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                  dossier Georges 
                    Brassens 
                  Brassens, 
                    ovvero la palestra degli anarchici e dei cantautori 
                  di Alessio 
                    Lega 
                  Proprio 
                    il cantautore francese, che non voleva insegnare niente a 
                    nessuno, si è ritrovato punto di riferimento per generazioni 
                    di musicisti, scrittori, pittori, fumettisti, giornalisti, 
                    militanti politici e sindacali delle più disparate 
                    tendenze libertarie e socialiste… 
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                  Ciascuno 
                    ha trovato il suo Brassens! Anarchici, spiriti liberi, musici, 
                    poeti, cantastorie… Poi hanno tutti preso la propria 
                    strada. Alcuni hanno conservato per il maestro francese (che, 
                    nella migliore delle ipotesi si sarebbe messo a ridere a sentirsi 
                    chiamare “maestro”) una sacra deferenza, ne hanno 
                    fatto un maestro di vita oltre che di poesia e di canto. Molti 
                    altri invece hanno maturato il distacco, ne hanno preso le 
                    distanze, ci hanno “litigato”, come si fa coi 
                    genitori ingombranti. 
                    Fra tutti questi io qui parlerò soprattutto dei musicisti, 
                    per l’affinità dei linguaggi che rende i processi 
                    evidenti, ma si potrebbe allargare lo sguardo a generazioni 
                    di scrittori, pittori, fumettisti, giornalisti, militanti 
                    politici e sindacali delle più disparate tendenze libertarie 
                    e socialiste… e infine anche di quegli anonimi che «non 
                    avendo ideali sacrosanti si limitano a non rompere i coglioni 
                    ai loro prossimi». Molti, soprattutto francofoni ma 
                    non solo, hanno avuto la loro iniziazione a un pensiero sociale 
                    con Brassens. 
                    Ah, quanto si sarebbe stupito lui di questa cosa, però 
                    è così. La potenza espressiva di chi non ti 
                    vuole insegnare nulla, di quello che non ha da venderti un 
                    ideale (anche il più bello del mondo) è dirompente. 
                    Non c’è niente da fare: si pende dalle labbra 
                    proprio di quelli che sono più refrattari a fare i 
                    “maître à penser”. Si calcola male 
                    quanto nel ‘900 siano state importanti le canzoni nella 
                    formazione politico-culturale delle generazioni che si sono 
                    susseguite, almeno tre di queste si sono abbeverate direttamente 
                    o indirettamente a Brassens. 
                    …Poi si prendono le distanze, ci si accorge che magari 
                    Georges era un uomo all’antica anche per i suoi tempi, 
                    che la sua bella e anticonformista refrattarietà al 
                    matrimonio non auspica certo il superamento della coppia, 
                    ma rifonda una sorta di patto fra due amanti basato – 
                    pensa un po’ che novità! – sulla fedeltà, 
                    anche se con qualche possibile deroga concessa alla Penelope 
                    di turno. Molto romantico Georges ma anche un po’ reazionario 
                    quando, con garbo e poesia infinita, infligge una tirata moralista 
                    alle donne che vivono libere e promiscue unioni, “Les 
                    mouton de Panurge” dice lui, le “pecorone” 
                    che fanno all’amore perché va di moda… 
                    augurando alla fine di ritrovare lo spirito delle “Veneri 
                    di un tempo che facevano l’amore per amore”. 
                    Si impara da Brassens il rispetto per i proletari, per i poveri 
                    cristi e le puttane, per gli ubriaconi e i bohémiens 
                    di periferia, per il contadino schiantato dal lavoro nel dignitoso 
                    silenzio del suo orgoglio. Ma quando quest’amore che 
                    abbiamo imparato da lui vuole prendere una forma ideologica 
                    e strutturata, magari confrontarsi con una possibile soluzione 
