
                  Nel 1987 Milano era ancora una città “da 
                    bere”, esibiva ricchezza e arroganza. L’immigrazione 
                    era un fenomeno già significativo ma sostanzialmente 
                    ignorato dalla cittadinanza e dalle istituzioni.
                  Io faccio il medico di base dall’Ottanta e all’epoca 
                    facevo anche il medico scolastico, impegnato nel sociale. 
                    Vicino al mio ambulatorio, in fondo al Cimitero Maggiore, 
                    al Triboniano, c’era un campo nomadi. Una sera, nel 
                    1986, sbucarono nel mio ambulatorio alcuni componenti del 
                    consiglio comunale che mi conoscevano e mi chiesero se potevo 
                    occuparmi dell’assistenza sanitaria di quel campo, dove 
                    c’erano delle persone malatissime, alcune con infarto 
                    e appena dimesse dall’ospedale. Così cominciai 
                    a frequentarli e a visitarli: andavo una o due volte la settimana, 
                    era un lavoro faticoso perché devi andare da loro, 
                    ti devi conquistare la fiducia...
                    A quei tempi gli immigrati a Milano non erano sentiti come 
                    un problema, non c’era neanche la legge Martelli (1), 
                    ma c’erano tantissime persone senza permesso di soggiorno: 
                    la situazione era tollerata, ma erano tutti senza servizio 
                    di assistenza sanitaria. 
                    Quindi mi sono detto: per affrontare questo problema invece 
                    che andare da loro, se gli immigrati vengono in studio diventa 
                    molto più facile, con minor sforzo si riescono a curare 
                    più persone. Ma questo non potevo farlo da solo, quindi 
                    ho cominciato a pensare che era importante farmi aiutare da 
                    qualche collega e da qualche volontario. 
                    Da anarchico, ritenevo di dover agire direttamente per cambiare 
                    il sociale senza aspettare o delegare.
                  
 
                    Un punto di riferimento
                   Come venne accolta questa iniziativa?
                   Mi venne fatta l’obiezione che in questo modo ci si 
                    sostituiva allo stato, quindi non si lottava per il diritto 
                    ma si tappava un buco. Inoltre, creando un ambulatorio, si 
                    ghettizzava la problematica perché tutti gli immigrati 
                    si concentravano in studio.
                    Su questo avevo riflettuto e mi ero confrontato con altre 
                    realtà attive in quel periodo. C’era stato un 
                    tentativo di alcuni medici dell’Istituto Mario Negri 
                    di Milano di creare una rete di dottori disponibili per sparpagliare 
                    gli immigrati presso le varie zone. Però non aveva 
                    funzionato molto.
                    La mia risposta fu questa: “Tante mosche non si vedono, 
                    invece se le mettiamo insieme diventano un problema evidente, 
                    di politica e di lotta”. 
                  L’iniziativa funzionò...
                  Funzionò perché poi gli immigrati si passarono 
                    la voce e nel 1987 fondammo il NAGA, una onlus per l’assistenza 
                    socio-sanitaria a stranieri e nomadi. All’epoca era 
                    formato prevalentemente da medici, perché la struttura 
                    ruotava intorno all’assistenza sanitaria, mentre i volontari 
                    si occupavano dell’accoglienza, della raccolta di farmaci, 
                    etc. 
                    La sede era nel mio studio, dove era nato. Negli orari in 
                    cui era chiuso l’ambulatorio aprivamo come NAGA, venivano 
                    due o tre colleghi e visitavamo nella stessa stanza, mentre 
                    una serie di volontari stavano con dieci o quindici persone 
                    in sala d’attesa. Gli esami venivano fatti grazie a 
                    un ottimo direttore dell’ASL in questa zona.
                    A questo punto il Naga aveva cominciato a diventare un punto 
                    di riferimento, ma il problema era di non diventare una stampella 
                    dello stato, essere funzionale al sistema. Bisognava da una 
                    parte evidenziare i bisogni, farli risaltare, ma dall’altra 
                    cercare di lottare perché l’assistenza sanitaria 
                    diventasse un diritto per le persone prive del permesso di 
                    soggiorno.
                    In quegli anni c’era poi il bisogno di dare una risposta 
                    alla Lega Lombarda, che sosteneva che gli stranieri portavano 
                    le malattie infettive, cosa non assolutamente vera: come dimostrato 
                    da studi, sia nostri sia di altri, gli immigrati arrivavano 
                    sani in Italia e poi si ammalavano qui per le condizioni igieniche 
                    e ambientali in cui erano costretti a vivere.
                    Per dare una risposta “scientifica” a questo tipo 
                    di diceria nel 1989 organizzammo un grande convegno dal titolo 
                    “Il colore della salute”, invitando una serie 
                    di persone importanti, tra i quali ad esempio lo scrittore 
                    marocchino Tahar Ben Jelloun. 
                  Nello stesso periodo stavate cercando una nuova sede.
                   Erano anni che cercavamo una sede, a quei tempi a Milano 
                    c’era il centro-sinistra, c’era Pillitteri, che 
                    non ci ha mai dato nulla. Ci aiutò moltissimo una giornalista 
                    che era venuta a riprenderci mentre visitavamo nella vecchia 
                    sede: il servizio venne trasmesso più volte, prima 
                    sui rai tre regionale, poi sul nazionale, a mezzogiorno e 
                    a sera. Di colpo, dopo il servizio, il comune trovò 
                    la sede per noi, in via Bligny.
                    Quando andammo a vedere ci accorgemmo che il palazzo era decadente, 
                    e l’interno era anche peggio. Il Comune si vantava “Abbiamo 
                    dato una sede al Naga”, invece si trattava di un cumulo 
                    di macerie! Ma non avevamo alternativa, quindi lo prendemmo 
                    in affitto – regolare senza sconti – con tutti 
                    i lavori da fare a nostro carico. 
                    La Lega delle Cooperative si fece avanti alla nostra richiesta 
                    di aiuto: “Ve lo ristrutturiamo noi, però con 
                    i nostri tempi, con i nostri materiali”.
                    Ci hanno impiegato un anno, un anno e mezzo. 
                   Avete mai collaborato con altre associazioni?
                  All’inizio moltissime realtà in Italia ci chiesero 
                    se potevano chiamarsi Naga, ma siamo sempre stati contrari 
                    perché era bello che ognuno tenesse la sua autonomia, 
                    lavorasse nel suo contesto. Abbiamo spiegato che era meglio 
                    che ognuno avesse il proprio nome, la propria indipendenza, 
                    che potevamo coordinarci e incontraci tra realtà simili, 
                    ma non aveva senso che esistesse una struttura centralizzata. 
                    
