
                  Clement Duval
                    E in cuor mio, non vi ho più 
                    perdonato
                  L’uomo sulla 
                    sedia aveva il capo chino in avanti e le braccia tese all’indietro: 
                    le manette gli impedivano di crollare di faccia sul pavimento. 
                    Sembrava svenuto, ma quando entrò uno dei suoi aguzzini, 
                    strinse i denti contraendo i muscoli della mascella. Il detective 
                    era in maniche di camicia, il nodo della cravatta allentato, 
                    il distintivo del Bureau of Investigations appeso alla cintura 
                    dei pantaloni, la faccia stanca e la barba di due giorni: 
                    gettò il mozzicone a terra e lo schiacciò con 
                    la punta della scarpa. Il pavimento era sporco di cenere e 
                    cicche, qualche cartaccia, e nell’aria aleggiava un 
                    odore acre, di fumo stantio misto a sudore rancido.
                    Il detective andò ad aprire la finestra, poi si voltò 
                    a guardare il prigioniero.
                    “ Sai una cosa, macaroni? Puzzi come una carogna”.
                    Si avvicinò, lo squadrò di sbieco, gli prese 
                    i capelli con la mano destra e lo costrinse a sollevare il 
                    viso. Lo osservò per qualche istante: profonde occhiaie 
                    scure, lividi ed ecchimosi su fronte e tempie, tracce di sangue 
                    ai lati della bocca, intorno alle narici, e persino sulle 
                    orecchie c’erano grumi scuri.
                    Il detective si spostò al tavolo, afferrò un 
                    volume rilegato, che usò per colpire il prigioniero 
                    sulla nuca: non forte come in altre occasioni, solo una botta 
                    leggera per cercare di ottenere la sua attenzione. Ma quello 
                    si limitò a un debole sobbalzo, per poi tornare inerte 
                    come prima, lo sguardo fisso sul pavimento.
                    “Oggi parliamo di questo”, disse il detective 
                    mettendogli il libro sotto il naso. Lo aprì alla prima 
                    pagina, e l’uomo, emettendo un sospiro, lesse mentalmente 
                    l’intestazione, in italiano.
                    “È nella tua merdosa lingua, possiamo farlo tradurre 
                    dalla prima all’ultima parola, ma non puoi farci perdere 
                    altro tempo… Quindi, me lo racconti tu, cosa diamine 
                    c’è scritto in questo libro e soprattutto chi 
                    cazzo è questo Clemente Duval. Chiaro?”
                    Il prigioniero non mutò espressione e non rispose. 
                    Il detective scorse rabbiosamente qualche pagina e gli sbatté 
                    sulla faccia quella con la prefazione: era firmata L’Editore, 
                    e sotto, tra parentesi, A. Salsedo.
                    “C’è il tuo nome, qui. Questa merda l’hai 
                    scritta tu”.
                    Non riusciva a leggere, troppo forte il dolore alla testa, 
                    e poi, gli occhi si chiudevano, per il bruciore e il gonfiore, 
                    ma quella pagina la conosceva a memoria…
                    …Lungo l’erta di un calvario che non finisce 
                    mai, che ha in vetta la ghigliottina e a ogni tappa l’aceto 
                    e il fiele di tutti i tormenti, la passione quotidiana di 
                    un iconoclasta che ha intraveduta la libertà, ne ha 
                    colto i sorrisi e le promesse… sfidando impavido sdegni, 
                    odii, vendette cieche e collere inesauste… esempio di 
                    audacia e di tenacia, di coraggio e di fede…
                    Stavolta il colpo sferrato con il libro fu più forte, 
                    intenzionalmente inferto per provocare dolore, sull’orecchio 
                    da cui riprese a scendere un esile rivolo di sangue.
                    …Densa d’insegnamenti ogni pagina, degna di 
                    esser meglio custodita che dalla dubbia fortuna del foglio 
                    di battaglia… è di una promessa l’assoluzione 
                    fedele, e il comune proposito di veder in volume raccolte 
                    le Memorie di Clemente Duval, è entrato nella via dell’attesa 
                    realizzazione, e a questo primo volume gli altri seguiranno 
                    fino ad opera compiuta… se non mi manchino le forze…
                    Il pugno nello stomaco gli spezzò il respiro.
