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                  Piazza Fontana 
                  Una storia non solo mia 
                  di Paolo Finzi 
                  Nella seconda edizione de “Il 
                    segreto di piazza Fontana” Paolo Cucchiarelli dedica 
                    mezza pagina a un nostro redattore. 
                    Sarebbe, in sostanza, un doppio bugiardo e un vigliacco (verso 
                    Pinelli). Ma Finzi non ci sta e qui spiega perché ha 
                    deciso di agire per diffamazione contro Paolo Cucchiarelli 
                    (e Roberto Gremmo). 
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                      Milano 
                          12 dicembre 1969. L’interno della Banca Nazionale 
                          dell’Agricoltura sventrato dalla bomba  | 
                     
                   
                    
                    Il mio 12 dicembre 1969 
                  Influenzato, sono a letto a casa mia, in via Marcora 7, a 
                    Milano. Nel pomeriggio si diffonde la notizia di un’esplosione 
                    in centro. Telefono al mio amico Giammarco Brenelli, per sapere 
                    se ne sa di più. È un mio compagno di scuola 
                    (non di classe) al liceo classico “Carducci”, 
                    io animatore del gruppo anarchico Carducci, lui liberale, 
                    moderato, di centro: aldilà delle divergenze, siamo 
                    amici e il dialogo tra noi dura da tempo.  
                    La sera, non ricordo esattamente a che ora, si presentano 
                    due uomini delle forze dell’ordine. Due vicini di casa 
                    hanno aperto loro il portone sotto, sono saliti al quarto 
                    piano e ai miei genitori dicono che devo seguirli, sarei – 
                    a detta di uno dei due – uno dei potenziali responsabili 
                    dell’attentato che con 17 morti ha insanguinato la città. 
                    Mia madre mi fa coprire bene, sciarpa, maglione e poi si precipita 
                    al telefono. 25 anni prima era partigiana combattente a Roma, 
                    quella sera si limita a tirar giù dal letto l’avvocato 
                    Mario Boneschi, vecchio liberale, una delle figure di punta 
                    del Partito Radicale. Dopo poco parte un telegramma per la 
                    Questura, “non torcete un capello a mio figlio, è 
                    reduce da un grave incidente motociclistico con trauma cranico 
                    e commozione cerebrale, vi ritengo fin d’ora responsabili 
                    di quanto possa accadergli mentre è nelle vostre mani”. 
                    La vecchia socialista non si è mossa male. Naturalmente 
                    apprenderò dopo questo dettaglio. 
                    Vengo caricato in auto, il tragitto fino alla Questura è 
                    breve. Il posto non mi è del tutto sconosciuto. Ho 
                    alle spalle un paio di fermi, in entrambi i casi durante manifestazioni 
                    di piazza: la prima volta due anni prima, manifestazione in 
                    piazza Duomo, il famoso commissario Vittoria fa suonare la 
                    tromba e poi la carica della polizia. Vedo tutti che scappano, 
                    io non sono mica scemo, sto tranquillo davanti a una vetrina, 
                    così non mi succede niente. Mi caricano su di una camionetta 
                    verde e con altre decine di persone vengo portato in Questura. 
                    La seconda volta ero in via Manzoni, un poliziotto in borghese 
                    mi prende sottobraccio e molla la presa solo dentro la Questura. 
                     
