A 
                    la gare comme à 
                    la gare
                  
                     
                        | 
                    
                     
                      www.flickr.com/photos/gaia_d  | 
                    
                  
                  Chiunque abbia fatto l’insegnante 
                    precario 30 anni fa (ma forse anche oggi) nella provincia 
                    di Milano (ma forse anche in altre province) può vantare 
                    una cospicua esperienza di treni, autobus e mezzi di trasporto 
                    provvisori e improvvisati dai quali
negli anni ha subito vari 
                    e fantasiosi abusi. Erano tempi eroici. L’insegnante 
                    precario, spesso vestito in modo inadeguato (da seminarista, 
                    da sciatore, da figlio della rivoluzione o da missionario) 
                    si aggirava nell’hinterland, balzando da una littorina 
                    a un autobus, calato nell’incospicuo ruolo di docente 
                    fuori graduatoria: definizione curiosa, quest’ultima, 
                    che alla lettera significava essere un fuori-classe: nel senso 
                    che in classe si riusciva a entrarci di rado, e in genere 
                    a pezzi. 
                    A volte, ci si radunava in equipaggi con organizzazione paramilitare, 
                    che si
strutturavano per spostarsi insieme e in macchina, 
                    in modo da risparmiare spese e tempo. Di norma la macchina 
                    era: una ‘500 ereditata dal padre, che a sua volta l’aveva 
                    ereditata dallo zio; una 126 dove si tentava regolarmente 
                    di entrare in cinque (i sovrappeso erano discriminati ed esclusi 
                    dal passaggio); quando andava di lusso, una Diane decappottata 
                    (nel senso che sarebbe stata decappottabile, ma la capote 
                    era andata da tempo). Si divideva la spesa della benzina, 
                    ma se si bucava una gomma, nessuno sapeva cambiarla: eravamo 
                    intellettuali, dopotutto. In alcuni casi, si gestiva il mezzo 
                    meccanico ricorrendo a pratiche magiche che sono ancora del 
                    tutto inspiegate. Ricordo di aver fruito di alcuni passaggi 
                    su una macchina che si spegneva a ogni semaforo rosso. Per 
                    farla ripartire, era necessario che le due portiere anteriori 
                    fossero sbattute nello stesso momento; naturalmente non sono 
                    in grado di fornirvi la spiegazione scientifica del fenomeno, 
                    ma posso dirvi che funzionava. Io e il mio collega eravamo 
                    un po’ bizzarri nel nostro procedere “a farfalla” 
                    da un semaforo all’altro, ma alla fine si arrivava puntuali 
                    a lezione. 
                    È evidente che questo genere di condivisone molto stretta 
                    ha avuto alcuni effetti collaterali. Per esempio si sviluppavano 
                    di frequente affaire amorosi che duravano di norma il tempo 
                    della supplenza. Credo che vi fu anche un’impennata 
                    di tresche peccaminose, nate soprattutto in conseguenza della 
                    prossimità coatta e che altrimenti non sarebbero mai 
                    neanche cominciate: come diceva mia nonna, l’uomo è 
                    peccatore. I pettegolezzi fiorivano, la socializzazione non 
                    era cosa da fb. Non c’era nulla di virtuale; al contrario 
                    tutto era molto fisico e a tratti sudaticcio. Non so se fosse 
                    meglio o peggio di ora, però, ecco, credo che la propensione 
                    endogamica della classe insegnante sia stata in quel momento 
                    e nella provincia di Milano in uno dei suoi picchi storici. 
                    Anche la psicosi da deportazione tipica della classe insegnante 
                    ha conosciuto una popolarità rilevante, ma questa è 
                    già una notizia meno positiva.
                    Ricordo di aver accettato una supplenza a Castano Primo abitando 
                    alla periferia di Sesto S.Giovanni, quando ancora non c’era 
                    il metrò e io non avevo la macchina. Mi alzavo alle 
                    5 meno un quarto del mattino, per prendere un autobus alle 
                    5,30. Arrivavo al metrò a Milano. Il metrò mi 
                    portava alla stazione di Cadorna, dove prendevo un treno delle 
                    ferrovie Nord e di conseguenza precipitavo all’istante 
                    nel vecchio West. Le carrozze erano mammuth neri, con panche 
                    di legno logore e scomodissime e che ben si affiancavano al 
                    biglietto preistorico: un rettangolino di cartone color mattone, 
                    durissimo, che il controllore forava con una specie di trivella 
                    a mano. Il treno impiegava circa un’ora e mezza per 
