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                  Ne L’uomo che credeva di essere morto 
                  (1), il neurobiologo Vilayanur S. Ramachandran 
                  afferma con perentorietà che “l’uomo è 
                  l’unica creatura che possieda un vero linguaggio”. 
                  Dal momento che, però, non è né stupido 
                  né autoritario – ovvero metodologicamente scorretto 
                  -, Ramachandran si affretta a portare prove a sostegno della 
                  propria affermazione cominciando col distinguere il linguaggio 
                  da ciò che linguaggio non è. Elenca così 
                  “cinque caratteristiche che rendono il linguaggio umano 
                  unico e radicalmente diverso da altri tipi di comunicazione”. 
                  Analizzerò una ad una queste caratteristiche. 
                  La prima è quella relativa all’ampiezza del nostro 
                  vocabolario. Si dice che a otto anni un bambino utilizzi circa 
                  seicento parole e questo numero “supera di due ordini 
                  di grandezza” quello dei richiami del cercopiteco grigioverde. 
                  È lo stesso Ramachandran a far notare che questa “è 
                  una questione più quantitativa che qualitativa”. 
                  Via una. Ne rimangono quattro. 
                  La seconda è quella relativa al “fatto” (lo 
                  metto io tra virgolette, in attesa di poterlo o non poterlo 
                  avvalorare come tale) che “solo l’uomo ha parole 
                  funzionali che esistono esclusivamente nel contesto del linguaggio”. 
                  A dire il vero le parole dovrebbero esser tutte “funzionali”, 
                  ma qui si intende semplicemente riferirsi agli elementi di correlazione 
                  tra i vari correlati. Per esempio: in “se il cane abbaia, 
                  allora c’è una volpe”, “se” e 
                  “allora” vengono certamente classificate come “funzionali”, 
                  mentre “cane” e “volpe” certamente no. 
                  Ugualmente, da una parte dovremmo mettere “il”, 
                  “ci” e “una”, mentre dall’altra 
                  “abbaia” e “è”. La questione 
                  è piuttosto complicata – e, infatti, è annosa, 
                  molto discussa e discutibilissima –, ma qui posso anche 
                  soprassedere. Mi limito a porre una domanda: come può 
                  Ramachandran sostenere che altri animali, nel loro specifico 
                  sistema di comunicazione, non abbiano sviluppato forme espressive 
                  capaci di soddisfare una differenza analoga? Si pensi a determinate 
                  sequenze di posture del cane assunte in vista dei più 
                  svariati scopi o anche alle espressioni del “muso” 
                  (mi sembra quasi politicamente scorretto non chiamarla “faccia”) 
                  con cui accompagna il passaggio da una fase all’altra 
                  delle coccole che riceve. Sono ipotesi che non saprei come scartare 
                  a priori. Ma, se si vuole andare sul sicuro, si verifichi la 
                  documentazione relativa al Lana Project – l’addestramento 
                  di uno scimpanzé alla comunicazione con l’uomo 
                  tramite computer – e si riscontrerà come, dopo 
                  averle insegnato con la gradualità opportuna, Lana utilizzi 
                  regolarmente sia parole di un tipo come dell’altro (come 
                  in “put ball into box”, o in “move out-of 
                  room”, o in “Tim give banana which-is black to Lana”, 
                  dove le parole “funzionali” sono almeno due) (2). 
                  Via due. Ne rimangono tre. 
                  La terza è quella relativa all’uso umano di parole 
                  in mancanza di ciò cui si riferiscono. Posso parlare 
                  della partita di calcio di ieri, insomma, come di quella di 
                  domenica prossima o di quella che immagino nella mia mente. 
                  “Questo tipo di complessità”, dice Ramachandran, 
                  “non si trova in quasi nessuna delle forme spontanee di 
                  comunicazione animale”. Si sarà notata la doppia 
                  cautela: c’è un “quasi” e la specificazione 
                  della “spontaneità” (Ramachandran sarebbe 
                  il primo ad ammettere che questa “spontaneità” 
                  non è chiarissimo in che consista) che la dicono lunga. 
                  “Le scimmie a cui si insegna il linguaggio dei segni” 
                  – non sta parlando di Lana, sta parlando di parecchie 
                  altre addestrate in tutt’altro modo – “sanno 
                  naturalmente usare i segni in assenza dell’oggetto a cui 
                  ci si riferisce”. Lo dice lui. Lo dice tra parentesi ma 
                  lo dice lui. Ho pertanto l’impressione che via tre. Ne 
                  rimangono due. 
                  La quarta è quella relativa all’uso di metafore 
                  e di analogie. Vorrei innanzitutto chiarire la differenza tra 
                  i due termini: il primo designa una sequenza di operazioni mentali 