                    Per il primo fermo arriva l’imputazione di “adunata 
                    sediziosa”, in tribunale finirà tutto nel niente 
                    (per me e per gli altri fermati/denunciati). Il mio avvocato 
                    difensore era Mario Boneschi. 
                    Nel gennaio 1969, poi, cioè quasi un anno prima del 
                    12 dicembre, vengono un po’ di agenti a casa mia, effettuano 
                    una perquisizione di alcune ore alla ricerca di materiale 
                    esplodente, in camera mia sollevano anche il parquet, non 
                    trovano niente. Ma dopo quella perquisizione i miei genitori 
                    mi spediscono dal citato avv. Mario Boneschi, che mi fa stendere 
                    una lettera che viene inviata in Questura e forse altrove. 
                    Io, allora diciassettenne, rivendico il mio anarchismo e al 
                    contempo il mio essere nonviolento. 
                    Torniamo alla notte tra il 12 e il 13 dicembre 1969. Nel corso 
                    della notte vengo interrogato (“Dov’eri lo scorso 
                    pomeriggio? Chi pensi sia stato l’autore dell’attentato?”), 
                    poi come quasi tutti vengo portato nelle celle della Questura, 
                    strapiene di fermati, quasi tutti rilasciati nel pomeriggio 
                    di sabato 13 dicembre. Quasi. 
                    Nel salone al quarto piano della Questura ricordo qualche 
                    volto noto, Sergio Ardau, Pino Pinelli (con il quale scambio 
                    qualche battuta), Cesare Vurchio (che si ricorda di me imbacuccato, 
                    con una sciarpa al collo: ero febbricitante e la mamma prima 
                    di vedermi uscire con i poliziotti mi aveva coperto bene). 
                    Resto in Questura fino al pomeriggio di sabato 13 dicembre. 
                    Questo, in sintesi, il mio 12-13 dicembre. 
                     
                      
                    Il mio 12 dicembre 1969 (secondo Cucchiarelli) 
                   Cucchiarelli, nella seconda edizione del suo libro (quello 
                    della tesi delle 2 bombe contemporaneamente messe nella Banca 
                    dell’Agricoltura), ricostruisce in maniera un po’ 
                    diversa quelle mie ore. 
                    Molto probabilmente, secondo Cucchiarelli, io sarei quel Paolo 
                    Erda che si trovava verso le ore 17.15 del famoso venerdì 
                    12 al Circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”, 
                    quando vi si recò Pinelli, proveniente dal bar dove 
                    aveva giocato a carte al momento dell’esplosione in 
                    piazza Fontana. In realtà era già agli atti 
                    del giudice D’Ambrosio (interrogatorio di Ivan Guarnieri, 
                    23.11.1971; interrogatorio di Ester Bartoli 23.11.1971; interrogatorio 
                    di Ivan Guarnieri 21.02.1972) che Paolo Erda era il soprannome 
                    di Paolo Stefani, quindi non ero io. E anche nell’edizione 
                    2009 del libro “Bombe e segreti” di Luciano Lanza 
                    è scritto chiaramente che Erda era Stefani. 
                    Se io fossi, come sostiene Cucchiarelli, Paolo Erda, sarebbe 
                    interessante – scrive sempre Cucchiarelli – 
                    sapere perchè io abbia sempre taciuto e non mi sia 
                    presentato a confermare l’alibi di Pino Pinelli. Peccato, 
                    che non essendo io Paolo Erda, tale facoltà non mi 
                    fosse data.  
                    Poi Cucchiarelli cita Roberto Gremmo, fondatore e direttore 
                    della rivista Storia Ribelle e autore di improbabili 
                    libri “storici” spesso caratterizzati da un uso 
                    approssimativo delle “fonti” e denigratori verso 
                    gli anarchici. Questo Gremmo, nel suo “Il triangolo 
                    delle bombe” (stampato come supplememto al n. 30 della 
                    rivista Storia Ribelle nel novembre 2011), sostiene 
                    che io avrei mentito riguardo al mio fermo la sera del 12 
                    dicembre. E lo fa, da instancabile ricercatore quale 
                    lo qualifica Paolo Cucchiatelli, rifacendosi a una fotocopia 
                    questurinesca riprodotta nel libro di Vincenzo Nardella “Noi 
                    accusiamo!” del 1972: tale fotocopia contiene 25 nomi 
                    e cognomi di fermati il 13 dicembre (e non il 12 dicembre) 
                    ed è comunque un elenco sicuramente incompleto, visto 
                    che i fermati furono complessivamente oltre un centinaio. 
                    In questo elenco parziale mancano, tra gli altri, i nomi di 
                    Giuseppe Pinelli e di Virgilio Galassi, nomi riportati anche 
                    dai giornali, il primo per le note successive ragioni e il 
                    secondo perché era il responsabile del Centro Studi 
                    della Banca Commerciale, anarchico “in sonno” 
                    da lungo tempo, per la cui scarcerazione si mosse subito il 
                    numero uno della Commerciale, Raffaele Mattioli, una delle 
                    personalità più importanti della finanza italiana 
                    di allora. 
                    Secondo quanto riporta Gremmo, invece, Finzi non risulta 
                    affatto nell’elenco dei fermati – unico tra i 
                    compagni anarchici di Pino –, e bisognerebbe capire 
                    perché. Con queste parole Cucchiarelli chiude 
                    la mezza pagina a me dedicata. Non è roba da poco: 
                    con un piccolo passo in avanti, bisognerebbe chiedersi dov’era 
                    Paolo Finzi alle 16.37 di quel venerdì 12 dicembre, 
                    visto che a letto a casa sua non c’era (se era il Paolo 
                    Erda al “Ponte della Ghisolfa”) e poi ha millantato 
                    un fermo di polizia che non risulta. 
                  