                    raggiungere la steppa lombarda estrema. Facevo un paio d’ore 
                    di lezione (perché non era neanche una cattedra intera, 
                    ma uno spezzone monco) e poi tentavo di riprendere il mio 
                    treno del West, e comunque arrivavo a casa stremata, che era 
                    già buio. Non mangiavo una cippa, perché la 
                    mia compagna d’appartamento era messa peggio di me e 
                    non si aveva tempo di far la spesa.
                    Poi è arrivata la civiltà. I treni si sono metamorfizzati, 
                    nei prezzi anche se non sempre nelle carrozze. Leggere l’orario 
                    oggi è come scorrere la classifica di un torneo di 
                    tiro con l’arco: frecce in ogni dove. La metafora del 
                    West funziona ancora, ma questa volta ad averla vinta sono 
                    gli Indiani, con una nemesi storica non destituita di un suo 
                    senso di giustizia. Le Frecce sono di due colori: rosse e 
                    bianche. Nere no, perché il partito fascista è 
                    stato abolito da tempo, senza che per questo sparissero le 
                    destre. Le Frecce sono costosissime e veloci come un aereo. 
                    Ma per essere veloci, devono saltare parecchie stazioni: il 
                    che inevitabilmente determina la desolazione del pendolare. 
                    L’altro effetto collaterale è che le linee non 
                    coperte da Frecce sono state dimenticate, e con loro le stazioni 
                    dove non è prevista fermata. La settimana scorsa ho 
                    avuto diversi momenti psicotici mentre tentavo di prenotare 
                    un treno per San Benedetto del Tronto, che non è esattamente 
                    un villaggio, ma siccome non vi si fermano Frecce rosse, esso 
                    è scomparso dai tabulati. Ricordo con chiarezza il 
                    momento di smarrimento che ho provato quando, una volta digitato 
                    il nome della mia città d’origine nella casella 
                    “destinazione”, il sistema mi rispondeva che il 
                    luogo di destinazione era ignoto. Ho pensato che la città 
                    fosse stata cancellata dalle mappe, e con lei i miei genitori. 
                    Quando finalmente il bigliettaio umano mi ha confermato che 
                    la stazione esisteva ancora, ho pagato 250 euro circa per 
                    due biglietti di seconda classe per San Benedetto del Tronto. 
                    Andare a Londra costa meno. 
                    Naturalmente, in questo universo lucido, veloce ed efficiente, 
                    non tutto funziona. Il 7 ottobre 2011, ad esempio, dovevo 
                    andare a Desenzano a presentare un libro. Per fortuna sono 
                    partita con parecchie ore di anticipo. Il mio treno è 
                    stato annunciato con 20, poi 30, poi 60 minuti di ritardo. 
                    Poi l’hanno soppresso. Mentre stavo cercando di decidere 
                    se tornarmene a casa, una vocina tenue ha detto che i passeggeri 
                    per Desenzano dovevano prendere un treno per la Stazione di 
                    Rogoredo, dove avrebbero trovato una coincidenza. Frotte di 
                    disperati che avevano visto soppressi vari regionali per Desenzano 
                    si sono murati su un treno per Rogoredo, dimostrando come 
                    una carrozza da 30 posti possa in realtà contenere 
                    anche 123 esseri umani. Scesi in questo luogo marginale, i 
                    passeggeri non hanno trovato una cippa. Ancora quaranta minuti 
                    di attesa, su una banchina strettissima. Poi una vocina ha 
                    annunciato che il treno aveva 60 minuti di ritardo. Incerta 
                    se uscire a comprare un fucile, ho poi deliberato che invece 
                    avrei investito i miei risparmi in una bottiglietta d’acqua: 
                    l’ansia disidrata più del deserto. Stavo uscendo 
                    dalla stazione, quando una vocina ha annunciato che il treno 
                    era pronto al binario 7. Tra manifestazioni di giubilo, masse 
                    di passeggeri si sono scapicollate verso il binario. Alcuni 
                    inermi sono stati festosamente calpestati. I sopravvissuti 
                    si sono stratificati su un treno che è partito in anticipo 
                    rispetto al ritardo annunciato. Alcuni passeggeri rimasti 
                    a piedi si sono messi con lena a smontare i binari. Non so 
                    come sia finita. Per parte mia, sono arrivata a Desenzano 
                    lievemente in ritardo rispetto all’orario previsto per 
                    la presentazione, provata come se fossi stata in battaglia 
                    e puzzolente come un carrettiere. Una scrittrice da treno, 
                    appunto.