                    “Ascoltami bene, figlio di puttana: tu sei l’editore 
                    di questo libro, e se in due mesi non hai ancora confessato 
                    niente sui volantini che inneggiavano agli attentati che tu 
                    e i tuoi compari avete commesso, ora mi spieghi almeno a che 
                    ti serviva stampare questo”.
                    … se non mi manchino le forze…
                  
                     
                        | 
                    
                     
                      Clèment 
                          Duval  | 
                    
                  
                   
 
                    Il “suiciodio” di Andrea Salsedo
                   L’uomo in stato di arresto si chiamava 
                    Andrea Salsedo, tipografo, militante anarchico, nato a Pantelleria 
                    nel 1881 ed emigrato a New York nel 1910. Si trovava lì 
                    da ormai due mesi, sottoposto a interrogatori pesanti, pestaggi, 
                    torture fisiche e psichiche. La stanza era al quattordicesimo 
                    piano del Park Row Building, sull’isola di Manhattan, 
                    sede del Bureau of Investigations, che solo una quindicina 
                    di anni dopo sarebbe diventato FBI, giocando sulle iniziali 
                    di Fidelity, Bravery, Integrity, ma allora, quel 
                    2 maggio del 1920, era soltanto il Bureau, braccio operativo 
                    del Dipartimento di Giustizia statunitense con funzioni di 
                    polizia federale e al tempo stesso servizio quasi 
                    segreto. A New York, il Bureau si stava impegnando a mettere 
                    in pratica l’esortazione del “Washington Post”, 
                    che in un articolo di qualche anno addietro, aveva detto senza 
                    mezzi termini: “Tutti gli anarchici dovrebbero essere 
                    messi a morte”. 
                    Il 1920 era iniziato con una vasta operazione contro gli “immigrati 
                    sovversivi”: nel solo gennaio erano state arrestate 
                    quattromila persone ed espulsi tremila immigrati. Organizzazioni 
                    sindacali di ispirazione anarchica vennero sciolte e messe 
                    al bando, chiuse le redazioni di alcuni giornali e riviste, 
                    persino diversi circoli sociali furono bollati come covi eversivi. 
                    Gli anarchici italiani erano il bersaglio perseguito con maggiore 
                    accanimento, scatenando così un’ondata di razzismo 
                    contro i macaroni. E quando si verificarono alcuni attentati 
                    dinamitardi, politici reazionari e tutori dell’ordine 
                    si ritennero in dovere di non rispettare più neppure 
                    le fondamentali regole di quella che si autodefiniva la più 
                    grande democrazia del mondo, poco importa che le esplosioni 
                    fossero il risultato dell’esasperazione o spesso provocazioni 
                    architettate ad arte. In seguito alla deflagrazione di una 
                    carica dinamitarda a Washington, in cui era morto soltanto 
                    il solitario attentatore, vennero ritrovati alcuni volantini, 
                    e ricorrendo alla delazione di un losco individuo che si vorrebbe 
                    infiltrato negli ambienti anarchici, il Bureau nel febbraio 
                    del 1920 perquisiva la tipografia Canzani a New York, diretta 
                    da Andrea Salsedo, che era anche editore in proprio e stampava 
                    la rivista anarcosindacalista “Il domani”, oltre 
                    a vari libri, tra i quali, le memorie di un anarchico francese 
                    deportato alla Guyana, Clément Duval…
                    Secondo gli agenti del Bureau, nella tipografia di Salsedo 
                    avrebbero trovato alcuni caratteri “riconducibili” 
                    ai volantini dell’attentatore. E il 25 febbraio Andrea 
                    fu prelevato dalla sua abitazione in cui viveva con la moglie 
                    Maria, senza un formale mandato di arresto, e condotto non 
                    in un commissariato o in una prigione, ma al 21 di Park Row, 
                    l’edifico in cui aveva la sede più o meno segreta 
                    il Bureau, sorta di territorio extragiudiziale dove interrogare 
                    i sospetti senza “intralci”. 
