Scighera: Quali vantaggi 
                    presenta la traduzione in dialetto? 
                  Amodei – 
                    È un po' più facile perché il piemontese, 
                    come altri dialetti, è ricco di parole tronche, cioè 
                    con l'accento sull'ultima sillaba, come il francese. Tutti 
                    i verbi all'infinito funzionano: andé, mangé 
                    ecc, come d'altra parte in milanese e in veneto. Per avere 
                    parole tronche in italiano occorre ricorrere al passato remoto, 
                    al futuro, usare i monosillabi...
                   Monti – 
                    Quindi anche il Dottor Svampa in milanese era avvantaggiato... 
                    anche se non è solo questione di lingua, ma anche di 
                    ambientazione: tu hai portato un mondo, Parigi, la Senna, 
                    a Milano, sui navigli...
                  Svampa – 
                    Già nel gruppo goliardico, a inizio anni '60, c'era 
                    stato un tentativo di traduzione, per esempio de “Le 
                    mauvais sujet repenti”, per metterlo in una commedia, 
                    da parte dei miei amici e colleghi di allora. Però 
                    cambiarono la musica e la cosa mi irritò. Poi per altri 
                    motivi il gruppo prese strade diverse. Io quando sentivo cantare 
                    Brassens capivo poco, nonostante avessi studiato francese 
                    per anni, per via della sua pronuncia, del suo modo di cantare, 
                    del suo linguaggio che in effetti era reinventato rispetto 
                    a un francese normale. Però per me, che già 
                    cominciavo a fare canzoni umoristiche e di satira, era il 
                    maestro assoluto, quello che avrei voluto essere da grande. 
                    
                    Ho cominciato a capire che forse con il milanese la traduzione 
                    veniva più viva, poi andando avanti trovai che queste 
                    canzoni ambientate a Milano funzionavano. Fu un'intuizione 
                    felice: torni dal militare, metti su un cabaret... son salito 
                    a cantare Brassens e non son più sceso. 
                   Monti – 
                    Ma quando sei andato da Brassens la prima volta con le tue 
                    traduzioni, lui ha voluto vedere la trascrizione in italiano...
                  Svampa – 
                    Andai a incontrarlo nel '73, dopo aver pubblicato tre dischi 
                    di traduzioni. Glieli avevo mandati con la traduzione a fronte 
                    in italiano. Sapendo che aveva una madre napoletana presumevo 
                    che conoscesse l'italiano, in realtà no. Però 
                    alcuni suoi amici italo-francesi, critici, giornalisti, verificarono 
                    che il lavoro non travisasse i contenuti e lui mi scrisse 
                    una bella lettera. Poi ci incontrammo al Bobino, dove io e 
                    Lino Patruno gli facemmo sentire un po' di cose. 
                  