                    
                    Situazione un po’ kafkiana 
                  Alla fine dello scorso mese di marzo, una volta letto, su 
                    segnalazione di Adriano Sofri, quanto Cucchiarelli ha aggiunto 
                    su di me nella seconda edizione del suo libro, mi sono recato 
                    dall’amico avvocato Luca Boneschi: una mia vecchia conoscenza, 
                    visto che lo conosco fin dal 1968, intanto perché allora 
                    bazzicavo anche la sede, in via Lanzone, del Partito Radicale 
                    (e Luca per un periodo era iscritto al PR) e poi perché 
                    il giovane avvocato Luca era nel comitato di difesa degli 
                    anarchici arrestati per gli attentati del 25 aprile 1969 alla 
                    Fiera Campionaria e alla Stazione Centrale di Milano (come 
                    successivamente lo sarebbe stato in quello di Valpreda). E 
                    poi Luca era nipote proprio dell’avvocato Mario Boneschi, 
                    il legale di fiducia dei miei genitori, che già si 
                    era occupato di me sia in relazione alla perquisizione del 
                    gennaio 1969 sia al precedente fermo (con denuncia) nel corso 
                    di una precedente manifestazione. Fu Luca Boneschi, dopo la 
                    morte di Pinelli, a suggerirmi di andare dal giudice Ugo Paolillo 
                    a rendere testimonianza del mio colloquio con Pinelli in Questura 
                    durante la notte tra il 12 e il 13 dicembre. Paolillo – 
                    al quale poi vennero avocate le indagini sulla strage di Piazza 
                    Fontana e sulla morte di Pinelli – era interessato a 
                    qualsiasi testimonianza di persone che lo avessero incontrato 
                    durante il suo fermo, per sapere in che stato psicologico 
                    si trovava. E io testimoniai che, pur nella palese concitazione 
                    dell’ambiente (eravamo tutti fermati in relazione a 
                    un attentato con morti e feriti) Pino era sereno e – 
                    per quanto mi riguarda - rassicurante nei confronti di un 
                    diciottenne quale ero. 
                    Trascorsi 43 anni da quei giorni, ho dovuto raccogliere alcune 
                    testimonianze a conferma della “mia” verità 
                    sul mio 12-13 dicembre 1969. L’avvocato Gianmarco Brenelli, 
                    liberale oggi come allora, testimonia del nostro colloquio 
                    telefonico, prima citato, e allora non c’erano cellulari, 
                    se chiamavi da casa eri a casa. Mio fratello Enrico testimonia 
                    dell’arrivo delle forze dell’ordine in casa nostra 
                    e del mio fermo. L’anarchico Cesare Vurchio, allora 
                    il più stretto amico e compagno di Pinelli (erano anche 
                    coetanei), testimonia di avermi visto in Questura quella notte. 
                    Situazione un po’ kafkiana. Dopo 43 anni devo io dimostrare 
                    quella che per me non è solo la certezza dei fatti, 
                    ma è anche la data che ha segnato profondamente la 
                    mia vita, trasformandomi in un convinto militante anarchico. 
                    Di Pinelli, di quelle giornate, ho reso spesso pubblica testimonianza 
                    in conferenze, scritti... Ho curato il dossier su Pinelli 
                    e la strage di piazza Fontana, che abbiamo realizzato come 
                    rivista “A”. Tutto falso? Tutto basato su di un 
                    mio millantato protagonismo, con menzogne e reticenze? 
                    Gremmo e Cucchiarelli mi hanno profondamente offeso, cercando 
                    di farmi apparire un personaggio ambiguo, bugiardo e ancor 
                    peggio vigliacco con una persona, come Pino, nel ricordo della 
                    quale ho condotto da allora un certo tipo di esistenza e di 
                    impegno politico mai abbandonati.  
                    Chiudo ricordando che nella primavera del 1970, in una riunione 
                    del gruppo “Bandiera Nera” a casa di Amedeo Bertolo, 
                    chiesi di poter “entrare nel gruppo”. Aspettai 
                    fuori dalla stanza in cui si svolgeva la riunione… E 
                    quando mi dissero che ero stato accettato, ne fui orgoglioso: 
                    ero il primo compagno a entrare nel gruppo dopo la morte di 
                    Pino. Ai miei occhi, “prendevo il suo posto”. 
                    E oggi c’è chi crede di poter scrivere che su 
                    Pino io avrei sempre taciuto e non mi sarei presentato a confermarne 
                    l’alibi. Oltre a essermi inventato tutta la storia della 
                    malattia e del fermo in Questura. È un’offesa 
                    che mi ferisce e anche per questo ho dato mandato al mio legale 
                    di agire per diffamazione contro Roberto Gremmo e contro Paolo 
                    Cucchiarelli (e le loro case editrici).  
                   