                    Salsedo era già schedato per renitenza alla leva, quando 
                    aveva deciso di rifugiarsi in Messico per evitare la chiamata 
                    alle armi durante la Grande Guerra, assieme ad altri anarchici 
                    residenti a New York tra i quali Luigi Galleani, Nicola Sacco 
                    e Bartolomeo Vanzetti. Non era solo il pacifismo, a unirli 
                    in quella scelta, ma la netta convinzione che il bagno si 
                    sangue in Europa fosse un massacro fra poveracci usati come 
                    carne da macello per gli interessi dei capitalisti. Dunque, 
                    Salsedo e gli altri erano al centro del mirino da tempo, si 
                    aspettava solo l’occasione propizia.
                    Sottoposto per giorni e notti a interrogatori spietati, Salsedo 
                    non parlava. Certo, negava di avere a che fare con quell’esplosione 
                    avvenuta così distante dalla sua città, ma rifiutava 
                    di riferire i nomi – “l’organigramma”, 
                    come sostenevano i suoi torturatori – dei militanti 
                    anarchici italoamericani su tutto il territorio nazionale. 
                    Gli fu negato un avvocato di fiducia e gliene assegnarono 
                    uno che era in realtà un confidente del Bureau. E ben 
                    presto il suo volto divenne una maschera tumefatta, non riusciva 
                    a dormire per i lancinanti dolori alla testa, non reagiva 
                    più ai colpi e non rispondeva. La rabbia dei detective 
                    aumentava… E quando, trascorsi ormai oltre due mesi, 
                    il Bureau si vide costretto a regolarizzare la sua posizione, 
                    e quindi a rilasciarlo per mancanza di indizi, dopo che lo 
                    stesso avvocato connivente aveva annunciato alla moglie che 
                    entro pochi giorni sarebbe tornato libero, Andrea Salsedo 
                    precipitò dal quattordicesimo piano sfracellandosi 
                    sul marciapiede. “Suicidio”, fu la versione ufficiale 
                    a cui nessuno dei suoi compagni avrebbe creduto neppure per 
                    un istante. Tutti loro erano convinti che Andrea fosse stato 
                    scaraventato dalla finestra per coprire la morte sotto tortura: 
                    gli agenti del Bureau avevano tentato così di cancellare 
                    le prove di un “omicidio di stato”, quando si 
                    erano ritrovati tra le mani un cadavere che non reagiva più 
                    ai colpi inferti. Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco, assieme 
                    ai compagni del loro giro, organizzarono subito un comizio 
                    per denunciare pubblicamente l’omicidio di Salsedo, 
                    manifestazione indetta per il 5 maggio.
                  
 
                    Questo pezzo di carta è mio
                   Il “Nonno” si infilò a fatica le scarpe, 
                    quel mattino, e uscì cercando di non strascicare i 
                    piedi per non far rumore e svegliare la giovane coppia di 
                    compagni che lo ospitava. L’artrite era un tormento 
                    quotidiano, e camminare, un supplizio a ogni passo. Decise 
                    di prendere un taxi, perché da Brooklyn, anche se la 
                    distanza non era eccessiva, usare mezzi pubblici sarebbe stato 
                    per lui arduo, senza qualcuno che lo aiutasse a salire e a 
                    scendere. E quel giorno, non voleva nessuno con sé, 
                    e tanto meno la pietà di chicchessia. Anche se così, 
                    avrebbe speso quanto gli sarebbe servito a pagarsi il pranzo.
                    Giunse in Park Row che era ancora molto presto, il sole primaverile 
                    appena spuntato, pochi i passanti e scarso il traffico. Si 
                    fece lasciare a un centinaio di metri dall’edificio, 
                    non voleva che il taxista vedesse dove era diretto di preciso, 
                    e percorse faticosamente quell’ultimo tratto appoggiandosi 
                    al bastone. Poi, si fermò davanti al lugubre palazzo, 
                    e alzò lo sguardo al cielo. Individuò il quattordicesimo 
                    piano, immaginò quale fosse la finestra tra le tante 
                    della lunga fila. Ed ebbe un sussulto, come un singhiozzo.