                  Non 
                    ci fosse stato Brassens...
                  Scighera – Poi, 
                    il passaggio all'italiano. Perché?
                  Svampa – 
                    Dopo aver passato trent'anni a tradurre Brassens in milanese 
                    cercavo una maggior diffusione, anche se è chiaro che 
                    nessuno ti fa fare queste cose in televisione o in radio. 
                    E quindi ho cominciato a sperimentare, prima ascoltando le 
                    traduzioni di Fausto e di Fabrizio in italiano. Anche perché, 
                    se negli anni del cabaret il milanese era parlato o comunque 
                    capito, piano piano si è andato perdendo e oggi rischia 
                    di diventare un'operazione di archeologia della lingua. È 
                    inutile picchiare i pugni in cielo e dire “se parla 
                    pü milanes”. Globalizzati e coi computer, non possiamo 
                    andare alla sera a parlà milanes, dopu te ve in televisiun 
                    a parlà ingles, ala mattina te gh'è de ciamà 
                    un giappones....
                   Amodei – 
                    E a te va ancora bene: se vieni a Torino cantare in milanese 
                    ti capiscono, il torinese fuori dal Torino non lo capisce 
                    nessuno! E comunque ormai anche a Torino è una cosa 
                    assolutamente di nicchia. Lo era anche allora, io l'ho adoperato 
                    ben sapendo che sarei stato gratificato da un piccolo pubblico, 
                    ma mi permetteva di tradurre e questo m'importava. Comunque 
                    nell'astigiano e nel cuneese ci sono ancora comunità 
                    che parlano dialetto. Ci sono anche gruppi musicali che portano 
                    avanti questa tradizione. 
                   Svampa – 
                    Anche nel Canavese, che potrebbe essere considerato la Brianza 
                    piemontese. Solo che nel Canavese si continua a coltivare 
                    la terra, a fare il vino, mentre la Brianza è tutta 
                    cementificata. È difficile mantenere viva una tradizione 
                    quando si perde il rapporto con la terra... 
                  Scighera – Riguardo 
                    alla scelta tra italiano o dialetto, c'è anche un criterio 
                    legato alle tematiche? Ci sono cose che rendono meglio in 
                    italiano piuttosto che in dialetto o viceversa?
                   Svampa – 
                    Si, certi temi in italiano rendono meglio, per esempio il 
                    filone più filosofico, penso a “Dans l'eau de 
                    la claire fontaine” (Nell'acqua della fonte chiara). 
                    Poi anche lì, come nasce l'idea di una traduzione? 
                    Becchi la frase giusta del ritornello o del primo verso, o 
                    di quello che qualifica la canzone, e su quello cominci a 
                    lavorare. Il problema è che usi l'italiano anche perchè 
                    non sei più neanche stimolato a scrivere e pensare 
                    in milanese. Ci son quelli che dicono: “ma perchè 
                    non fate le canzoni come una volta?“. Ma io ho cantato 
                    la periferia quando Lambrate era periferia, adesso la periferia 
                    è l'hinterland e quello lo cantano i rapper. È 
                    cambiato il mondo, io non pretendo niente. Faccio il testimone 
                    di un patrimonio che voglio che resti ai giovani e non solo... 
                    come il latino, come la letteratura francese. 
                  Scighera – Fausto, 
                    all'epoca in cui Brassens cominciava ad essere conosciuto 
                    tu militavi nei Cantacronache, il gruppo che si può 
                    considerare l'inizio della canzone d'autore in Italia. Come 
                    si inserisce l'apparizione di questo autore nel percorso artistico 
                    di quell'esperienza? 
                   Amodei – 
                    Brassens era ritenuto un'avanguardia. All'interno di Cantacronache 
                    le influenze erano varie: per Sergio Liberovici, che era un 
                    compositore “serio”, faceva musica per il balletto 
                    e per il teatro, il modello erano rappresentato da Brecht 
                    e Weil, più una forte componente di musica yiddish. 
                    Un'altra influenza, soprattutto dopo aver conosciuto Roberto 
                    Leydi, veniva dalla canzone di protesta americana, alla Woody 
                    Guthrie. Stilisticamente poi nessuno ha seguito quella via, 
                    ma l'idea di fare canzoni di protesta nacque proprio da un 
                    libro di Leydi sulle protest songs americane. Per me personalmente 
                    c'è poco da dire: il modello era Brassens. Non ci fosse 
                    stato Brassens avrei fatto l'architetto punto e basta.... 
                    