                    collettiva dei problemi, ecco che l’individualista Brassens 
                    ci stigmatizza, ci dice che le idee “vanno e vengono/tre 
                    piccoli giri, tre piccoli morti e poi spariscono”. 
                    Brassens ci dice che “il plurale non serve a niente” 
                    e “se si è in più di quattro si è 
                    una banda di stronzi”. Tutto sommato, se penso ai compagni 
                    arrestati ieri in Val di Susa, per una volta mi viene da parteggiare 
                    per il comunista Jean Ferrat, che in amichevole polemica gli 
                    rispose con un’altra canzone: «In gruppo in fila 
                    in processione/è tempo che io lo confessi/io son di 
                    quelli che manifestano./Sono di quelli che si fan tacere/in 
                    nome di libertà inventate/il denunciatore dei massacri/che 
                    ha perduto con soddisfazione/vent’anni di guerre colonialiste./In 
                    gruppo in fila in processione/e anche solo se capita/seguiterò 
                    a lottare./Mi si può dire con arguzia/che in gruppo 
                    in fila in processione/siamo dei pecoroni/ma ho una consolazione:/ 
                    si può esser da solo e un coglione/e in questo caso 
                    lo si resta». 
                    Brassens, tutto preso dalla sua lotta per salvare l’individuo 
                    in una società che vedeva sempre più massificata, 
                    arriva a fare un panegirico dello “sbirro buono” 
                    che salva il barbone dal congelamento dandogli il suo mantello, 
                    e giunge fino all’imperdonabile equiparazione fra il 
                    resistente e il collaborazionista nella Francia occupata. 
                    Indubbiamente così molti dei suoi “allievi spirituali” 
                    prendono le distanze, ma Brassens non era uomo da compiacere 
                    alcuno, sotto il suo apparente distacco e la sua bonomia è 
                    sempre rimasto un manicheo che vuole dividere e provocare. 
                    Probabilmente è proprio qui, nel Brassens più 
                    discutibile, quello che oltre a scioccare i benpensanti vuole 
                    scandalizzare i suoi “seguaci” gran parte della 
                    sua forza, della sua irriducibilità a monumento culturale, 
                    del motivo per cui va ascoltato, criticato, tradotto. 
                    E così tutti i Brassensiani hanno finito per farsi 
                    il proprio Brassens a propria misura. Vagare ascoltando i 
                    suoi interpreti e i suoi traduttori – una galassia quasi 
                    sterminata, ma noi ci limitiamo a segnalare qualche italiano 
                    – può essere uno dei modi più interessanti 
                    e trasversali di avvicinarsi alla sua opera. 
                  Come 
                    due gocce d'acqua 
                  Per esempio Giorgio Ferigo 
                    era uno di quegli strani tipi di cui non si dovrebbe perdere 
                    memoria: un medico umanista, un filosofo politico, un contemplativo 
                    incazzato, un personaggio raro e sconosciuto fuori dai confini 
                    del suo Friuli. Fra le sue molte iniziative culturali e musicali 
                    c’è anche “Jerbata: 13 canzoni di Georges 
                    Brassens tradotte in friulano”. Il Brassens tradotto 
                    in friulano (anzi in carnico) da Ferigo è un ragionatore 
                    che vive in disparte, che sogguarda il mondo con dolce distacco, 
                    con ironia carica d’amore, con compassione fraterna, 
                    insomma un montanaro dal cervello fino che parla da pari a 
                    pari con gli alberi, coi fiori e con quella morte che ha riunito 
                    al Georges di Sète il Giorgio friulano morto nel novembre 
                    del 2007. 
                    Tutt’altro “Brassens” è quell’energumeno 
                    dal cuore d’oro che parla milanese… a prima vista 
                    si somigliano come due gocce d’acqua, ma mentre quello 
                    viveva in disparte in montagna, quest’altro sta nella 
                    periferia meneghina di Ortica o Lambrate dei primi anni ’60. 
                    Quello è contadino, tranquillo e contemplativo, questo 