                  cui corrisponde un risultato di ordine linguistico; il secondo 
                  designa la specificità di queste operazioni mentali. 
                  Se altri me la spiegano in termini diversi si facciano pure 
                  avanti. Qui, comunque, il punto resta un altro. È Ramachandran 
                  stesso a mettere in dubbio che “solo l’uomo” 
                  ricorre a questi due marchingegni, perché “quando, 
                  tra le scimmie, un maschio alfa mostra i genitali per intimidire 
                  un rivale e indurlo alla sottomissione, il gesto equivale alla 
                  metafora ‘Vaff…’ con cui gli uomini si insultano 
                  a vicenda”. Lui se lo domanda, ma cosa ne pensa è 
                  chiaro: sì, più o meno sì. E gli esempi 
                  – con cani, gatti, uccelli – potrebbero moltiplicarsi. 
                  Via quattro, allora. Ne rimane una. 
                  La quinta è quella relativa alla sintassi. “La 
                  sintassi flessibile e ricorsiva si trova solo nel linguaggio 
                  umano”. Sarebbe una tesi sostenuta “in genere” 
                  dai linguisti che servirebbe loro a dimostrare, durante qualche 
                  fase dell’evoluzione della specie, l’avvento di 
                  un “salto qualitativo” tra la comunicazione umana 
                  e qualsiasi altra forma di comunicazione animale. Presentando 
                  la sintassi “un numero superiore di regolarità” 
                  – rispetto a che? Rispetto alla semantica? – “può 
                  essere affrontata in modo più rigoroso di altri aspetti 
                  maggiormente nebulosi del linguaggio”. Non a caso, Chomsky 
                  ci ha perso dietro tanto tempo per poi accorgersi che, ma guarda 
                  un po’, nel linguaggio c’è anche un aspetto 
                  semantico che, forse, non andrebbe trascurato. Sarà comunque 
                  studiabile nel modo più “rigoroso” – 
                  o, meglio, sarà formalizzabile – quanto si voglia, 
                  ma resta il fatto che qualsiasi osservazione dei comportamenti 
                  comunicativi di altri animali pone in evidenza sequenze ordinate 
                  di segni. Non solo c’è ancora Lana a dimostrare 
                  la correttezza sintattica con cui comunicava con gli sperimentatori, 
                  ma basta giocare con un cane che non si può fare a meno 
                  di rilevare regolarità – le sue regolarità, 
                  ovviamente, non le nostre: occhi, ringhio, assalto e fuga, per 
                  esempio, nella finta aggressione che il nostro cane Papere si 
                  divertiva ad inscenare appena giunti ai giardinetti pubblici. 
                  Via cinque, ahimé, e non ne rimane nessuna. 
                  O, meglio, più avanti Ramachandran torna alla carica 
                  – per interposta persona, e prova da aggiungerne una sesta. 
                  Cita un saggio di Noam Chomsky e di Marc Hauser – un linguista 
                  e un neuroscienziato –, pubblicato su “Science” 
                  nel 2001 e tutto dedicato all’esclusività del linguaggio 
                  a favore della specie umana. Ivi, i due autori “avevano 
                  scoperto che quasi ogni aspetto del linguaggio si poteva osservare, 
                  dopo adeguato addestramento, in altre specie”, ma che 
                  “l’unico aspetto che rendeva la struttura grammaticale 
                  profonda dell’uomo unica era l’inclusione ricorsiva”. 
                  Fiumi di inchiostro sono già stati dispersi per mettersi 
                  d’accordo su cosa sia una “struttura grammaticale 
                  profonda” e su come si distingua da una “superficiale” 
                  – il profondo e il superficiale presuppongono un volume 
                  e qui non è chiaro di cosa consista questo volume – 
                  e non ho intenzione alcuna di aggiungerci anche il mio. Tuttavia, 
                  non posso esimermi dal far notare che, con “inclusione 
                  ricorsiva”, si intende una particolarità della 
                  sintassi. Secondo Ramachandran ne è un esempio una frase 
                  come “John che amava Julie usò il cucchiaio”. 
                  Un animale non potrebbe mai capire che a usare il cucchiaio 
                  sia stato John e non Julie. Mentre – par di capire – 
                  che una frase come “Susan è venuta e ha picchiato 
                  John e ha preso l’autobus e Charles è caduto”, 
                  cioè una frase “enumerativa”, potrebbe essere 
                  anche alla portata dell’ipotetica Lana di turno. Dunque 
                  – è la mia prima constatazione – la sintassi 
                  in quanto tale non discrimina affatto uomo e animale. La discriminante 
                  concerne la rete correlazionale – la sua architettura 
                  e, nel caso, la sua disambiguazione: questioni di tempi e di 
                  quantità, questioni anche semantiche (alla faccia di 
                  chi sostiene – temo Ramachandran incluso –la netta 
                  distinzione tra sintassi e semantica), non di “salti qualitativi”. 
                  