                    Cos’hai provato, fratello, volando da lassù… 
                    Forse nulla, se ti avevano già ucciso… Ma se 
                    fossi stato ancora vivo, cosa avrai pensato, amico mio, compagno 
                    di sventura, qualche attimo prima di raggiungere il selciato… 
                    Che ti avevamo abbandonato? Che nessuno qui fuori lottava 
                    per riaverti tra noi? Quanta solitudine, mon frère, 
                    quanta solitudine…
                    E abbassò lo sguardo, tremando, fino a fissare la macchia 
                    scura, che debordava dalle tracce di gesso che il giorno prima 
                    lasciavano intuire vagamente la posizione del suo corpo sfracellato. 
                    
                    Un giovane nero si avvicinò con secchio e ramazza: 
                    gettò l’acqua sul sangue rappreso, poi lo sfregò, 
                    compiendo gesti meccanici, indifferenti. La schiuma sporca 
                    scivolava verso il tombino, e il vecchio non riusciva a distogliere 
                    lo sguardo. Finché un secondo addetto alla pulizia 
                    del marciapiede non attirò la sua attenzione per lo 
                    strano compito che stava assolvendo: frugava tra i cespugli 
                    delle aiuole vicine e, ogni tanto, trovava dei fogli spiegazzati, 
                    bagnati forse dall’irrigazione o dal lavaggio della 
                    strada, e lo metteva in un sacco di juta. Sul sacco, c’erano 
                    le iniziali “B.I.” E, particolare ancor più 
                    singolare, a poca distanza da lui, un tipo in completo scuro, 
                    cravatta e cappello poggiato indietro sulla nuca, ne seguiva 
                    le mosse, come se sorvegliasse il suo lavoro. Dopo un po’, 
                    il giovane inserviente nero si voltò verso quello che 
                    sembrava un detective del Bureau e fece un’espressione 
                    interrogativa, alzando le spalle e porgendogli il sacco: a 
                    suo avviso, non c’era altro da recuperare. Il detective 
                    prese il sacco e lo congedò con un cenno sbrigativo. 
                    Poi, andò verso l’ingresso del Park Row Building. 
                    Passando all’altezza del vecchio, lo notò. Li 
                    separava una ventina di metri. Il vecchio sostenne lo sguardo. 
                    E il detective, fissando quegli occhi chiari, gelidi, che 
                    sembravano scrutarlo dentro, provò una inspiegabile 
                    inquietudine. Quello stesso sguardo, decenni addietro, aveva 
                    costretto aguzzini ben più crudeli e spietati di lui 
                    a mollare la preda, a rinunciare allo scontro sapendo che 
                    avrebbero potuto avere la peggio…
                    Il detective, nella baldanza dei suoi trent’anni o forse 
                    meno, forte del proprio ruolo, fece il gesto di andare verso 
                    il vecchio, che restò immobile e cupo come la statua 
                    di un eroe morto. Forse voleva chiedergli chi fosse e cosa 
                    ci facesse lì, magari lo avrebbe costretto a qualificarsi, 
                    ma fu fermato da un collega spuntato sulla soglia, che lo 
                    chiamò dentro indicando il sacco che aveva in mano. 
                    Il detective rimase indeciso per un istante, gettò 
                    un’ultima occhiata a quel vecchio rudere con il bastone, 
                    e infine si voltò e rientrò nella sede del Bureau 
                    of Investigations.
                    Assassins, mormorò il vecchio tra i denti, nella sua 
                    lingua dimenticata da tempo, o forse lo pensò soltanto.
                    Il giovane nero, intanto, era andato dal collega con il secchio 
                    e la ramazza. Quest’ultimo gli disse: “Ne hai 
                    trovate ancora, di quelle pagine?” 
                    Il primo annuì, rispondendo: “Sì, ma erano 
                    le ultime. Che brutta faccenda, fratello. Se penso alla fine 
                    che ha fatto quel poveraccio…”
                    “Già. Mi sono scordato di darti anche questa”, 
                    disse il secondo, tirando fuori dalla tasca un foglio stropicciato: 
                    la pagina iniziale di un libro, come poté vedere da 
                    poca distanza il vecchio. Che si avvicinò e tese la 
                    mano, con un gesto che voleva essere garbato, quasi di supplica, 
                    ma ai due parve imperioso, un ordine perentorio. Rimasero 
                    a guardarlo perplessi. E ancora una volta, gli occhi in quel 
                    volto percorso da rughe profonde, quel bagliore metallico 
                    che incuteva rispetto, mise in imbarazzo i giovani inservienti.