                    è urbano, svelto e con la lingua tagliente. Un sentimentale 
                    travestito da cinico, curioso del mondo e di tutto, che passa 
                    il tempo ad attraversare i quartieri in tram, s’immischia 
                    di fatti non suoi, tutt’uno con quella città 
                    che oggi non c’è più. Milano col cuore 
                    in mano, il paesone dei “ghisa” (i vigili urbani, 
                    chiamati così per via dell’elmetto spropositato) 
                    e dei “rocchetta” (i magnaccia): poveri cristi 
                    senza lavoro, gestori di un’“impresa” familiare, 
                    varata in seguito a qualche disastro economico che li aveva 
                    condannati all’indigenza più nera. Questa era 
                    la grande e bella città operaia di Milano, caduta vittima 
                    del berlusconismo ante litteram degli anni ’80, vera 
                    protagonista di quelle canzoni di Brassens tradotte da Nanni 
                    Svampa. 
                    Ferigo e Svampa, due artisti agli antipodi, due indoli diverse: 
                    un appassionato curioso delle forme che prendono le parole 
                    al servizio del sociale e un professionista del palco con 
                    quasi mezzo secolo di carriera alle spalle. Eppure entrambi 
                    attratti da quest’altra strana bestia di cantautore 
                    francese. 
                    Poi c’è Fausto Amodei, figura centrale per la 
                    storia della nostra canzone, l’autore di “Per 
                    i morti di Reggio Emilia”: uno dei due o tre canti passati, 
                    senza soluzione di continuità e senza bombardamenti 
                    mediatici, dalla sua chitarra all’inconscio popolare 
                    (Compagno cittadino/fratello partigiano/teniamoci per mano/in 
                    questi giorni tristi...). 
                    Fausto – che ha sempre esercitato il mestiere di architetto, 
                    relegando l’attività di cantante e autore ai 
                    ritagli di tempo – non ha mai nascosto di avere una 
                    venerazione per Brassens, e ha omaggiato il maestro traducendolo 
                    (soprattutto) in piemontese. Purtroppo la sua natura schiva, 
                    poco incline a frequentare gli studi di registrazione, ci 
                    priva di una testimonianza discografica di tali versioni, 
                    ma la memoria dei non pochi spettatori che hanno assistito 
                    ai recital in cui Amodei ha proposto tale repertorio, conserva 
                    l’impressione di un ennesimo Brassens dal carattere 
                    ancora diverso da tutti gli altri, un Brassens dalla lingua 
                    golosa ed educata, che pronuncia degli inappuntabili turpiloqui 
                    perfettamente rimati e a denti stretti, insomma un “Brassens 
                    gianduiotto”, un Brassens torinese! 
                  Palestra 
                    d’ardimento 
                  Negli anni ’70 ebbe una 
                    certa rinomanza il fantasista Beppe Chierici, che pubblicò 
                    – con l’imprimatur dello stesso autore, suo amico 
                    personale – due dischi di canzoni tradotte in italiano 
                    e che anche recentemente è tornato alla carica con 
                    un CD di nuove versioni. Se le traduzioni di Chierici hanno 
                    sempre fatto storcere il naso ai puristi per l’eccesso 
                    di licenze formali che si prendono – parole piane che 
                    diventano tronche, rime forzate, uso insistito dei diminutivi 
                    -, hanno però il merito di restituire a Brassens alcune 
                    sue caratteristiche: il gusto della storiella surreale, dello 
                    scioglilingua non-sense e una certa friabile delicatezza, 
                    una cantabilità leggera che la nostra poesia possiede 
                    molto meno di quella dei “cugini” d’oltralpe. 
                    La militanza di Chierici nel genere della canzone per bambini 
                    riconduce anche i versi dello “Zio Georges” (a 
                    patto di sorvolare su qualche parolaccia) a questo pubblico 
                    ideale, che in Francia gli è devoto, pensate che esistono 