                    Con altre associazioni abbiamo collaborato su progetti specifici, 
                    ad esempio con la Caritas di Roma per la definizione di una 
                    legge che prevedesse il diritto alle prestazioni essenziali 
                    mediche per tutti gli stranieri temporaneamente presenti in 
                    Italia – senza denunce. È una legge decente, 
                    ancora in vigore, dove è stabilito l’accesso 
                    in maniera gratuita a tutti i servizi sanitari per i bambini 
                    e anche per le donne in maternità responsabile – 
                    cosa che la Caritas non voleva, voleva solo la gravidanza 
                    escludendo l’aborto.
                    Questa legge venne scritta da noi con una serie di avvocati, 
                    ma venne portata avanti in parlamento soprattutto dalla Caritas 
                    che aveva i suoi agganci politici, e venne approvata nel 1991 
                    quasi all’unanimità (2). 
                    Anche la destra l’aveva votata, tranne dalla Lega. 
                  Come si è passati da un’attività 
                    basata solo sull’assistenza all’attuale organizzazione?
                  L’impostazione non è mai stata fissa, rigida, 
                    ma è cambiata nel tempo anche in relazione ai volontari 
                    che entravano, plasmavano e modificavano. Nel corso delle 
                    assemblee annuali ci rendemmo conto che non si poteva affrontare 
                    l’aspetto sanitario se non in un contesto che comprendesse 
                    i diritti, i permessi di soggiorno. Per cui decidemmo di cambiare 
                    lo statuto, di non occuparci più solo dell’aspetto 
                    sanitario, ma di occuparci dei diritti a 360°. 
                  
