, anche se non in modo 
                    particolare per la storia del nazismo.  
                    Nella mia famiglia, però, si è sempre parlato 
                    della storia della Germania e già da bambino venni 
                    portato a visitare un campo di concentramento. Terminati gli 
                    studi cercavo lavoro e mi sono trovato per caso a condurre, 
                    per conto della Berliner Unterwelten (vedi box), 
                    visite guidate per italiani e tedeschi in quelli che erano 
                    stati i bunker della città, ovverosia gli spazi sotterranei 
                    di Berlino, sia quelli preesistenti che durante la Seconda 
                    Guerra mondiale vennero trasformati in rifugi antiaerei, sia 
                    quelli che furono costruiti appositamente durante il conflitto. 
                    Per me è stato importantissimo trovare questo lavoro 
                    perché mi ha dato molti stimoli per riflettere sulla 
                    storia. 
                     
                    Che interesse c’è a visitare gli ex bunker? 
                    Quando si parla della Seconda Guerra mondiale a Berlino non 
                    si può parlare solo dei bombardamenti che la città 
                    ha subìto perché, naturalmente, legate a quei 
                    bombardamenti ci sono tante storie. Anche “leggendo” 
                    la storia dei sotterranei ne emergono parecchie, ad esempio, 
                    basta pensare al fatto che i bunker costruiti ex-novo durante 
                    la guerra, furono in gran parte realizzati da prigionieri 
                    di guerra oppure da gente costretta al lavoro forzato. Si 
                    può anche raccontare dei sacchi che abbiamo trovato 
                    ristrutturando i bunker e che sono i sacchi con cui si trasportavano 
                    a Berlino gli abiti degli ebrei o di altre persone uccise 
                    ad Auschwitz. I condannati al lavoro forzato li lavavano per 
                    essere successivamente distribuiti a tedeschi che ne avevano 
                    bisogno. E ciò la dice lunga a proposito di chi sapeva 
                    o non sapeva dell’esistenza dei campi di concentramento, 
                    della deportazione degli ebrei e della fine che facevano. 
                    Nel bunker principale che mostriamo ai turisti, c’è 
                    la frase del filosofo Santayana: “Chi non conosce 
                    il passato è condannato a ripeterlo” e questo 
                    è in fondo anche il mio credo: io non voglio solo mostrare 
                    dei luoghi, voglio anche cercare di dare spiegazioni su come 
                    si possa diventare carnefici oppure carnefici e vittime contemporaneamente, 
                    e così provare a capire come si possano evitare che 
                    situazioni così orribili possano ripetersi. 
                  Grit – Io sono nata a Berlino Est 
                    nel 1975, ho vissuto anch’io qualche anno in Italia 
                    e ora vivo nuovamente a Berlino. Lavoro come traduttrice e 
                    ogni tanto conduco visite guidate sulla storia del nazionalsocialismo. 
                    Poiché io, come dicevo, sono nata a Berlino Est e lì 
                    sono cresciuta fino all’età di quattordici anni, 
                    ho avuto una formazione scolastica caratterizzata dall’antifascismo: 
                    era un atteggiamento comune essere “antifascisti”, 
                    si veniva educati così. Sin da bambini venivamo portati 
                    a visitare i campi di concentramento: era obbligatorio, ma 
                    nello stesso tempo normale. Direi che c’era un grosso 
                    consenso da parte della società della Repubblica Democratica 
                    tedesca verso questo tipo di istruzione: si voleva attuare 
                    una politica antifascista e educare i figli in maniera conseguente. 
                   