                2. Avevo avuto occasione di tornare 
                  su questo genere di cose recentemente – in relazione ad 
                  un dibattito con Piero Borzini, Francesco Ferretti e Aldo Frigerio 
                  (3). Innanzitutto avevo fatto un esempio. 
                  Nell’Introduzione al Dizionario enciclopedico delle scienze 
                  del linguaggio (4), Oswald Ducrot e Tzvetan 
                  Todorov avvertono che hanno stabilito di “considerare 
                  la parola linguaggio nella sua accezione più ristretta 
                  – e banale – di “lingua naturale” e 
                  non in quella di “sistema di segni”. Con ciò, 
                  diciamo che si sono messi al sicuro. Dal loro dizionario enciclopedico 
                  rimane fuori parecchio, tra cui il “linguaggio animale” 
                  e quello “gestuale”, più una quantità 
                  indefinita di altri linguaggi. Abbandonando il “puramente 
                  verbale”, si sarebbero trovati a trattare di un oggetto 
                  di cui sarebbe stato arduo stabilire i limiti. Ritengo che ciò 
                  testimoni a sufficienza della difficoltà incontrata dalla 
                  scienza linguistica nel definire il proprio oggetto. D’altronde 
                  – facevo anche notare –, allorquando qualcuno ci 
                  prova, si mette nei guai. O, almeno, per non mettersi troppo 
                  nei guai, sembrerebbe costretto a rimanere nel vago. Come esempio 
                  di uno che si mette nei guai portavo quello di Umberto Eco che 
                  definisce un “codice linguistico” come “rappresentato 
                  da un sistema sintattico”, ovvero come “un repertorio 
                  di significanti e le loro regole di combinazione”, che 
                  trasmetterebbe “sistemi di significato”. Ovviamente, 
                  si rende subito conto che questi “sistemi di significato” 
                  andrebbero meglio individuati – perché essenziali 
                  in ogni linguaggio – e rapportati in modo chiaro sia al 
                  “repertorio di significanti” che alle relative “regole 
                  di combinazione”, ma, dopo aver rifiutato l’eventuale 
                  loro equivalenza con la “cultura”, preferisce deviare 
                  sull’“ideologia”, intesa come “patrimonio 
                  o sistema di concetti, conoscenze, esperienze, credenze e valori” 
                  (5). La stessa metaforicità del “trasmettere”, 
                  poi, non aiuta a migliorare le cose – checché se 
                  ne dica, in una comunicazione non si “trasmette” 
                  alcunché, perché gli esseri umani non costituiscono 
                  un circuito elettrico.  
                  Non mi sono dilungato sull’origine di questo ritrosia 
                  – una ritrosia definitoria, ma, consapevolmente o meno, 
                  un segno di impotenza – perché me ne sono occupato 
                  più volte. In poche parole, ritengo che questa situazione 
                  derivi direttamente dalla teoria della conoscenza che, con minime 
                  varianti, assegna al linguaggio il compito di ratificare il 
                  rispecchiamento di una copia metaforicamente “fuori” 
                  del conoscente con la copia “dentro” il conoscente. 
                  Da questo confronto impossibile e da questo rapporto tra il 
                  suo presunto risultato e il linguaggio, deriva – tra tutte 
                  le altre disgrazie – anche la sostanziale inanalizzabilità 
                  del significato e la rinuncia al significato di una parte essenziale 
                  e indispensabile del patrimonio linguistico (vedi le tante parole 
                  definite semplicemente come “funzionali”). Liberandosi 
                  dell’esigenza filosofica della fondazione del sapere e 
                  togliendo ogni alone di misticità al linguaggio, è 
                  possibile individuare come costitutive di ogni linguaggio alcune 
                  caratteristiche. E qui sta il punto. Ho l’impressione 
                  che nessuna di queste possa effettivamente discriminare tra 
                  le specie animali. La prima di queste caratteristiche è 
                  che venga svolta un’attività mentale, la seconda 
                  è che questa venga designata ponendo – ecco la 