                  
                  Paolo Finzi
                
 
                 
                  
                     
                      43 anni dopo 
                         Questa notizia l’ha data l’Ansa»: 
                          nel mondo della carta stampata, un tempo, voleva dire: 
                          notizia certa e verificata. Ma se un giornalista di 
                          quella agenzia, Paolo Cucchiarelli, riesce a mettere 
                          insieme più di 600 pagine traboccanti di invenzioni, 
                          macroscopici errori, fantasie bisogna forse ripensare 
                          quel giudizio. 
                          Dopo le varie recensioni della prima edizione di Il 
                          segreto di Piazza Fontana (fra le altre ricordo 
                          quella molto puntuale di Enrico Maltini su Libertaria 
                          (n. 3 del 2009) adesso è in rete (ma sarà 
                          presto pubblicato) 43 anni. Piazza Fontana, 
                          un libro, di Adriano Sofri. 
                          Ecco un capitolo importante del lavoro di Sofri: 
                        Promemoria sugli errori di fatto più 
                          vistosi 
                          Per dare un po’ 
                          di ordine alle pagine, premetto un elenco sommario di 
                          alcuni degli errori contenuti nel libro, sui quali i 
                          documenti disponibili fanno inequivocabilmente luce.
                         
                          - Dei due taxi abbiamo 
                            detto. Cucchiarelli dice che ci furono due taxi, identifica 
                            il secondo, oltre a quello guidato da Rolandi (con 
                            Valpreda, secondo lui), e gli mette dentro un passeggero 
                            attentatore.
 
                            Io gli dico chi viaggiava nel secondo taxi, e perché. 
                            
                           - “Paolo Erda 
                            o Ergas”. Nome citato da Pinelli come quello 
                            di un compagno incontrato il pomeriggio del 12 dicembre. 
                            Cucchiarelli prima lo associa con un Ivan – 
                            altra persona, Ivan Guarnieri – e li scambia 
                            per fratelli. Poi li dichiara inesistenti. Non si 
                            cura degli anarchici che dicono che Erda era un soprannome, 
                            e che conoscono bene la persona. Quando si accorge 
                            dell’errore, attribuisce il cognome a una persona 
                            che non c’entra niente. Io qui gli dico, sulla 
                            scorta degli atti processuali, che il nome vero di 
                            Paolo “Erda” – Paolo Stefani - vi 
                            era ripetutamente contenuto. Anche a questo madornale 
                            errore, Cucchiarelli lega conseguenze incredibili: 
                            per esempio, che Pinelli in Questura l’avesse 
                            formulato per anagrammarlo, così che, combinando 
                            (e arrangiando) ‘IVAn e PaoLo ERDA’, venisse 
                            fuori VALPREDA! 
                          