                    
                    La questione 
                   Hai parlato di “denazificazione”: come 
                    è avvenuta nella RDT? 
                    Grit – Nei primi anni molti nazisti 
                    sono stati uccisi, gli stessi campi di concentramento un tempo 
                    gestiti dai nazisti sono stati subito riutilizzati dai sovietici 
                    per metterci parte della popolazione tedesca. Alcuni imprigionati 
                    erano effettivamente nazisti ma altri non c’entravano 
                    nulla. Io direi che la denazificazione in Germania dell’Est 
                    è stata fatta sicuramente in maniera più radicale 
                    che all’Ovest perché questa zona era amministrata 
                    dai sovietici, i quali, avendo vissuto tutte le sofferenze 
                    della guerra, erano molto più motivati a sradicare 
                    il nazismo. Però io so che anche nella RDT ci sono 
                    stati casi di nazisti che sono riusciti di nuovo a entrare 
                    in posizioni di rilievo, magari non così in alto come 
                    è successo nella Germania dell’Ovest, però 
                    ci sono stati. 
                  In relazione agli anni del Secondo conflitto mondiale, 
                    Italia e Germania hanno una memoria comune, solo che in Italia 
                    è stata fatta un’operazione di rimozione o, se 
                    non proprio di rimozione, di rilettura in chiave “accomodante” 
                    della storia del Fascismo, trasformandolo in un evento “buono” 
                    o comunque non “cattivo” come il nazismo – 
                    con il tradizionale leit motiv: “italiani brava gente” 
                    a fare da controcanto. In Germania, invece la memoria di quegli 
                    anni, come è stata gestita? 
                    Jonas– Per la mia esperienza, direi 
                    che la questione della memoria all’Ovest dipendeva un 
                    po’ dalla famiglia in cui crescevi. Da noi a scuola 
                    non era obbligatoria la visita al campo di concentramento 
                    però, appena aperti i confini con l’ex-RDT, insieme 
                    a mio padre sono andato al campo di Sachsenhausen e credo 
                    che tutti i padri come i miei si siano comportati così 
                    con i loro figli. Mio padre partecipò al ’68 
                    tedesco e penso che il Sessantotto rappresenti una data molto 
                    importante relativamente al “come comportarsi” 
                    con la storia tedesca tra il 1933 e il ’45. Anche nell’Ovest 
                    era stata attuata una denazificazione però, da noi, 
                    è pure stato usato parecchio il cosiddetto “certificato 
                    Dash” che ha ripulito la coscienza di molti.  
                    Quando c’era l’interesse a farlo, di qualcuno 
                    veniva detto: “è uno che non ha fatto niente”, 
                    “è pulito”, ecco perché 
                    lo abbiamo chiamato “certificato Dash”. Gli alleati 
                    dell’Ovest avevano capito molto velocemente che nel 
                    momento in cui sembrava probabile un nuovo conflitto mondiale 
                    tra Est e Ovest, tra Usa e URSS, tra comunismo e capitalismo, 
                    avrebbero avuto bisogno della Germania Ovest come alleato. 
                    Così, da un giorno all’altro, è cambiata 
                    l’aria e poiché questo è successo alla 
                    fine della guerra, prima della fondazione dei due stati tedeschi, 
                    si può dire che sin dall’inizio nella Repubblica 
                    federale ci siano stati diversi ex-nazisti nel governo. Contemporaneamente, 
                    si è voluto tracciare una “linea finale”, 
                    una linea di demarcazione tra il passato e il presente, si 
                    è detto: “basta, non si parla più 
                    di nazismo, il nazismo è il passato”. Avevano 
                    bisogno di farlo per andare avanti perché, al di là 
                    delle motivazioni legate agli equilibri internazionali, nessuno 
                    può vivere con tutta questa colpa sulle spalle e quindi, 
                    per avere di nuovo una nazione forte che potesse combattere 
                    il comunismo, c’era bisogno di non parlare più 
                    del passato. Però, per fortuna, hanno continuato a 
                    esserci persone che si dicevano: “ma che strano, 
                    nei posti-chiave ci sono sempre le stesse persone!” 
                    e nel ’68 i giovani, gli studenti, hanno posto queste 
                    questioni.  
                    In Germania, infatti, il Sessantotto oltre a essere stato, 
                    come ovunque, un movimento politico, ha anche rappresentato 
                    molto uno scontro generazionale tra i genitori ex-nazisti 
                    e i figli che volevano sapere quello che era successo veramente 
                    tra il 1933 e il 1945. Poi, con il passare degli anni, da 
                    parte di molti della generazione del ’68, c’è 
                    stata quella che venne chiamata “marcia attraverso 
                    le istituzioni” e ciò ha contribuito a modificare 
                    la lettura della storia. Io sono cresciuto in quella fase 
                    in cui si è parlato tanto dei crimini dei nazisti e 
                    della presenza scandalosa di ex-nazisti nell’amministrazione 
                    e nella politica nazionale. 
                    Sia chiaro: questo problema esiste ancora oggi, non è 
                    completamente risolto. Per esempio, ultimamente, è 
                    uscito un libro “Soldaten, Protokolle von Kaempfen, 
                    Toten und Sterben” (“Soldati, protocolli 
                    del combattere, dell’uccidere e del morire” – 
                    Ed. Fischer S. Verlag Gmbh, aprile 2011), scritto sulla base 
                    di 150 mila pagine di comunicazioni tra soldati tedeschi prigionieri, 
                    registrate dai servizi segreti degli alleati, che mettono 
                    in evidenza quanto fosse una menzogna l’immagine “cavalleresca 
                    e onorevole” della Wehrmacht rispetto agli orrori delle 
                    SS o della Gestapo. L’altro giorno leggevo i commenti 
                    in rete attorno a questo libro. Sì, ci sono molti che 
                    dicono “è un libro bellissimo, importantissimo”, 
                    però ce ne sono ancora molti altri che lo ritengono 
                    ingiurioso e scrivono “quando la smetterete di buttare 
                    fango sulla nostra Wehrmacht?”. Il conflitto c’è 
                    ancora, non è sopito. Un altro esempio: l’autunno 
                    scorso (2010 –ndr) è stato pubblicato un rapporto 
                    del Ministro degli affari esteri sul passato della Germania. 
                    Il Ministero degli affari esteri, per tantissimo tempo, era 
                    stata un’istituzione dove avevano lavorato molti esponenti 
                    della nobiltà tedesca e nel dopoguerra, si disse che 
                    i nobili, in quanto monarchici, non erano mai stati d’accordo 
                    con Hitler, erano sì nazionalisti ma non nazisti. Invece, 
                    da questo rapporto, è emerso che non era assolutamente 
                    vero, ossia che molti nobili avevano appoggiato apertamente 
                    il nazionalsocialismo. Anche in quel caso c’è 
                    stato chi ha giudicato diffamatorio il rapporto e chi invece, 
                    d’altro canto, si è scandalizzato del fatto che 
                    il rapporto portasse la data del 2002 e che solo dopo otto 
                    anni fosse venuto alla luce. Perché si è aspettato 
                    tanto? Perché non è stato fatto subito, o almeno 
                    dopo il ’68 quando hanno cominciato a essere poste molte 
                    domande sul passato? Questi erano gli interrogativi ricorrenti. 
                    Quindi, secondo me, questo è un problema che non si 
                    è ancora risolto, è una storia che va avanti, 
                    però il fatto che il dibattito resti aperto, mi da 
                    fiducia perché nessuno, fortunatamente, dice che quella 
                    del nazismo è una storia finita. Quella del nazionalsocialismo 
                    tedesco è una storia sulla quale ancora si discute 
                    e si ragiona, e deve per forza essere così. 
                    
                    Come ci veniva raccontata la storia 
                   A quale età avete cominciato a conoscere 
                    la storia del nazismo e chi ve l’ha raccontata? 
                    Grit – Io non me lo ricordo più, 
                    però quasi sicuramente è stato a scuola, durante 
                    i primi anni perché da noi, in Germania dell’Est, 
                    si cominciava molto presto a conoscerla: anche da bambini, 
                    appena si iniziava a parlare della storia, si imparavano queste 
                    cose. Forse i primi racconti li abbiamo avuti dai nostri libri 
                    di scuola sui quali imparavamo a leggere e dove c’erano 
                    racconti che parlavano dei soldati sovietici che aiutavano 
                    la popolazione tedesca dopo la Seconda Guerra mondiale, quando 
                    tutto era distrutto. Ci raccontavano che i sovietici ci davano 
                    da mangiare nonostante tutto il male che prima avevano fatto 
                    i soldati tedeschi a loro. Direi che il tema è stato 
                    sempre presente, anche nelle canzoni che imparavamo e cantavamo 
                    a scuola dove s’inneggiava sempre alla grande riconoscenza 
                    nei confronti dei sovietici che ci avevano liberati e trattati 
                    bene, nonostante appunto il male che il popolo tedesco aveva 
                    fatto loro. 
                  Jonas– Sicuramente la prima volta 
                    che ne ho cominciato a sentir parlare seriamente è 
                    stato quando ho visitato il campo di Sachsenhausen e quindi 
                    dopo la “caduta del muro” a nove o dieci anni. 
                    Dopo, ne abbiamo parlato anche a scuola molte volte, tanto 
                    che mi ricordo che, a un certo punto, a quattordici o quindici 
                    anni, mi ero anche stancato di ascoltare quelle storie, mi 
                    dicevo: “basta, l’ho già sentite mille 
                    volte!”, un po’ perché a quell’età 
                    la scuola e tutto ciò che comporta non è che 
                    la si ami molto e poi anche perché la scuola ti insegna 
                    le cose sempre nello stesso modo, mentre forse ci potevano 
                    essere altre modalità più interessanti per parlare 
                    di certi temi.  
                  Grit – Dopo la fine della RDT a scuola 
                    abbiamo dovuto ricominciare daccapo lo studio della storia: 
                    io, per esempio, prima del novembre del 1989 studiavo già 
                    gli eventi del Novecento, dopo quella data ho dovuto ricominciare 
                    dalla storia antica, la Grecia, i romani… ci dissero 
                    che era da lì che si doveva cominciare a conoscere 
                    la democrazia… 
                  Che differenze hai trovato nelle due impostazioni 
                    didattiche? 
                    Grit – Una delle differenze principali 
                    sta proprio nel come ci veniva raccontata la storia. In Germania 
                    dell’Est, come ho detto, il tema principale era la resistenza 
                    dei comunisti contro i nazisti e non si parlava per nulla 
                    delle altre forme di resistenza come quelle, ad esempio, messe 
                    in atto da molti per motivi religiosi. Da noi si parlava molto 
                    di un grande dirigente comunista, Ernst Thälmann. Mi 
                    ricordo che da bambini dovevamo imparare a memoria le storie 
                    della sua vita e recitarle in coro davanti al pubblico (Grit 
                    ride -ndr), ad esempio di come lui da bambino fosse molto 
                    generoso con i suoi compagni di scuola e di come, quindi, 
                    dovesse essere d’esempio per noi: la solidarietà 
                    tra operai, ci veniva detto, comincia già a quell’età. 
                     