                    “Per favore”, mormorò il vecchio, sempre 
                    con la mano tesa.
                    “Vuoi… vuoi questo pezzo di carta? E che te ne 
                    fai?”
                    “È mio”.
                    Il nero con la pagina in mano non si soffermò sull’assurdità 
                    di quell’affermazione. Poi, con uno scatto, quasi si 
                    liberasse di un peso, mise la pagina in mano al vecchio.
                    “Oh, se proprio ci tieni, prendi! Ma ti do un consiglio: 
                    togliti dai piedi, prima che quelli là dentro vengano 
                    a chiederti perché diamine te ne vai in giro a ficcanasare 
                    da queste parti”.
                    Il vecchio salutò con un cenno di inchino solenne, 
                    e si allontanò con quei suoi passi incerti, dolenti, 
                    trattenendo un gemito a ogni movimento, a ogni fitta nelle 
                    sue ossa deformate e dei suoi muscoli rattrappiti.
                    Poco più in là, fermandosi a riprendere fiato, 
                    appoggiandosi al bastone con la mano sinistra, usò 
                    la destra per spianare il pezzo di carta sul petto. Infine, 
                    guardò quella pagina staccatasi assieme a tante altre 
                    nell’impatto sul selciato, notò una traccia di 
                    sangue in un angolo, e pensò: “Andrea teneva 
                    il mio libro stretto a sé, durante quel volo. Ma perché? 
                    Perché?”
                    Era la prima pagina, l’intestazione, in italiano: Memorie 
                    autobiografiche di Clemente Duval.
                  
                   Sante Pollastro
                    Il ciclista con la pistola
                  Il 15 dicembre 1919 alla stazione di Reggio Emilia scende 
                    un giovane con una piccola valigia in mano. Ha vent’anni, 
                    una chioma di capelli neri e un bel volto su cui spicca un 
                    leggero strabismo all’occhio sinistro che rende un po’ 
                    indisponente il suo sguardo svagato, è piuttosto alto 
                    e agile di movimenti, ha l’aspetto fine e una certa 
                    innata eleganza nonostante il vestiario dimesso. Esce dalla 
                    stazione, guarda il cielo plumbeo e pensa: “Meno male 
                    che non piove”. Posa la valigia a terra, e comincia 
                    a spogliarsi. Cappotto, giacca, pantaloni, indumenti un po’ 
                    lisi ma decorosi, che ripiega con cura e mette nella valigia. 
                    Qualcuno si ferma a osservarlo, e quando toglie anche la camicia 
                    e resta in mutande, gli sguardi dei presenti da perplessi 
                    diventano stupefatti: Ma el matt, li lò?
                    E dopo aver riposto le scarpe e i calzini, si toglie anche 
                    le mutande. Prende la valigia e si avvia a passo lento e disinvolto 
                    verso il centro. Completamente nudo. Le donne e gli uomini 
                    che incrocia restano allibiti. C’è chi pensa 
                    più al freddo che fa, cul matt là al ciaparà 
                    so na polmonite, puvrein, ma anche chi nota la muscolatura 
                    perfetta, polpacci robusti e cosce snelle, da buon ciclista. 
                    Lo stupore, in molti passanti, produce una strana indifferenza: 
                    il giovane è talmente tranquillo, cammina e guarda 
                    dritto davanti a sé come se fosse perfettamente a suo 
                    agio, che nessuno si ferma. Giusto qualche occhiata da dietro, 
                    quando è ormai passato oltre.
                    Un ferroviere ha avvertito gli agenti di servizio in stazione. 
                    Non ci vuole molto per raggiungerlo. Lo superano e gli si 
                    parano davanti: non sanno bene cosa fare, sono indecisi se 
                    afferrarlo di peso o provare a chiedere che diamine gli passi 
                    per la testa. E non lo toccano. Lui si ferma, sorride, e non 
                    dice niente. “Giovanotto, ti senti bene? Guarda che 
                    è vilipendio al pudore…” Sorride, alza 
                    un sopracciglio e fa un’espressione enigmatica, quasi 
                    volesse dire che non dipende da lui. 