 - “L’altro 
                            ferroviere”. Cucchiarelli ipotizza che ci fosse 
                            a Milano “un altro ferroviere finto-anarchico”, 
                            e anche a lui assegna un ruolo essenziale nel turbamento 
                            finale di Pinelli. Lo identifica in un noto terrorista 
                            ordinovista. Solo che il noto ordinovista non era 
                            ferroviere, né tutto il resto. Come nell’amaro 
                            tango “La Chorra”: “Y he sabido 
                            que el “guerrero” / que murió lleno 
                            de honor, / ni murió ni fue guerrero como m’engrupiste 
                            vos”. Questo errore è stato dimostrato 
                            non da me, ma da attenti recensori, sulla scorta di 
                            un documento di polizia ritrovato da Aldo Giannuli. 
                            L’“altro ferroviere” faceva il postino 
                            a Genova. 
                          
 - Il “misterioso 
                            compagno”. Avevo scritto, ne La notte che Pinelli, 
                            che Pinelli nel tardo pomeriggio del 12 dicembre, 
                            prima di arrivare al circolo Scaldasole dove fu fermato, 
                            si era brevemente intrattenuto con un compagno. Cucchiarelli 
                            mi attribuisce la rivelazione e si chiede chi mai 
                            fosse quel “misterioso compagno”, prova 
                            a identificarlo (“Paolo Erda”), vi intuisce 
                            conseguenze importanti. Nella carte, che io semplicemente 
                            citavo, viene fatto il nome di quella persona, che 
                            abitava lì: e naturalmente qui ne faccio il 
                            nome. 
                          
 - Il numero “7”. 
                            Nella borsa contenente la cassetta inesplosa e fatta 
                            brillare il 12 dicembre alla Banca Commerciale milanese, 
                            era stampigliato il numero 7. Cucchiarelli sostiene 
                            che fosse presente anche sulla cassetta, e che, invece 
                            che di un segno di fabbricazione, si trattasse di 
                            un modo degli attentatori di numerare le loro bombe: 
                            questa era la settima. E ne ricava una conferma alla 
                            sua convinzione che le bombe di quel giorno non fossero 
                            cinque – due a Milano e tre a Roma – ma 
                            sette, e che le altre due di Milano non fossero esplose 
                            perché in extremis Pinelli le aveva neutralizzate. 
                            Mostro come il calcolo delle bombe fatto da Cucchiarelli 
                            stesso in un altro capitolo le riduce – inavvertitamente 
                            – a sei (6). 
                          
 - Dalle mani del “mussoliniano-anarchico” 
                            Nino Sottosanti, figura centrale di questa storia, 
                            passa una cassetta portagioielli “simile” 
                            a quella della bomba alla Comit. Donde varie deduzioni. 
                            Mostro qui, con le carte di polizia, che quella cassetta 
                            era stata rivenduta da Sottosanti ben prima del dicembre. 
                            
                          
 - Cucchiarelli fa un 
                            continuo e inaccettabile ricorso a “fonti già 
                            di estrema destra” che vogliono restare anonime. 
                            Mostro come, nei casi in cui un argomento perentorio 
                            di Cucchiarelli “confermato” dalle sue 
                            fonti anonime viene dimostrato per tabulas fallace, 
                            ne risulta a maggior ragione fallace la “conferma” 
                            anonima.»
  