                    Noi, tra l’altro, eravamo tutti “Pionieri”, 
                    ossia membri dell’associazione giovanile di massa che 
                    c’era nella RDT: i primi quattro anni si era Giovani 
                    Pionieri, dopo si diventava Pionieri di Ernst Thälmann. 
                    Grazie a quell’uomo, Thälmann, che aveva combattuto 
                    nella resistenza contro il nazismo, abbiamo sempre avuto un 
                    rapporto con la storia del nazionalsocialismo, però 
                    appunto, in relazione alla resistenza comunista. Invece, per 
                    come ci è stata raccontata la storia del nazismo dopo 
                    l’89, il tema dello sterminio degli ebrei è stato 
                    molto più importante e dominante che non quello delle 
                    persecuzioni dei comunisti. 
                  E sui nuovi libri dell’Ovest, si parlava anche 
                    dello sterminio degli omosessuali, dei Rom, delle prostitute, 
                    dei malati? 
                    Grit – Come dicevo prima, nei nostri 
                    libri di storia della RDT, prima dell’Ottantanove eravamo 
                    già arrivati a studiare il nazismo, però poi 
                    siamo dovuti ritornare ai greci per studiare la democrazia 
                    fin dall’inizio e quindi non abbiamo più fatto 
                    in tempo ad arrivare di nuovo al Novecento. Quello che poi 
                    ho imparato del nazismo l’ho appreso più attraverso 
                    le mostre che periodicamente vengono allestite e che, ripeto, 
                    accentuano però più la storia degli ebrei che 
                    non quella dei comunisti. Se giri per quella che era Berlino 
                    Est, troverai molte case con lapidi che ricordano che lì 
                    abitavano comunisti che hanno partecipato alla resistenza 
                    e che sono morti nel tale anno o nell’altro, in quel 
                    campo di concentramento piuttosto che in quell’altro, 
                    però direi che sono ormai poche le memorie che sono 
                    sopravvissute alla ristrutturazione della città. 
                    
                    Più a scuola che in famiglia 
                   In famiglia da quando avete cominciato a parlare 
                    di questi temi e come ne avete parlato? E come ne parlavate? 
                    Jonas - È difficile da dirsi perché 
                    sono ricordi molto interiorizzati. Ricordo che abbiamo visto 
                    insieme dei documentari. Penso che i miei genitori mi abbiano 
                    dato soprattutto degli stimoli a saperne di più, mi 
                    hanno regalato qualche libro per esempio… ah, sì, 
                    ora mi ricordo una cosa che secondo me per la mia formazione 
                    è stata molto importante. A Berlino Ovest ancora oggi 
                    c’è un teatro, il Grips tehatre che è 
                    molto importante. Il Grips tehatre era nato da un collettivo 
                    negli anni Sessanta senza avere finanziamenti pubblici; era 
                    ed è un teatro per ragazzi e mio padre, pedagogo, era 
                    molto interessato a quell’esperienza e ci portava lì 
                    spesso.  
                    Mi ricordo che ci fu uno spettacolo durante il quale veniva 
                    raccontata la storia di una ragazzina berlinese ebrea che 
                    era riuscita a sopravvivere alla Seconda Guerra mondiale e 
                    ai rastrellamenti nazisti rimanendo sempre nascosta. Da ragazzino 
                    la registrazione su cassetta di quello spettacolo l’ho 
                    vista penso dieci, quindici volte, non mi ricordo nemmeno 
                    quante… Come dicevo, sono convinto che i miei genitori 
                    mi abbiano dato queste cose per poi spingermi a pormi e a 
                    porre delle domande, cosa questa che poi, naturalmente, con 
                    il tempo ho fatto e, soprattutto mio padre, anch’egli 
                    molto interessato alla storia, mi ha sempre risposto. MI ricordo 
                    lunghissime discussioni con lui. 
                  Grit – Io del nazismo ho imparato 
                    sicuramente molto di più a scuola che in famiglia. 
                    I miei genitori sono nati nel 1949, l’anno in cui è 
                    stata fondata la Repubblica tedesca, quindi già fuori 
                    dalla storia del nazismo. Sono i miei nonni che hanno avuto 
                    un’esperienza diretta con il nazionalsocialismo. Del 
                    tempo della guerra io so soprattutto grazie ai racconti di 
                    mia nonna che mi ha sempre parlato in maniera aperta di ciò 
                    che ha vissuto, soprattutto delle sue paure.  
                    Della sua esperienza del nazismo me ne ha parlato come di 
                    un’esperienza positiva perché da ragazzina le 
                    era piaciuto stare dentro la Lega delle fanciulle tedesche 
                    (Bund Deutscher Mädel). Lei si incontrava lì 
                    con un gruppo di ragazze per fare bricolage e così 
                    facendo socializzavano: a mia nonna questa cosa era piaciuta. 
                    Poi mi ha anche raccontato come il mio bisnonno, suo padre, 
                    fosse entrato nel partito nazionalsocialista. Per come lo 
                    racconta lei è come se ci fosse “scivolato” 
                    dentro, pur non avendo mai fatto la richiesta di entrare nel 
                    partito. Lui era insegnante e dal 1933 c’era l’obbligo 
                    di associarsi in organizzazioni politiche, nel senso che le 
                    organizzazioni che c’erano prima venivano sciolte e 
                    confluivano tutte in organizzazioni nazionalsocialiste. Mio 
                    bisnonno faceva parte di un’associazione di insegnanti 
                    che venne chiusa e gli iscritti furono costretti ad entrare 
                    in una nuova organizzazione di insegnanti, appunto però 
                    nazionalsocialista. 
                    C’era anche l’obbligo che queste organizzazioni 
                    si caratterizzassero come gruppi più o meno paramilitari 
                    simili alle SA (acronimo di Sturmabteillung – 
                    Battaglioni d’assalto). Poi c’erano altri gruppi, 
                    come quello dei veterani della Prima Guerra mondiale, che 
                    si incontravano solo per parlare o per fare delle marce rievocative. 
                    Prima dell’avvento del nazionalsocialismo c’erano 
                    diverse organizzazioni di reduci, diverse anche dal punto 
                    di vista politico, c’erano ad esempio l’associazione 
                    dei reduci legati al partito comunista e quella dei socialdemocratici. 
                    Mio bisnonno era nell’ associazione di ispirazione socialdemocratica, 
                    ma a un certo punto, come dicevo, le associazioni vennero 
                    sciolte e gli aderenti furono costretti a iscriversi ai gruppi 
                    nazionalsocialisti. È per questo motivo che lui si 
                    trovò iscritto al partito nazista.  
                    Dalla parte della famiglia di mio padre c’era l’altro 
                    mio bisnonno che era socialdemocratico e ricopriva un ruolo 
                    ai vertici del sindacato: non a caso nel ’33 venne messo 
                    in prigione e poi tenuto in un campo di concentramento per 
                    alcuni anni. Però nella mia famiglia non è mai 
                    stato importante né il passato nazionalsocialista né 
                    quello di resistenza contro il nazionalsocialismo. Quello 
                    che era molto più presente, soprattutto nei racconti 
                    di mia nonna, era cosa avesse comportato la guerra per la 
                    vita quotidiana. 
                    