                     
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                      Naga 
                          - Medicina in strada (foto di Luana Monte)  | 
                    
                  
                  
 
                    Una passerella sospesa tra due sogni
                  Chi sono i volontari del Naga?
                  Sono persone giovani oppure in pensione che, per motivi religiosi 
                    o per motivi ideologici, sono entrati in una associazione 
                    che da una parte dà delle risposte concrete, com’è 
                    giusto che sia il volontariato che non può essere solo 
                    ideologico, ma nello stesso tempo lotta per una serie di diritti
                    Una ragazza di vent’anni mi ha detto: “Siccome 
                    io voglio costruirmi un domani diverso da quello che c’è 
                    adesso, voglio costruirlo insieme agli immigrati, voglio unirmi 
                    a questa associazione per conoscerli un po’ di più 
                    perché ci devo convivere, e voglio vivere in una società 
                    dove possono avere i loro diritti”.
                    Ultimamente siamo sui trecento volontari, ognuno porta le 
                    sue idee: c’è un’anima molto presente con 
                    il tema della carità, del dare i vestiti, i farmaci; 
                    c’è un’area attenta alla lotta per i diritti. 
                    Non siamo mai stati legati né a un sindacato né 
                    a un partito: ci occupiamo di una fascia di persone che non 
                    interessa nessuno, anzi da cui i partiti si tengono molto 
                    lontano (ad esempio dai rom).
                  Ci sono migranti all’interno del Naga?
                  Il problema grosso è che il migrante non riesce ancora 
                    a essere volontario, perché la sua situazione è 
                    ancora troppo presa dalla sopravvivenza. Probabilmente la 
                    seconda generazione potrà cominciare a essere volontaria, 
                    l’associazione sarà in mano a loro e sempre meno 
                    agli italiani.
                    Ci sono state delle alleanze con comunità strutturate, 
                    che si attivavano non tanto per proporre volontari, ma per 
                    fare in modo che le persone arrivassero a farsi curare, facevano 
                    trait d’union rispetto al NAGA. 
                  Attualmente tu ti occupi soprattutto di rifugiati.
                  Tra immigrato e rifugiato c’è una bella differenza. 
                    L’immigrato arriva quando è pronto per emigrare, 
                    il rifugiato invece deve scappare e arriva in un luogo che 
                    non ha scelto, non ha scelto il tempo e non ha la rete amicale 
                    dell’immigrato – che arriva a Milano perché 
                    c’è il suo amico, il parente. L’immigrato 
                    ha un sogno, quello di fare fortuna e di poter tornare nel 
                    suo paese: cito sempre la frase di Ben Jallun “io sono 
                    quell’altro che ha attraversato il paese su una passerella 
                    sospesa tra due sogni”. In queste parole c’è 
                    tutta la forza dell’altro che non vuole essere assimilato 
                    a te, con l’orgoglio di dire “io sono quell’altro”. 
                    
                    Il rifugiato invece è un ponte che si è spezzato, 
                    perché non può più tornare: ha perso 
                    il posto di lavoro e un ruolo, arriva senza posti dove andare, 
                    con un percorso che non sa, senza amici, con la paura addosso. 
                    
                    Sono vittime di conflitti civili, fondamentalismi religiosi 
                    e regimi dittatoriali. Quindi sono in una situazione di estrema 
                    povertà, in situazione disperata dove non c’è 
                    nessun tipo di accoglienza.
                    Una categoria cui non viene dato nulla e a cui dobbiamo dare 
                    delle risposte, per cui abbiamo creato una struttura, NagaHar 
                    (3), uno spazio-casa, dove il rifugiato 
                    può riposare, ricostruire le coordinate spazio-temporali 
                    che ha perso. Un luogo accogliente dove c’è la 
                    possibilità di stare durante il giorno. Li aiutiamo 
                    a sbrigare le pratiche burocratiche, ma soprattutto li seguiamo 
                    da un punto di vista medico e psicologico. Si fanno controlli 
                    per accertare i danni delle torture e li si aiuta a riappropriarsi 
                    della propria vita, a ricostruire la propria identità. 
                    
                    Ora avremo una nuova sede molto più grande di quella 
                    vecchia, in affitto con il Comune mentre prima era con l’Aler. 
                    Nella vecchia sede abbiamo avuto un’accoglienza con 
                    bombe, incendio e minaccia con la pistola, perché c’era 
                    un po’ di criminalità a cui dava fastidio che 
                    ci fossero tanti immigrati. All’inizio è stato 
                    veramente pesante, sono state anche raccolte firme prima che 
                    entrassimo. Ma l’Aler non se l’è sentita 
                    di sbatterci fuori, avevamo tutte le carte in regola.