                    Uno dei tre agenti compie finalmente il gesto: lo prende per 
                    un braccio. Ma non è una stretta, appena un contatto 
                    timido, perché un conto è avere a che fare con 
                    i delinquenti, tutt’altra storia è trattare coi 
                    matti. Il giovane guarda prima la mano sul braccio, poi alza 
                    gli occhi al cielo e respira a fondo. Neanche fosse in alta 
                    montagna in piena estate. 
                    Arriva l’ambulanza, un po’ scassata, residuato 
                    della Grande guerra. Gli infermieri gli mettono una coperta 
                    sulle spalle. Li segue docilmente.
                  
 
                    Incompatibile con la vita militare
                   In stato di fermo, scoprono che si chiama Sante Pollastro 
                    e ha una fedina penale fitta di denunce e arresti, il primo 
                    risale a quando aveva appena tredici anni, e a quindici era 
                    già considerato “recidivo”. La questura 
                    lo ha consegnato alle cure dell’ospedale, ma ora, appurato 
                    di chi si tratta, la polizia non ha dubbi: con questa sceneggiata 
                    del nudismo nel centro della città emiliana, sta provando 
                    a farla franca perché è un disertore, sulla 
                    sua testa pende una condanna a quindici anni emessa dal tribunale 
                    di guerra di Alessandria. Certo, la guerra è finita 
                    da oltre un anno, ma lo stato pretende che vada comunque sotto 
                    le armi. Ecco perché si trovava su quel convoglio militare, 
                    da cui è sceso durante una sosta alla stazione di Reggio 
                    Emilia. Non è pazzo, decretano i medici impietosi dell’ospedale, 
                    dopo aver ricevuto una lunga velina dalla Questura. Con gli 
                    schiavettoni ai polsi, lo rispediscono alla caserma di Torino.
                    Poi, il tribunale militare accetta di considerare come una 
                    forma di demenza l’avversione di Pollastri Santo o Pollastro 
                    Sante – già era difficile stabilire come davvero 
                    si chiamasse – alla vita castrense. Forse quella corte 
                    marziale era stanca delle innumerevoli fucilazioni di soldati 
                    renitenti durante la guerra, meglio un “mezzo pazzo” 
                    che l’ennesimo lavativo in una cella, che se la brigassero 
                    gli psichiatri, i generali avevano altre incombenze a cui 
                    far fronte. E lo rinchiusero nel manicomio di Collegno, a 
                    fare lo smemorato come tanti altri, in largo anticipo sul 
                    famoso caso del 1926.
                  
                     
                        | 
                    
                     
                      Pino 
                          Cacucci   | 
                    
                  
                  
 
                    Una rabbia sorda
                   In effetti lo avevano iscritto all’anagrafe come Santo 
                    Decimo Pollastri, nato a Novi Ligure il 14 agosto 1899, figlio 
                    di Giuseppina Cabella e di Vincenzo, sellaio. Un padre che 
                    prima abbandona la famiglia e poi muore di pellagra quando 
                    lui ha solo sette anni. Intanto, tutti lo chiamano Sante, 
                    e quando qualcuno storpia il cognome in Pollastro, non lo 
                    corregge, anzi, presto comincerà a farlo suo, quando 
                    gli chiederanno le generalità ai primi fermi dei carabinieri.
                    Non era ancora orfano che già lavorava in una fornace 
                    di mattoni. A casa c’era da sfamare la sorellina, Carmelina, 
                    tre anni meno di lui: Santino la adorava, non sopportava di 
                    vederla patire la penuria che stava scivolando nella miseria 
                    nera, e così, l’infanzia se ne sarebbe andata 
                    via presto, tra un impasto e l’altro e i mattoni da 
                    caricare in spalla.
                    Quel sapore amaro che sente sempre in bocca non è dovuto 
                    al fumo e alla polvere rossastra. È rabbia sorda: per 
                    i padroni che gli danno un salario indegno, per i capoccia 
                    che sbraitano e rifilano scoppole, per i “signori” 
                    che se la spassano mentre i poveracci ingoiano umiliazioni. 