                    
                    La banalizzazione 
                   Secondo te, attraverso queste narrazioni parziali, 
                    poteva passare un messaggio più o meno indiretto con 
                    cui, parafrasando Hanna Arendt, si “banalizzava il male”? 
                    Grit – Io a mia nonna non ho mai domandato 
                    se fosse consapevole del male che veniva fatto nel nome del 
                    nazionalsocialismo, al quale, in qualche modo, partecipava 
                    anche lei. Credo che lei sia stata consapevole di certe ingiustizie. 
                    So che era a conoscenza dei campi di concentramento, so che 
                    era consapevole anche del fatto che ci fosse il lavoro forzato, 
                    perché aveva lavorato in un ufficio di ingegneria insieme 
                    a prigionieri olandesi che facevano il lavoro forzato lì, 
                    in ufficio, quindi in maniera ovviamente più sopportabile 
                    che altrove. Però mia nonna si rendeva conto che quei 
                    prigionieri venivano trattati in maniera diversa dagli altri 
                    lavoratori: per esempio, quando c’erano gli allarmi 
                    aerei, loro non avevano il diritto di andare nei rifugi ma 
                    dovevano continuare a lavorare. E mia nonna di questa ingiustizia 
                    era consapevole.  
                    Però sì, la “banalizzazione del male”, 
                    in fondo c’era: se osservo la storia di mia nonna vedo 
                    che lei, durante il nazionalsocialismo, ha avuto la possibilità 
                    di crescere, di imparare un mestiere, anche se, facendo disegni 
                    tecnici da Junkers, significava progettare aerei 
                    da guerra (Junkers, oggi azienda del Gruppo Bosh 
                    specializzata in termodinamica, negli anni immediatamente 
                    successivi al primo conflitto mondiale, era votata alla produzione 
                    di aerei. Suoi, ad esempio, i famigerati Stukas impiegati 
                    dalla Luftwaffe durante la Seconda guerra mondiale–ndr). 
                    Se non ci fosse stata la guerra sarebbe stata costretta dai 
                    genitori a rimanere in casa e quindi a fare la vita di casalinga. 
                    Siccome, però, in quel periodo di guerra tutti erano 
                    obbligati a lavorare e se non lo cercavi eri obbligato a fare 
                    i lavori che ti comandavano, lei aveva avuto il permesso da 
                    parte dei suoi di cercarsi un lavoro. Per lei, mi disse, fu 
                    una liberazione. Per cui, che nella quotidianità ci 
                    fosse anche una “banalizzazione del male” è 
                    vero, e un sistema come il nazismo, non a caso, offriva degli 
                    spazi alla gente per realizzarsi, altrimenti, credo, non ci 
                    sarebbe stata una così forte adesione a Hitler. 
                  E invece i tuoi genitori, Jonas, come ti hanno parlato 
                    dei tuoi nonni? Hai avuto l’impressione che ti venisse 
                    detto tutto oppure, secondo te, qualche cosa ti è stata 
                    occultata o raccontata in maniera giustificativa? 
                    Jonas – Secondo me è dipeso 
                    molto da come loro avevano avuto un rapporto con i loro genitori. 
                    Mio padre non aveva un buon rapporto con mio nonno, quello 
                    abbastanza autoritario di cui parlavo prima, e quindi non 
                    hanno parlato molto. Però mio padre sapeva che mio 
                    nonno era stato al fronte dell’Est, con tutto ciò 
                    che questo può aver comportato. C’è stato, 
                    e rimane ancora, anche il dubbio che mio nonno fosse entrato 
                    nelle SS. Al momento attuale non possiamo confermarlo però, 
                    magari, nel tempo verranno fuori le prove: le stiamo cercando. 
                    Mio bisnonno era invece contadino. Mi ricordo che mi aveva 
                    raccontato di un francese prigioniero di guerra che lo aiutava 
                    nei campi. A questo francese piacevano molto i miei bisnonni 
                    e anche loro erano molto contenti, si erano trovati molto 
                    bene con lui. Violando addirittura il regolamento, molto spesso, 
                    i miei bisnonni pranzavano e cenavano insieme al francese, 
                    tanto che, quando finalmente lui alla fine della guerra poté 
                    tornare in Francia, mantenne con loro, e per lungo tempo, 
                    un rapporto epistolare.  
                    Per quanto riguarda la famiglia di mia madre, invece, lì 
                    c’è stata molta più simpatia verso il 
                    nazionalsocialismo. Mio nonno aveva già fatto parte 
                    dell’esercito molto prima della guerra. Mia nonna mi 
                    raccontava che lui non parlava molto di ciò che aveva 
                    vissuto durante il conflitto, però, come ho detto, 
                    si ricordava che si svegliava di notte con incubi per le cose 
                    che aveva vissuto nell’esercito nazista. Mia madre non 
                    ha mai saputo o non mi ha mai detto che suo padre avesse partecipato 
                    agli stermini di massa sul fronte dell’Est dove era 
                    stato mandato. Oggi, con quello che so della storia, sono 
                    abbastanza sicuro che lo avesse fatto. Però di questo 
                    aspetto, insieme ai miei genitori non ne abbiamo mai parlato. 
                    D’altra parte dei crimini della Wehrmacht si è 
                    cominciato a parlare abbastanza recentemente, c’è 
                    stata una mostra credo nel 1998 o giù di lì, 
                    che ha fatto scaturire discussioni su questo tema. In ogni 
                    caso, al di là di questo specifico episodio, ho comunque 
                    l’impressione che i miei abbiano parlato con me in maniera 
                    molto aperta.  
                  Con una storia del paese in cui siete nati così 
                    difficile, che significato ha per voi la parola “Heimat” 
                    (“casa”, “luogo natio”, “piccola 
                    patria” - ndr)? 
                    Grit – Essendo nata in Germania dell’Est 
                    sono cresciuta con un significato positivo della heimat; 
                    avevamo anche diverse canzoni che parlavano della heimat. 
                    Heimat, però, era un termine comunque diverso 
                    da faterland, patria: heimat era forse qualcosa 
                    di più materno, non lo so. Nella mia famiglia la parola 
                    heimat viene usata normalmente. Mia nonna, che è 
                    originaria della Sassonia, parla sempre della sua heimat 
                    che è appunto la Sassonia e non Berlino dove vive. 
                    Io non ho tanti problemi con questa parola, probabilmente 
                    come dicevo, perché sono cresciuta nella ex-RDT: so 
                    che ci sono invece delle persone che la interpretano criticamente. 
                     