                        Sofri, oltre a questo promemoria, passa poi a un altro 
                          «nodo fondamentale» della fantasiosa ricostruzione 
                          di Cucchiarelli: le fonti anonime. Scrive Sofri: 
                        Le fonti anonime 
                          Abbiamo detto che c’è 
                          nel libro di Cucchiarelli un increscioso ricorso a fonti 
                          anonime. Tanto anonime quanto spettacolose. Ogni volta 
                          che la sua ricostruzione si fa più spericolata 
                          e rocambolesca, ecco che interviene una fonte, anonima 
                          ma affidabile affidabilissima, autorevole autorevolissima, 
                          a fornirne una puntuale conferma, sicché, a prenderla 
                          in parola, c’è da chiedersi se sia nato 
                          prima l’uovo dell’elucubrazione di Cucchiarelli 
                          o la gallina della fonte anonima. 
                          Le “due bombe inesplose” a Milano? «Se 
                          non bastassero il ‘7’ su borsa e cassetta 
                          [non basta, no!], le voci a caldo degli anarchici, le 
                          tracce sui quotidiani dell’epoca e le testimonianze 
                          dei fascisti, ce lo conferma anche una fonte qualificata 
                          di destra, che ci ha chiesto esplicitamente di non essere 
                          citata: i due ordigni erano “sicuramente” 
                          pronti a esplodere». 
                          La miccia vera o supposta alla BNA? «In più 
                          di un colloquio privato, una fonte qualificata di destra 
                          ci ha confermato l’utilizzo della miccia a Piazza 
                          Fontana. E ci ha dato anche un’indicazione sui 
                          tempi…». 
                          Gli itinerari delle borse usate per gli attentati? «Dai 
                          nostri colloqui con un esponente dell’estrema 
                          destra che partecipò all’operazione, che 
                          vuole rimanere anonimo…». Perché 
                          Valpreda prese un taxi per fare l’equivalente 
                          di centosettanta passi a piedi, e lo fece fermare oltre 
                          la banca, facendo dunque centosessanta passi a piedi 
                          nella direzione opposta? « “Perché 
                          qualcuno gli aveva semplicemente detto che doveva prendere 
                          il taxi. Gli si diedero 50.000 lire e il ballerino non 
                          si pose di certo il perché… Tutto qui” 
                          rivela una fonte qualificata di destra che, naturalmente, 
                          non vuole essere citata». 
                          La riunione del 9 dicembre a Roma per dare il via all’operazione? 
                          «Il fatto ci è stato confermato da una 
                          persona che a quella riunione partecipò». 
                          E così via, ancora e ancora. Non è difficile 
                          scrivere libri di storia innovatori facendo un così 
                          ampio ricorso a fonti qualificate che “naturalmente” 
                          vogliono restare anonime. E che, se fossero autentiche, 
                          e si lasciassero conoscere, risolverebbero “il 
                          segreto di Piazza Fontana” ben diversamente che 
                          la favola brutta del Raddoppio.» 
                        Ora, se non fosse che quel libro figura fra le fonti 
                          del film Romanzo di una strage di Marco Tullio 
                          Giordana basterebbe uno sberleffo per ridimensionare 
                          il tutto, ma, come sappiamo bene, la suggestione delle 
                          immagini troppo spesso supera di slancio quella della 
                          parola scritta. E nel libro di Cucchiarelli come nel 
                          film di Giordana assistiamo alla «fantasia delle 
                          fantasie»: due attentatori, due taxi, due bombe. 
                           
                          Tutto tenuto insieme dal ritrovamento di un pezzo di 
                          miccia assieme a un timer. La miccia che doveva far 
                          esplodere prima anche la bomba con il timer. Ma, come 
                          ho già scritto il mese scorso su questa rivista, 
                          se la miccia non è bruciata tutta come ha fatto 
                          a far esplodere la seconda bomba e con questa anche 
                          la prima? 
                           
                          Luciano Lanza 
 | 
                     
                   
                 
                
                 