                    delle antologie specifiche delle sue canzoni per gli scolari 
                    delle elementari, che in gita cantano abitualmente “La 
                    chasse aux papillons”, come fosse “Quel mazzolin 
                    di fiori”. 
                    Giuseppe Setaro è uno dei più misteriosi e infaticabili 
                    artigiani casalinghi del “brassensismo” nostrano: 
                    nulla o quasi si sa di lui, non sono mai riuscito a vederlo 
                    cantare, ma con i suoi 7 CD autoprodotti, fitti fitti di canzoni, 
                    il bergamasco sembra voler cedere alla tentazione di voltare 
                    in italiano la totalità dei testi di Brassens (senza 
                    dimenticare quelli dei poeti da lui messi in musica). Con 
                    la grazia nel porgere che gli è propria, Setaro ci 
                    regala un Georges nobile e puro, un classico della poesia 
                    un po’ asettico, da mettersi a fianco a Ronsard e Lamartine. 
                    Coltissimo, ma decisamente incline agli umori pesanti di Rabelais 
                    (tanto per restare fra classici della letteratura) è 
                    Pardo Fornaciari. Personaggio pantagruelico lui stesso, con 
                    le sue dotte riflessioni sul “bagitto” (il dialetto 
                    della comunità ebraica livornese) e con la sua aria 
                    da Mangiafuoco buono, Pardo è un intellettuale impegnato, 
                    ma anche un gaudente che trovi in osteria a disquisire di 
                    ricerca filosofica con certi ubriachi che sembrano tutti cugini 
                    di Piero Ciampi. Si diletta a fare il cantastorie, l’agitatore 
                    culturale, il linguista ed è una delle firme storiche 
                    del fin troppo virulento giornale satirico “Il Vernacoliere”. 
                    Pardo nel CD “Porci, poveracci e vecchi malvissuti” 
                    ha trapiantato gli antieroi parigini di Brassens nel porto 
                    labronico, dandone una lettura che non si capisce se sia più 
                    erudita, plebea, emotiva, umorale o politicamente scorretta. 
                    Questi sono solo alcuni esempi dell’attitudine di appropiarsi 
                    del repertorio di Brassens e farne la propria palestra d’ardimento, 
                    il proprio campo di battaglia linguistico, un’attitudine 
                    non solo italiana (Brassens è certamente l’autore 
                    più globalmente adattato al mondo), ma che nel nostro 
                    paese conosce una fioritura che troviamo frammentata anche 
                    in un’ulteriore ridda di citazioni sparse nei dischi 
                    di Gipo Farassino come in quelli di Gino Paoli, di Luca Faggella 
                    come dei Têtes de Bois (irresistibile nel loro “Pace 
                    e male” la versione di “Une jolie fleur” 
                    recitata da Arnoldo Foa). Così tornano pure a sentirsi 
                    nuovi brani e traduzioni per bocca dell’attore Alberto 
                    Patrucco, o per quella di chi scrive queste note, che in due 
                    propri CD ha inserito sue versioni italiane di classici del 
                    repertorio di Brassens. 
                    Al di là dunque delle mode e della francofilia degli 
                    autori degli anni ’60, l’opera di Brassens resta 
                    una straordinaria fucina di idee e forme nuove, capace di 
                    confrontarsi coi linguaggi di ogni generazione. 
                  Una 
                    traduzione attenta 
                  Non posso concludere questo 
                    scritto senza dare concretezza al fantasma che aleggia ogni 
                    qual volta si parli di Brassens in Italia, senza dire qualcosa 
                    del suo allievo spirituale più universalmente noto. 
                    Lo faccio con una riflessione (per la quale devo ringraziare 
                    Riccardo Venturi, cui l’ho saccheggiata) che la dice 
                    lunga sulla sottigliezza e sul confronto cui la pratica della 
                    traduzione delle canzoni ci può spingere. 
                    L’ultima strofa di una delle più contestate canzoni 
                    di Georges – Mourir pour des ideés – 
                    scritta nella sua fase più matura, recita così: 
                 