                    Magari rispondo con una canzone che abbiamo imparato nella 
                    RDT e che diceva “La nostra heimat non 
                    sono soltanto le città e i paesi ma sono anche tutti 
                    gli alberi nel bosco” quindi heimat come 
                    “natura” e questo direi che per me vale ancora 
                    oggi. Però, se chiedi che cos’è per me 
                    heimat oggi, oltre la natura, è anche Berlino 
                    più che la Germania. Infatti, se all’estero mi 
                    chiedono da dove vengo, molto spesso io non dico che arrivo 
                    dalla Germania ma da Berlino. È in Italia che ho imparato 
                    a dire “sono tedesca”, e questa è una frase 
                    che, una volta, in tedesco non avrei mai pronunciato. In Germania 
                    dell’Est era vietatissimo dire “io sono tedesco” 
                    o “tedesca”, perché chi lo diceva veniva 
                    accusato di voler tornare alla Grande Germania dei tempi passati; 
                    ma da noi non si poteva nemmeno dire “Germania”, 
                    la Germania era un paese inesistente: c’era la Repubblica 
                    democratica tedesca e la Repubblica federale tedesca, ma non 
                    la Germania.  
                    Dopo la caduta del Muro, quando ho potuto viaggiare, soprattutto 
                    in Italia, lì ovviamente mi è capitato che mi 
                    domandassero da dove venissi. La RDT non c’era più, 
                    cosa dovevo dire: “Vengo dalla Repubblica federale tedesca”? 
                    Non era vero, quindi ho cominciato a dire “vengo da 
                    Berlino”, ma ripeto: solo con l’aiuto di un’altra 
                    lingua sono riuscita a pronunciare questa mia identità 
                    “tedesca”, che in realtà è un’identità 
                    un po’ spezzata perché il paese dal quale vengo 
                    non esiste più. Oggi però riesco a dirlo anche 
                    in tedesco “Ich bin deutsche”… però 
                    c’è voluto tempo, è stato un processo. 
                    
                    Visite guidate 
                   E invece “Vaterland” ossia “patria”, 
                    cosa significa per voi? 
                    Jonas – Io, una volta non avevo un 
                    buon rapporto con il paese in cui vivevo. Per lungo tempo 
                    mi sono vergognato di essere tedesco: non volevo che la gente 
                    mi riconoscesse come tedesco. Dopo ho ragionato molto sia 
                    sul mio comportamento sia sulla cosiddetta “colpa dei 
                    tedeschi” e a un certo punto non mi è piaciuto 
                    più il tipo di approccio che avevo con la storia del 
                    mio paese. A un certo punto, cioè, mi sono reso conto 
                    che ho un’identità tedesca: non c’è 
                    niente da negare, io sono tedesco. Anche se non credo molto 
                    nel concetto di nazione, ho dovuto ammettere che facevo parte 
                    della cultura tedesca.  
                    Da quel momento ho cominciato a rapportarmi alla mia storia 
                    e alla storia della mia gente, a quella dei miei nonni. È 
                    stato un lavoro su me stesso che ho fatto con sincerità 
                    e accettando di essere anche molto critico pure con chi mi 
                    era molto vicino, come i miei nonni appunto, ai quali ho voluto 
                    comunque bene. Solo così ho potuto realmente “dirmi 
                    allo specchio” e dire agli altri, che sono tedesco e 
                    che vengo dalla Germania, e che, per questa origine e per 
                    questa identità e, naturalmente anche per quella che 
                    è la mia storia, oggi non c’è nulla di 
                    cui personalmente mi debba vergognare. Tutto questo, secondo 
                    me, si può raccontare molto bene con un esempio calcistico. 
                    Mi ricordo che una volta tifavo sempre contro ogni squadra 
                    tedesca, sia nazionale sia di club. Guardavo sempre le partite 
                    alla tv però tifavo sempre l’avversario. Poi 
                    sono andato a vivere in Francia per sei mesi, proprio nel 
                    1998, dopo i mondiali di calcio in cui la Francia aveva vinto 
                    e la Germania era uscita ai quarti di finale. I francesi prendevano 
                    in giro tutti i tedeschi che incontravano rimarcando sempre, 
                    in qualche modo, la nostra storia. Forse per questo motivo, 
                    da quel momento, ho cominciato a tifare per la nazionale tedesca 
                    e soprattutto per la squadra della mia città, Berlino! 
                    (ride –ndr). A parte gli scherzi, heimat per 
                    me è Berlino, ci sono nato, ci sono cresciuto e mi 
                    piace tantissimo. 
                    Il resto della Germania non lo conosco molto: fino all’Ottantanove 
                    era difficile uscire da Berlino e sono andato soltanto una 
                    volta trovare mia nonna vicino al confine con la Francia e 
                    un’altra, mio nonno nella Franconia, vicino a Norimberga. 
                    La parola faterland, patria, invece è una 
                    parola che non sopporto, non solo per le reminiscenze naziste 
                    ma proprio per le connotazioni militaristiche cui accennava 
                    Grit. Per me poi è un concetto costruito, non è 
                    una cosa vera. Faterland è una parola che 
                    non esce mai dalla mia bocca se non in questa intervista! 
                  Da cosa è nato in voi il desiderio di lavorare 
                    attorno alla memoria? 
                    Grit – Il motivo principale che mi 
                    ha spinto a collaborare alla realizzazione delle visite guidate 
                    sul nazionalsocialismo, ma anche sulla storia della Germania 
                    dell’Est, non è di carattere economico: come 
                    dicevo, il mio lavoro è di traduttrice. Le visite, 
                    infatti, le conduco ogni tanto, quando mi viene richiesto 
                    dall’Istoreco. È una cosa che mi piace ma non 
                    potrei immaginare di farla quotidianamente, soprattutto le 
                    visite sul tema del nazismo e quindi visitare campi di concentramento, 
                    bunker, ecc. Però ritornare di tanto in tanto su questo 
                    tema mi piace, perché trovo giusto trasmettere ai ragazzi 
                    la memoria di ciò che è stato. Però lo 
                    ammetto, in realtà lo faccio soprattutto per me, perché 
                    mi accorgo che ogni anno riesco a vedere il tema da un’altra 
                    prospettiva, riesco ad arricchirlo, vedo aspetti che magari 
                    prima non avevo visto. Ad esempio, curando la visita guidata 
                    nello stadio olimpico di Berlino sulla storia delle olimpiadi 
                    del ’36 e su tutta la messa in scena della propaganda 
                    nazionalsocialista durante i giochi, quest’anno ho scoperto 
                    quanto sia stato importante l’aspetto emozionale legato 
                    al nazionalsocialismo, un aspetto che spesso viene trascurato 
                    a favore dell’approfondimento dei motivi politici ed 
                    economici che ci sono stati, dei vantaggi che le persone potevano 
                    avere per il fatto di aderire al sistema nazista, ecc. Ora 
                    mi interessa non vedere solamente i fatti economici e politici 
                    ma anche gli aspetti psicologici ed emozionali della gente 
                    che partecipava a questi raduni di massa o alle fiaccolate 
                    in cui la gente componeva una svastica gigante. Oppure approfondire 
                    il perché dell’uso di simboli, come appunto la 
                    svastica, e capire in che modo erano riusciti a radicare le 
                    idee naziste nella psiche, nelle emozioni della gente. Ho 
                    riflettuto su che cosa potessero provocare a livello emozionale 
                    questi raduni, sul senso di unità che stimolavano, 
                    e devo dire che questo mi ha spiegato molto su come si possa 
                    aderire ad un sistema così. Del lavoro sulla memoria 
                    è questo che mi piace, scoprire ogni volta aspetti 
                    nuovi. 
                   Jonas – Come dicevo, di base c’è 
                    stato sempre l’interesse per la storia; poi a questo 
                    si è aggiunta l’idea, se non proprio quella di 
                    una “missione”, parola che mi sembra esagerata, 
                    della volontà di trasmettere ad altre persone questa 
                    mia visione della storia o per lo meno confrontarmi su questa 
                    con altri. Questo è quello che mi piace molto, soprattutto 
                    con i ragazzi, perché i ragazzi ti danno molto più 
                    riscontro, ti fanno capire più degli adulti che ti 
                    stanno seguendo, che ti stanno ascoltando, che sono interessati. 
                    Anch’io comunque non faccio solo visite guidate sulla 
                    storia del nazionalsocialismo ma anche, ad esempio, sulla 
                    divisione della città dopo il 1961, sul Muro, sulla 
                    gente uccisa durante i tentativi di fuga. Quello che cerco 
                    di trasmettere è lo sguardo sulle persone singole, 
                    sulla loro storia, sulla loro sofferenza sotto i poteri dispotici. 
                    Il potere del nazismo è stato fortissimo e particolarmente 
                    crudele, ma non fu il solo e io voglio sensibilizzare i ragazzi 
                    su tutto ciò. 
                    