                    E la gente del borgo che si accalca davanti alla caserma del 
                    44° Reggimento in attesa di una mestolata di zuppa, gli 
                    avanzi della mensa del Regio Esercito, lui la guarda non con 
                    commiserazione ma con rancore: a che serve sgobbare dodici 
                    ore al giorno se la miseria non te la scrolli mai di dosso…
                    Rubare è giusto, anzi doveroso, per Santèin 
                    che a undici anni non si sente più un bambino. Ha un 
                    pugno di amici fidati, coetanei avvezzi alla vita di strada. 
                    Lì vicino c’è lo scalo ferroviario di 
                    San Bovo, con tutti quei treni merci carichi di ogni cosa. 
                    Carbone, tanto per cominciare, ché a Novi d’inverno 
                    fa un freddo cane. Sante e i suoi imparano presto a scardinare 
                    i portelloni. E una volta riempita la carbonaia di casa, va 
                    a distribuirne con una carriola alla gente miseranda del borgo. 
                    Lui, Sante Pollastro, non aspetta l’elemosina di una 
                    scodella di zuppa davanti alla caserma: va a prendersi ciò 
                    che occorre a sopravvivere dove ce n’è in abbondanza. 
                    Si ingegna a farsi un’imbragatura per appendersi ai 
                    vagoni provenienti dal porto di Genova e diretti in Svizzera, 
                    che a Novi rallentavano permettendo a lui e i suoi di saltare 
                    sui predellini, agganciarsi ai portelloni e aprirli con i 
                    piedi di porco. I ragazzini della banda lo considerano ormai 
                    un capo, e lo soprannominano Rangugnìn, rissoso, attaccabrighe, 
                    perché tiene testa a chiunque. Ma non è spavaldo, 
                    men che mai un prepotente. Al contrario, nel borgo lascerà 
                    di sé un ricordo di ragazzino dal cuore buono e generoso, 
                    sempre disponibile quando c’è da dare una mano 
                    a qualcuno. Insomma, Santèin è precoce, nell’individuare 
                    amici e nemici. Questi ultimi, sono i signori ben pasciuti 
                    e gli sbirri che li difendono.
                    Gli “sbirri” non tardano a piombargli addosso. 
                    Il 25 maggio 1912 lo acciuffano dopo che ha “svaligiato” 
                    un vagone di mattonelle per la stufa, gliene trovano solo 
                    quattro, ma bastano per buscarsi quindici giorni di gattabuia. 
                    Santino non lo sa, ma appena un mese prima è morto 
                    Jules Bonnot, l’anarchico che inventò la rapina 
                    in banca in automobile, crivellato di pallottole dopo un lungo 
                    assedio in una cascina alle porte di Parigi. Più avanti, 
                    la figura di Bonnot sarà per lui un costante riferimento. 
                    In quanto alle automobili, preferirà sempre la bicicletta, 
                    prima per tentare una improbabile carriera di corridore, poi 
                    per fuggire. E già allora, da ragazzino, Costante Girardengo 
                    è un idolo. Il campione di Novi Ligure ha sei anni 
                    più di lui, comincia a mietere vittorie mentre Santino 
                    va e viene dalla prigione – altri quindici giorni, poi 
                    trenta, e sessanta… – e non possono certo conoscersi 
                    e frequentarsi, distanti come sono le loro condizioni e l’età 
                    che li separa, e anche se Novi è piccola, uno è 
                    già un campione, l’altro il futuro bandito.
                  
 
                    Passeggiata nudista
                   Sante adolescente ha una Bianchi da corsa. Non l’ha 
                    rubata, ma è grazie ai furti che ha potuto comprarla. 