                  terza caratteristica – un rapporto – il rapporto 
                  “semantico” – tale per cui si possa passare 
                  mentalmente dalla prima al secondo e viceversa. La quarta caratteristica 
                  è quella della combinatoria – che tutti gli elementi 
                  così costituiti, designanti rapportati a designati, possano 
                  essere ordinati indefinitamente. Sarei anche tentato di aggiungere 
                  una quinta caratteristica – quella dell’individuazione 
                  di elementi in funzione di correlatori distinguibili da quelli 
                  in funzione di correlati –, ma, alla luce di quanto osservato 
                  a Ramachandran (a proposito della sua seconda caratteristica) 
                  – la difficoltà di appurare la questione in linguaggi 
                  diversi dal nostro (fermo restando che anche il nostro può 
                  proporre casi dubbi) –, credo di poterla qui ignorare 
                  in quanto criterio non utilizzabile allo stato attuale delle 
                  conoscenze – essendo tuttavia implicito che indagini di 
                  ordine neurobiologico in proposito potrebbero essere effettuate 
                  (spesso, di una distinzione di funzioni non si sa nulla perché, 
                  non avendole analizzate a sufficienza, non si sa di poterla 
                  e doverla cercare – Ramachandran fa un’osservazione 
                  del genere a proposito proprio del linguaggio ed alle tante 
                  e varie aree cerebrali che lo governano). 
                3. Sulla definizione del linguaggio 
                  – sui criteri minimi per accertarlo e accettarlo come 
                  tale – si dibatte tuttora. Anzi, direi che più 
                  gli argomenti si fanno sottili, più il dibattito si fa 
                  infuocato. Ancora nel dibattito precedentemente rammentato emergevano 
                  posizioni apparentemente contrapposte. Mentre, per esempio, 
                  Frigerio prova a caratterizzare in modo esclusivo il linguaggio 
                  umano, oltre che per essere “sistema di segni” e 
                  per la sua “sintassi” – per la sua non chiarissima 
                  “composizionalità” – il che “significa 
                  che il significato dei segni complessi è ricavabile da 
                  quello dei segni più semplici e dalle regole di composizione” 
                  (6), Ferretti smonta pezzo per pezzo le 
                  argomentazioni di Chomsky – il sostenitore più 
                  illustre del mito della differenza qualitativa di linguaggio 
                  umano e linguaggio “animale” (7). 
                  La posta in gioco è grossa. Si tratta di preservare o 
                  non preservare l’unicità e il destino dell’uomo 
                  dalla miseria animale – e dunque si tratta di religione 
                  e della sua forza persuasoria. E al contempo si tratta di sottrarre 
                  o non sottrarre il linguaggio alle leggi dell’evoluzione 
                  – e dunque si tratta ancora di religione, delle credibilità 
                  delle varie versioni di creazionismo e della capacità 
                  persuasoria del “disegno intelligente”. 
                  
                  Felice Accame 
                Note
 
                  - Mondadori, Milano 2012, pagg. 179-182 e 208-209. 
                  
 - Cfr. E. Von Glasersfeld, Linguaggio e comunicazione 
                    nel costruttivismo radicale, Clup, Milano 1989, pagg. 
                    231-275. 
                  
 - Cfr. M. Marcheselli, in Working Papers 
                    della Società di Cultura Metodologico-Operativa, 253, 
                    2012, in methodologia.it. 
                    Il dibattito si è svolto alla libreria Odradek di Milano 
                    il 10 febbraio 2012. 
                  
 - Isedi, Milano 1972.
                  
 - Cfr. U. Eco, Codici e ideologie, in AAVV., 
                    Linguaggi nella società e nella tecnica, 
                    Edizioni di Comunità, Milano 1970, pag. 129. 
                  
 - Cfr. A. Frigerio, Filosofia del linguaggio, 
                    Apogeo, Milano 2011, pagg. 3-5. 
                  
 - Cfr. F. Ferretti, Alle origini del linguaggio umano, 
                    Laterza, Roma-Bari 2010. 
                
                  
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