                    
                    E se nel 1933 
                   Quali sono oggi le vostre riflessioni sul nazionalsocialismo? 
                    Grit – Io continuo a chiedermi come 
                    sia stato possibile, e probabilmente mi rimarrà sempre 
                    questa domanda, non credo che arriverò mai a darmi 
                    una risposta. Fino a ora mi sono data una spiegazione solo 
                    su come la gente abbia potuto aderire a un sistema come quello 
                    nazista. Credo che ci sia stata anche un po’ l’abitudine 
                    a seguire certe persone di cui si ha fiducia e se quelle fanno 
                    parte di un gruppo, è facile che ci entri anche tu, 
                    senza farti troppe domande. In ciò c’è 
                    anche la voglia di far parte di un gruppo in una società 
                    industrializzata dove c’è molto individualismo, 
                    dove la gente si sente un po’ persa. Quindi io direi 
                    che la forza e il fascino che può avere avuto il fatto 
                    di far parte di un gruppo, di sentirsi “parte di una 
                    comunità”, non è da sottovalutare.  
                   Jonas – Secondo me, un po’ 
                    c’è da fare questa considerazione ormai quasi 
                    proverbiale, ossia che nella cultura tedesca è forte 
                    l’imperativo all’obbedienza. Però il problema 
                    più grave è quello cui accennava Grit: nella 
                    dinamica dei gruppi, avviene spesso che tu escluda un gruppo 
                    dalla tua comunità e proietti tutto il male su questo. 
                    In questi casi, la gente non vede più nell’altro 
                    gruppo delle persone con cui avere empatia ma vede dei nemici 
                    ai quali si può fare di tutto.  
                    Non a caso, quando faccio la visita guidata, con le persone 
                    che mi seguono, nel parlare punto sempre molto proprio sul 
                    tema dell’empatia e invito tutti a riflettere su come 
                    sia possibile che una persona che provi empatia, che ami delle 
                    persone, possa arrivare a fare cose del genere. E arriviamo 
                    a capire che non è possibile: prima di compiere certe 
                    azioni, devi aver eliminato qualsiasi possibilità di 
                    empatia nei confronti della vittima, devi considerarlo niente 
                    o meno di niente, altrimenti non puoi avere la forza di trasformarti 
                    in carnefice. Per questo motivo il nazismo “svalutava” 
                    i propri nemici, li considerava e portava a considerarli “meno 
                    di niente”. È molto facile capirlo nelle cose 
                    che hanno detto quei soldati in quel libro che citavo prima 
                    (Soldaten -ndr), ossia che se all’inizio avevi 
                    problemi ad uccidere una persona, dopo pochissimo tempo te 
                    li toglievi perché ti abituavi; e così quella 
                    parte che, secondo me, è in tutti noi, ossia l’empatia 
                    che abbiamo nei confronti di una persona che soffre e che 
                    muore, scompariva. Oltre a ciò, uno si potrebbe domandare 
                    perché nessuno abbia resistito, perché non ci 
                    sia stata una resistenza forte in Germania, e, a mio avviso, 
                    in parte si spiega con quello che dicevo prima a proposito 
                    della cultura del tedesco. Ma non solo, in fondo è 
                    lo stesso fenomeno che abbiamo anche adesso. Ogni volta che 
                    conduco le visite guidate, mi chiedo e domando: non è 
                    che forse stiamo ripetendo in un certo senso quella storia? 
                    Per esempio, se parlo del Muro di Berlino e dell’ordine 
                    di sparare a chi cerca di fuggire; e se poi parlo del vedersi 
                    come gruppo e quindi escludere altri; e poi vedo l’Unione 
                    europea e ascolto qualcuno del Parlamento europeo affermare 
                    che stanno arrivando “orde di immigrati”: in realtà 
                    ventimila o cinquantamila persone ma comunque non “orde”, 
                    e sento qualcun altro che dice di sparargli; se osservo che 
                    nel Mediterraneo muoiono più persone in pochi giorni 
                    che in 28 anni del Muro di Berlino, posso parlare solo degli 
                    orrori del nazionalsocialismo o delle gravi colpe dei regimi 
                    dell’Est? Cosa faccio, racconto la storia del Muro di 
                    Berlino e non racconto la storia delle persone che stanno 
                    morendo là nel Mediterraneo o alla frontiera tra Messico 
                    e Stati uniti? O a Gaza? Il problema è che quando tu 
                    fai parte di un sistema che ti nutre è molto difficile 
                    criticarlo fino in fondo, e alla fine stiamo tutti approfittando 
                    un po’ di questa situazione. Lo critichiamo, io lo criticherei 
                    sempre, però è chiaro che non facciamo granché 
                    per cambiare questa situazione, perché abbiamo dei 
                    privilegi che, consapevoli o no, difendiamo con tanta forza. 
                    Tutti noi, alla fine facciamo parte di quel sistema. Non è 
                    molto ma comunque è già importante ricordarselo. 
                  Vi siete mai immaginati di avere avuto 20 anni nel 
                    1933? Secondo voi, cosa avreste fatto in quell’epoca? 
                    Grit – Sinceramente non me la sono 
                    mai posta questa domanda, però, naturalmente, con i 
                    racconti di mia nonna, riesco ad immedesimarmi con lei, una 
                    persona a me molto cara, e quindi anche in cosa lei ha fatto 
                    a quell’età; poi penso a me, cresciuta nella 
                    RDT dove anch’io ero all’interno di queste organizzazioni 
                    di massa, tipo i Giovani Pionieri, quindi se avessi 
                    avuto 20 anni nel ’33 facilmente io sarei stata dentro 
                    a quelle organizzazioni. Sì, è molto probabile. 
                  Jonas – Io me lo sono immaginato spesso 
                    in diversi periodi della mia vita e in alcuni mi sono detto: 
                    “come hanno potuto far parte di questo orrore”, 
                    poi ce n’erano degli altri in cui, invece, ero abbastanza 
                    convinto che ne avrei fatto parte anch’io. Alla fine 
                    sono giunto a dirmi che questa, forse, è una domanda 
                    senza senso perché se avessi la macchina del tempo 
                    e tornassi all’epoca e all’età di vent’anni, 
                    sono abbastanza sicuro che sarei stato anch’io nazista 
                    come le centinaia di migliaia di miei coetanei.  
                    Ovviamente oggi, con la cultura che ho e con tutto quanto 
                    ho saputo del nazismo, dico naturalmente che non lo avrei 
                    mai potuto fare. Ma ha senso dire ciò? La vera domanda, 
                    secondo me è un’altra: che farei adesso se succedesse 
                    la stessa cosa? E non è una domanda retorica: perché 
                    secondo me, quello che è stato potrebbe tornare. Ho 
                    visto che, per esempio, durante i mondiali di calcio del 2010 
                    ho fatto molta più fatica a tifare Germania rispetto 
                    agli anni di cui parlavo prima, perché quando ero contento 
                    per la vittoria della squadra tedesca, vedevo della gente 
                    che, per quella stessa vittoria, andava in giro per le strade 
                    urlando slogan nazionalistici che mi spaventavano.  
                    Quello del nazionalismo è un sentimento che vedo crescere 
                    molto in questo periodo. Temo che ci saranno nuovi conflitti 
                    per cui, tornando alla domanda che hai posto, viviamo già 
                    in un momento in cui molti crimini che attuava il regime nazista 
                    si stanno ripetendo in molte parti del mondo, anche in Europa, 
                    e mi accorgo che non mi sto ribellando, non abbastanza, non 
                    come dovrei. Se le situazioni dovessero peggiorare, so per 
                    certo che non diventerei mai uno dalla parte del sistema, 
                    però non so se avrei il coraggio di resistergli veramente, 
                    di oppormi con tutte le forze. No, non lo so. 
                   