                   
                    Ma io il film di 
                        Giordana non lo andrò a vedere 
                       Ci ho pensato un po’ su e credo 
                        proprio che quel film sulla strage non andrò a 
                        vederlo. Non per partito preso e senza nessun intento 
                        polemico, per carità: ritengo anch’io che 
                        la memoria di quei tragici eventi, come si dice, debba 
                        essere conservata e diffusa con tutti i mezzi possibili 
                        e non credo affatto che l’interpretazione che, a 
                        quanto ho letto e sentito, ne dà l’opera 
                        di Marco Tullio Giordana sia talmente insostenibile che 
                        sia meglio farne a meno. Certo, sul giudizio che il regista 
                        propone su uno – forse il principale – dei 
                        suoi protagonisti non sono affatto d’accordo e nulla 
                        e nessuno mi farà mai cambiare idea sulle responsabilità 
                        e le colpe di quel personaggio e poi, probabilmente, mi 
                        farebbe una certa impressione vedere agire sullo schermo, 
                        interpretate da pur bravissimi attori, persone che ho 
                        conosciuto in carne e ossa e a cui sono stato a suo tempo 
                        legato, ma il problema non è questo. Di interpretazioni 
                        se ne sono avute tante ed è giusto che regista, 
                        attori e sceneggiatori siano liberi di proporre, ciascuno 
                        mettendo a frutto le proprie competenze, la propria. Quello 
                        che proprio non riesco a credere, sinceramente, è 
                        che una ricostruzione narrativa, sia pure la migliore 
                        e la più accurata possibile, possa restituire l’effetto 
                        che i fatti di quel dicembre ebbero su noi che li vivemmo, 
                        possa riportare me e miei compagni ai nostri sentimenti 
                        e alle nostre impressioni di allora. 
                        Perché, vedete, quando scoppiarono le bombe, prima 
                        ancora che si palesasse la montatura contro gli anarchici, 
                        in quei brutti momenti di confusione e paura, capimmo 
                        subito che la nostra storia era irrevocabilmente cambiata. 
                        Qualcuno aveva gettato sul piatto un nuovo elemento – 
                        i morti, appunto – che cambiava il senso delle nostre 
                        speranze e vanificava di colpo gli sforzi di rinnovamento 
                        in cui eravamo impegnati. Le nostre lotte, le lotte dei 
                        giovani, degli studenti, degli operai, non si sarebbero 
                        fermate lì, naturalmente, quei protagonisti avrebbero 
                        scritto ancora molte pagine importanti, il movimento, 
                        nonostante tutto, era ancora in piedi, ma la necessità 
                        di fronteggiare la ferocia che il nemico aveva messo in 
                        campo ne avrebbe inevitabilmente modificato la natura, 
                        facendone qualcosa d’altro. Gli anni ‘60, 
                        con le loro follie e le loro illusioni, erano proprio 
                        finiti e il futuro sarebbe stato ben diverso da come ce 
                        l’eravamo immaginato. Da allora in poi avremmo dovuto 
                        fare i conti con le armi, con le bombe, con la paura, 
                        con la prospettiva di altri morti e altri delitti. E di 
                        altre stragi, naturalmente, ancora più sanguinose 
                        e crudeli (piazza della Loggia, l’Italicus, la stazione 
                        di Bologna...), ma scaturite tutte dalla stessa terribile 
                        logica. Eravamo giunti a un discrimine e il mondo non 
                        era più quello di prima. 
                        Non reagimmo male, credo. Nessuno finora ha scritto la 
                        storia di come poche migliaia di militanti, con la sola 
                        forza delle loro idee, riuscirono – nella sostanza 
                        – a far fallire il disegno eversivo che stava dietro 
                        le bombe. Perché furono loro – fummo noi, 
                        – prima ancora delle indagini dei magistrati e delle 
                        inchieste dei giornalisti, a stracciare il copione che 
                        si voleva imporre al paese, rifiutando di cedere alla 
                        violenza (non solo a quella delle bombe, ma anche a quella 
                        della repressione, a partire dalle prime manifestazioni 
                        di quegli ultimi giorni di dicembre) e affermando a gran 
                        voce la consapevolezza incrollabile che la strage era 
                        di stato. Su questa affermazione, in effetti, si fonda 
                        tutta la storia successiva, non solo la nostra, e abbiamo 
                        tutte le ragioni per esserne ancor oggi orgogliosi. 
                        Di tutto questo non credo che parli il film di Giordana. 
                        E forse è meglio così, perché è 
                        stato un processo contraddittorio, difficile e faticoso, 
                        che personalmente (e non credo di essere il solo) non 
                        mi sento né di rivivere né di rimettere 
                        in discussione. Per questo, solo per questo, non andrò 
                        a vederlo. Ma è un problema mio personale – 
                        al massimo di generazione – e naturalmente chi la 
                        pensa diversamente ci vada pure. Non gli potrà 
                        che fare del bene. 
                         
                        Carlo Oliva  | 
                   
                 
                
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