                    Sogna di eguagliare le imprese di Girardengo, eppure, nelle 
                    gare di provincia non arriva mai tra i primi. La bicicletta 
                    resta una passione, nonché il mezzo per sfuggire alle 
                    guardie: non a caso Lombroso scriveva già nel 1900 
                    un saggio dal titolo “Il ciclismo nel delitto”, 
                    definendo quel mezzo di locomozione come un pericoloso strumento 
                    generatore di delinquenza, “la passione del pedalare 
                    trascina alla truffa, al furto, alla grassazione”. Ma 
                    è con la pistola che Sante eccelle: nella villa di 
                    un conte che ha svaligiato, si è portato via una pistola 
                    francese da tiro a segno, una Flobert di piccolo calibro, 
                    con cui ben presto fa la prodezza di centrare una moneta a 
                    venti metri. Poi, si esercita a sparare pedalando: lampioni, 
                    isolatori di corrente, addirittura i fili. Chiude l’occhio 
                    strabico e prende la mira al volo con quello destro: infallibile.
                    Il borgo dove vive protegge i ladri per solidarietà 
                    proletaria e coltiva ideali socialisti e anarchici. Sante 
                    prende a frequentare un vecchio anarchico che sulle prime 
                    lo tratta in modo scorbutico, un tipo un po’ misantropo 
                    che chiamano Umèto e se ne sta per conto suo in una 
                    decrepita bicocca. Sante ha sete di sapere, l’ideale 
                    è ancora vago e Umèto gli parla di Gaetano Bresci, 
                    il vendicatore venuto dagli Stati Uniti per giustiziare Umberto 
                    I, il re che aveva decorato il generale Bava Beccaris per 
                    la bella impresa di aprire il fuoco con i cannoni sui milanesi 
                    che chiedevano pane, un centinaio i morti e mezzo migliaio 
                    i feriti. E gli fa leggere pubblicazioni anarchiche, dove 
                    Sante nota spesso gli articoli di un certo Renzo Novatore, 
                    singolare figura di pensatore passato all’azione, poeta 
                    e prosatore di invettive individualiste intrise di futurismo, 
                    profondo conoscitore di Max Stirner, estimatore di Wilde e 
                    Baudelaire, Nietzsche e Schopenauer. Non può immaginarlo, 
                    in quelle giornate trascorse a parlare di anarchia con Umèto, 
                    che di lì a pochi anni lui e Novatore avrebbero legato 
                    tragicamente i propri destini.
                    E poi, c’è Girardengo… che nel 1918 vince 
                    la Milano-Sanremo e l’anno successivo addirittura il 
                    Giro d’Italia, maglia rosa dalla prima all’ultima 
                    tappa. Intanto c’è stata la guerra, Sante Pollastro 
                    non si è presentato alla chiamata alle armi, “ragazzo 
                    del ‘99”, convinto che quella macelleria tra poveracci 
                    fosse un crimine vile e non una parata di eroi, e comunque, 
                    ormai aveva messo assieme una banda di ladri esperti scassinatori, 
                    continuava a distribuire refurtiva ai poveri del borgo, facendosi 
                    benvolere da quelli e odiare dalle guardie del re. 
                    Fatto curioso, anche Girardengo aveva rischiato una condanna 
                    per diserzione. Arruolato nei bersaglieri, quando si era vista 
                    negare una licenza per correre la gara del campionato italiano 
                    nell’alessandrino, se l’era svignata: al traguardo 
                    di Spinetta Marengo aveva battuto tutti in volata, poi, tornato 
                    in caserma a Verona, si era beccato quindici giorni di cella 
                    di rigore più un mese di carcere. Niente corte marziale, 
                    grazie a un medico fanatico di ciclismo che gli aveva diagnosticato 
                    una malattia inesistente per tenerlo al riparo da carcere 
                    e trincee. 
                    Strani anni, quelli della guerra, quando Sante Pollastro doveva 
                    essere ricercato per diserzione eppure girava tranquillo per 
                    le osterie di Novi, dove Girardengo, giovanotto semplice e 
                    alla buona, andava a bere mezzo bicchiere con i compaesani. 
                    Fu così che un comune amico, Cavenna, li presentò. 
                    Sante ammirava Costante, e il campione sapeva che l’altro 
                    pedalava forte, e lo invitò ad allenarsi nella sua 
                    squadra. Ma era troppo tardi. Non per l’età, 
                    che Sante era più giovane di Costante, ma per le scelte 
                    irreversibili ormai fatte. E mentre Girardengo vinceva anche 
                    il Giro della Lombardia, Pollastro inscenava la passeggiata 
                    nudista a Reggio Emilia.