                 
                    Romano 
                    Giuffrida 
                    alla realizzazione delle interviste ha collaborato 
                    Giovanna Panigadi 
                    
                   
                
                   
                       
                       La 
                        memoria sotterranea di Berlino 
                      L’associazione culturale 
                        Berliner Unterwelten (www.berlinosotterranea.de) 
                        da anni svolge un’attività di perlustrazione 
                        e documentazione delle strutture sotterranee della città 
                        di Berlino. Queste, infatti, offrono numerosi spunti di 
                        interesse storico. Da un lato c’è la storia 
                        dei bunker che vennero utilizzati dalla popolazione civile 
                        durante i bombardamenti subìti nel corso della 
                        Seconda guerra mondiale, dall’altro, c’è 
                        la storia dei sotterranei che utilizzavano i cittadini 
                        della zona Est della città per fuggire a Ovest 
                        dopo che, nel 1961, venne eretto il Muro che divise Berlino. 
                        L’associazione Berliner Unterwelten, da 
                        diversi anni, propone visite guidate in questi sotterranei 
                        offrendo, nel contempo, adeguate informazioni di carattere 
                        storico sulle vicende della guerra, sugli anni della divisione 
                        della città nonché, naturalmente, sulla 
                        vita delle donne e degli uomini che quei sotterranei hanno, 
                        loro malgrado, “abitato”. 
                       | 
                   
                 
                 