                 
                  Ô vous, 
                    les boutefeux, ô vous les bons apôtres 
                    Mourez donc les premiers, nous vous cédons le pas 
                    Mais de grâce, morbleu! laissez vivre les autres! 
                    La vie est à peu près leur seul luxe ici bas 
                    Car, enfin, la Camarde est assez vigilante 
                    Elle n'a pas besoin qu'on lui tienne la faux 
                    Plus de danse macabre autour des échafauds! 
                    Mourrons pour des idées, d'accord, mais de mort lente 
                    D'accord, mais de mort lente. 
                 
                 
                  Fabrizio de André la 
                    cantò così: 
                 
                 
                   E voi gli sputafuoco, 
                    e voi i nuovi santi 
                    Crepate pure per primi noi vi cediamo il passo 
                    Però per gentilezza lasciate vivere gli altri 
                    La vita è grosso modo il loro unico lusso 
                    Tanto più che la carogna è già abbastanza 
                    attenta 
                    Non c'è nessun bisogno di reggerle la falce 
                    Basta con le garrotte in nome della pace 
                    Moriamo per delle idee, va bè, ma di morte lenta 
                    Ma di morte lenta. 
                 
                 
                  La canzone di Brassens – 
                    inserita nel suo penultimo LP – fu pubblicata nel 1972, 
                    la traduzione di de Andrè è del 1974, dunque, 
                    se si considerano i tempi solitamente lunghi di registrazione, 
                    missaggio, stampa di un disco, e poi ancora la particolare 
                    lentezza e attenzione che Fabrizio de Andrè adoperava 
                    nel realizzare i suoi progetti, viene da considerare come 
                    questa traduzione – l’ultima da lui compiuta da 
                    un testo di Brassens – sia stata rapidamente realizzata 
                    (le altre precedenti erano fatte a distanza di decenni dalla 
                    pubblicazione dell’originale) e testimoni una sorta 
                    di urgenza espressiva.  
                    E proprio così dev’essere stato: de André 
                    ha saccheggiato pensiero, forme e melodie brassensiane e ha 
                    tradotto un pugno di sue canzoni nei primi anni della carriera, 
                    come una sorta di apprendistato; nella fase di cui stiamo 
                    parlando pareva interessato da tutt’altro modo di scrivere, 
                    centrato sul modello anglo-americano di Dylan e Cohen, dunque 
                    le due traduzioni – Le passanti e Morire 
                    per delle idee – rappresentano un commiato da una 
                    certa cultura, ma anche una folgorazione e un ultimo ritorno 
                    di fiamma. 
                    La traduzione di Mourir pour des idées è 
                    molto attenta e la strofa che prendiamo ad esempio non lo 
                    è meno delle altre. Uno solo è il cambiamento, 
                    che proprio per la sua singolarità risulta macroscopico. 
                    Al termine del testo originale francese si hanno dei versi 
                    del tutto tipici del medioevo atemporale brassensiano: 
                 
                 
                   Car, enfin, 
                    la Camarde est assez vigilante 
                    Elle n'a pas besoin qu'on lui tienne la faux 
                    Plus de danse macabre autour des échafauds! 
                 
                 
                  La danse macabre autour 
                    des échafauds, ovvero la danza macabra attorno 
                    al patibolo è un'immagine che più brassensiana 
                    non si potrebbe. C'è tutto un mondo attorno ad essa, 
                    che va dalle poesie di François Villon alle illustrazioni 
                    dei libri popolari, dalle tradizioni nordeuropee alle ballate 
                    popolari. 
                    Ma cosa canta de André? Parte con una resa fedele: 
                 
                 
                   Tanto più 
                    che la carogna è già abbastanza attenta,  
                    non c'è nessun bisogno di reggerle la falce 
                 
                
                
                   Basta con le 
                    garrotte, in nome della pace. 
                 
                
                  Le “garrotte”? 
                    La “pace”? Dov'erano le “garrotte” 
                    nel testo di Brassens? 
                    La traduzione di de André, dicevamo, è del 1974. 
                    Si tenga a mente l'anno. Ritengo che nominare le garrote in 
                    un testo scritto nel 1974 sia un riferimento ad un fatto ben 
                    preciso di tremenda attualità: la condanna a morte 
                    e l'esecuzione per garrottaggio dell'anarchico Salvador Puig 
                    i Antich, avvenuta proprio agli inizi di marzo del 1974. De 
                    André toglie di mezzo il medioevo atemporale e inserisce 
                    un fatto politico che riporta all’attualità di 
                    quegli anni. Traducendo, de André cerca di essere sé 
                    stesso quanto più possibile, tenta di inserirsi nello 
                    specifico storico con una variazione di prospettiva: sembra 
                    di vedere tutta la storia di Spagna, in quel “basta 
                    con le garrotte”, una storia che rispecchia le incisioni 
                    di Francisco Goya di No se puede saber por qué, 
                    con l'immagine terribile della schiera di garrottati che si 
                    trasmette fino alla storia recente di quel paese ed all'assassinio 
                    del giovane anarchico, di cui forse abbiamo perduto memoria, 
                    ma che ancora ci deve scuotere. Altrimenti noi saremmo perduti 
                    e queste non sarebbero che canzonette. 
                 
                  
                  Alessio Lega
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