                 Omosessualità 
                  e memoria 
                Intervista a Salvatore 
                  Trapani 
                  di Romano Giuffrida 
                Tra il 1933 e il 1945 circa 7000 
                  omosessuali morirono nei campi di concentramento a Dachau e, 
                  soprattutto, a Sachsenhausen, località a circa cinquanta 
                  chilometri da Berlino. La condanna veniva attuata in base al 
                  Paragrafo 175 del Codice penale tedesco (entrato in vigore nel 
                  1871), che considerava l’omosessualità una “trasgressione” 
                  pericolosa (perché “soggetta a una rapida propagazione 
                  come una calamità”), e quindi da punire. Il regime 
                  nazista accentuò la considerazione di pericolosità 
                  definendo “crimine” qualsiasi comportamento che 
                  potesse, in qualche modo, rimandare a tendenze omosessuali. 
                  Sembra impossibile, eppure solo nel 1994 il Paragrafo 175 venne 
                  eliminato dal codice tedesco. 
                  Lo sterminio degli omosessuali è stato pressoché 
                  ignorato per tantissimi anni (così come quello dei rom 
                  e dei sinti, dei portatori di disabilità, delle prostitute, 
                  ecc.), ed è quindi importante un progetto come “Berlin-Gay.it”, 
                  promosso dalla cooperativa culture Lab, che ha come obiettivo 
                  quello di spingere la comunità omosessuale italiana a 
                  prendere consapevolezza della storia tragica che la riguarda 
                  attraverso viaggi di gruppo a Berlino e seminari di studio. 
                  Il progetto è nato dalla collaborazione tra CulturLab 
                  e l’Istoreco - Istituto per la storia della Resistenza 
                  e della società contemporanea di Reggio Emilia. 
                  Salvatore Trapani, giornalista residente a Berlino, è 
                  uno dei promotori di “Berlin-Gay.it”, da lui ci 
                  siamo fatti raccontare l’origine di questo progetto. 
                Salvatore Trapani 
                  - Mi sono laureato all’università Ca’Foscari 
                  di Venezia in Storia e critica delle arti visive. Volevo scrivere 
                  una tesi di laurea che coniugasse l’amore che ho per l’arte 
                  con l’amore che ho per la storia del Novecento. L’arte 
                  l’ho sempre amata mentre l’interesse per la storia, 
                  e in particolar modo per quella della Germania nazista, l’ho 
                  scoperto strada facendo, perché, essendo omosessuale, 
                  non ho impiegato molto tempo a capire che ero chiamato in causa 
                  personalmente dalla storia per come il nazismo si comportò 
                  con la comunità omosessuale. Tornando alla laurea, non 
                  potevo però preparare una tesi in un paese come l’Italia 
                  dove non c’era, e probabilmente non c’è ancora, 
                  una bibliografia adeguata su questi temi.  
                  All’Università di Venezia addirittura avevo incontrato 
                  delle resistenze da parte dei docenti ad affrontare un tema 
                  come quello dell’Olocausto visto attraverso l’arte 
                  e, soprattutto, attraverso gli sguardi di diverse generazioni 
                  di artisti: quella che ha vissuto la storia dei campi solo sentendola 
                  raccontare e quella invece di chi quella tragedia l’aveva 
                  vissuta personalmente. Questo confronto generazionale era naturalmente 
                  scomodo perché, sviluppandosi, non avrebbe potuto non 
                  ricordare quello che, tra guerre, bombardamenti e appropriazioni 
                  di territori altrui, si continua a fare in molti paesi della 
                  Terra, anche nel nostro presente. Sono quindi venuto in Germania 
                  per studio e qui ho conosciuto i miei attuali colleghi di cooperativa 
                  che sono Stefen Kreuzler, Oliver Grimm e Mathias Durchfeld dell’Istoreco 
                  di Reggio Emilia i quali, all’epoca, cercavano giovani 
                  guide a Berlino che potessero collaborare ai Viaggi della memoria 
                  con i gruppi scolastici.  
                  A quel punto, mi è sembrato importante approfittare di 
                  questo lavoro per unire ai temi dell’arte e della memoria, 
                  il mio essere omosessuale, perché io, se fossi vissuto 
                  al tempo del nazismo e fossi stato imprigionato, probabilmente 
                  sarei uscito dai campi attraverso i camini e non dalle porte, 
                  proprio per appartenere a quella minoranza che i nazisti e i 
                  fascisti volevano eliminare. Così, durante le miu visite 
                  al campo di Sachsenhausen (che fu il campo nel quale furono 
                  internati il maggior numero di omosessuali), racconto anche 
                  tutti gli avvenimenti che, in breve tempo, portarono allo sterminio 
                  degli omosessuali, delle lesbiche e delle transessuali.  
                  Nel condurre le visite a Sachsenhausen ricordo però anche 
                  a tutti, che la nostra comunità è sempre”a 
                  rischio” perché, ancora oggi, in Italia non c’è 
                  una società aperta alle minoranze anzi: è una 
                  società settoriale e fortemente discriminatoria, e il 
                  passato, come sappiamo, si può sempre ripetere. Pure 
                  per questo motivo sono rimasto a vivere in Germania: proprio 
                  qui dove avvennero i fatti terribili del nazismo, c’è 
                  oggi una società molto disponibile al confronto con le 
                  minoranze sessuali, basti pensare che non solo Berlino ha un 
                  sindaco dichiaratamente gay, Klaus Wowereit, ma omosessuale 
                  dichiarato è pure il ministro degli esteri e Vicecancelliere, 
                  Guido Weterwelle. Con i miei amici, e anche grazie ai finanziamenti 
                  pubblici del Land Berlino, fortemente interessato al 
                  progetto “di memoria” che sottintendevamo, abbiamo 
                  così fondato questa cooperativa di viaggi e studio. Ora 
                  ho una conoscenza molto più dettagliata e approfondita 
                  dei temi della discriminazione sessuale durante il nazismo, 
                  ma non solo, e mi sembra una cosa molto importante cercare di 
                  trasmetterla ai gruppi di studenti che arrivano dall’Italia 
                  e che, come me allora, rimangono sbalorditi non solo dall’abomino 
                  del nazionalsocialismo e delle deportazioni ma anche, nel confronto 
                  con quanto vedono a Berlino, dell’assenza di memoria storica 
                  che vivono nelle loro scuole e nella loro società. Le 
                  scuole italiane, com’è tristemente noto, sembra 
                  infatti che non trovino né il tempo né i finanziamenti 
                  necessari per aiutare le giovani generazioni a confrontarsi 
                  con la memoria e quindi a costruire una società più 
                  attenta, come invece si fa in Germania dove, come dicevo, a 
                  livello ministeriale, burocratico e politico, sono ormai anni 
                  che lavorano con impegno per far conoscere la storia del Paese 
                  e le sue tragedie.  
                
                 
                     
                 
                 
                
                   
                       
                       Che 
                        cos’è l’Istoreco 
                      L’Istoreco, Istituto 
                        è stato fondato a Reggio Emilia nel 1965. Istoreco 
                        (www.istoreco.re.it), 
                        associazione senza fini di lucro che raggruppa persone 
                        fisiche, enti (comuni, province, ecc.) e associazioni 
                        private, è impegnato in attività di ricerca 
                        storica, di conservazione di documenti e di fondi privati 
                        relativi ai temi storici di riferimento, di divulgazione 
                        della storia contemporanea e, soprattutto, di tutela e 
                        trasmissione della memoria con attività didattiche 
                        rivolte alle scuole di ogni ordine e grado e ai docenti. 
                        Tra le attività didattiche, Istoreco dedica molta 
                        attenzione ai “Viaggi della memoria” che organizza 
                        annualmente per studenti e docenti (ma non solo) portandoli 
                        a visitare campi di concentramento in Germania e in Polonia 
                        (i viaggi di quest’anno, ai quali hanno partecipato 
                        circa 900 tra studenti e insegnanti, hanno avuto come 
                        destinazione Cracovia e Auschwitz), e coinvolgendoli in 
                        attività di studio seminariali.  
                        L’Istituto è impegnato anche nella formazione 
                        di giovani ricercatori in Italia e all’estero, con 
                        particolare attenzione alla formazione di ricercatori 
                        in Germania. La ricerca svolta è indirizzata allo 
                        sviluppo degli studi sulla resistenza, sul nazifascismo, 
                        sulle discriminazioni antisemite, sulla Shoah, nonché 
                        sulle problematiche relative alla società contemporanea 
                        (i movimenti migratori dall’Italia e verso l’Italia, 
                        il multiculturalismo e i diritti di cittadinanza, identità 
                        nazionali, le appartenenze locali, geografie politiche, 
                        la globalizzazione ecc.). Istoreco svolge inoltre attività 
                        editoriale pubblicando libri riguardanti le tematiche 
                        storiche già citate e realizza mostre itineranti 
                        sugli stessi temi. L’Istituto per la Storia della 
                        Resistenza e della Società contemporanea è 
                        diretto da un Comitato scientifico composto da storici 
                        e studiosi (Carlo De Maria, Alberto Ferraboschi, Alessandra 
                        Fontanesi, William Gambetta, Marzia Maccaferri, Andrea 
                        Rapini, Toni Rovatti, Massimo Storchi).  | 
                   
                 
                
               |