                  Scighera – Ma 
                    con il personaggio Brassens, che avete amato, tradotto e interpretato, 
                    c'è stata anche un'identificazione dal punto di vista 
                    del percorso umano e politico? 
                  Amodei – 
                    No, per me no. Io sono abbastanza un uomo d'ordine... certo 
                    che lo adoro anche come personaggio, non solo come poeta e 
                    come cantautore. Questo personaggio che, mandato dai tedeschi 
                    in un campo di lavoro, ottiene una licenza, ne approfitta 
                    per scappare e si rifugia all'Impasse Florimont, dove se ne 
                    sta nascosto e compone canzoni per tutti quelli che l'hanno 
                    aiutato... E dopo scrive delle canzoni che non sono assolutamente 
                    anti-tedesche... non per revisionismo, ma proprio per essere 
                    decisamente politicamente scorretto. In una situazione in 
                    cui magari sulla resistenza si stava spendendo molta retorica, 
                    immediatamente lui ci mette la sua zeppa e fa delle canzoni 
                    che dal punto di vista ideologico io non condivido assolutamente, 
                    però da un punto di vista stilistico ritengo siano 
                    dei capolavori. 
                   Svampa – Si, c'è 
                    il rischio dell'identificazione. Però nel mio caso 
                    non ho sentito il problema più di tanto. Non mi sono 
                    identificato nel rifare lui, ma ho dato il mio contributo 
                    nel renderlo accettabile e credibile in italiano o in milanese. 
                    Questa tua funzione, che ritieni corretta, ti da una specie 
                    di tuo merito. Certo, vivi in quel mondo lì, siamo 
                    tutti un po' monomaniacali... Giangilberto forse meno perché 
                    non si è concentrato su un solo autore... 
                   Monti – 
                    Naturalmente la scelta del repertorio è legata anche 
                    al modo con cui uno affronta l'esistenza. Non potrei cantare 
                    Aznavour, e difficilmente potrei cantare Brel. Per un lungo 
                    periodo della mia carriera sono passato più da interprete 
                    che da traduttore e cercavo qualcuno che mi somigliasse. C'è 
                    stato un periodo in cui studiavo la comicità musicale 
                    e mi sono entusiasmato per Petrolini. L'arte in realtà 
                    è proprio non copiare, ma reinventare, con l'arrangiamento 
                    o con l'interpretazione. 
                    Ci sono delle canzoni di Boris Vian in cui racconta di personaggi 
                    folli, stralunati, per esempio la “Java des bombes atomiques” 
                    (La giava delle bombe atomiche) e io mi riconosco molto in 
                    quelli. 
                  “Ho 
                    un armadio a casa, dove...”
                  Scighera – Qual 
                    è stato il tuo approccio alla traduzione? 
                   Monti – 
                    Io ho cominciato a tradurre nel 95. Sono andato a prendere 
                    dei repertori che in Italia non si conoscevano: Boris Vian, 
                    noto soprattutto come autore de “Le déserteur” 
                    (Il disertore), la canzone più tradotta al mondo: più 
                    di 200 traduzioni e versioni. Ma Vian ha scritto 484 canzoni, 
                    oltre a romanzi e racconti. Mi sono appassionato al suo mondo. 
                    Sono partito dalla traduzione letterale, basandomi sul lavoro 
                    di Giulia Colace, una traduttrice che si è occupata 
                    soprattutto dei romanzi di Vian, e mi sono concentrato sull'adattamento 
                    ritmico, che è la parte più difficile, cioè 
                    la cantabilità. Bisogna necessariamente abbandonare 
                    delle espressioni dell'artista e cercarne delle altre. È 
                    per questo che parlo di adattamenti e non di traduzioni.
                   Svampa – 
                    Ma la traduzione letterale “pura” non esiste: 
                    È sempre e comunque un adattamento quello che si fa... 
                    
                   Monti – 
                    La mia opinione è che c'è comunque una differenza 
                    tra traduzione letterale e adattamento. Comunque, la difficoltà 
                    nel rendere Vian è che usa dei neologismi, termini 
                    completamente inventati, oltre a fare un'operazione straordinaria 
                    sulla musica: usa delle musicalità completamente diverse 
                    dagli altri, è stato il primo a utilizzare nella canzone 
                    d'autore il rock, il jazz, i ritmi latini. 
                    Poi sono passato a Serge Gainsbourg, qualcosa di molto più 
                    vicino ai giorni nostri. Gainsbourg è conosciuto per 
                    essere una specie di porcone. Uno sente Gainsbourg e pensa: 
                    “Je t'aime moi non plus”. E invece no: scrive 
                    oltre seicento canzoni ed è l'ultimo dei grandi chanteurs. 
                    
                  Scighera – Svampa 
                    ci ha portato da Parigi a Milano, tu come fai a trasporre 
                    queste canzoni in un immaginario comprensibile dagli italiani? 
                    
                   Monti – 
                    Nonostante siano passati sessant'anni il linguaggio di Vian 
                    è assolutamente moderno. È talmente avanti che 
                    tradurre esattamente quello che dice è attuale. Invece 
                    Gainsbourg è un poeta totale, oltre a essere il padre 
                    putativo del punk, per le sue sperimentazioni musicali. Molto 
                    più difficile tradurre Ferré...
                  Scighera – Per 
                    concludere, sappiamo che Svampa è anche un grande collezionista 
                    di traduzioni... 
                   Svampa: Si, 
                    ho un armadio a casa che ho ribattezzato “la fondazione 
                    Brassens”, dove ho tutto quello che mi è arrivato 
                    nel corso degli anni: traduzioni in italiano, in siciliano, 
                    in inglese, nelle lingue più disparate... in una lingua 
                    del Sudafrica, in ceco, in svedese... poi le lingue minori, 
                    il catalano il piemontese, il milanese... Una volta mi trovavo 
                    in un bar a Parigi e stavo facendo ascoltare una cassetta 
                    di traduzioni in giapponese a un'amica. Al tavolo di fianco 
                    c'erano dei giapponesi che ridevano come dei pazzi... Ancora 
                    un mese fa mi è arrivato un italiano che vive a Basilea 
                    con un disco di traduzione nel dialetto di Bassano del Grappa. 
                    Anni fa mi mandarono una cassetta dei ragazzi di Lumezzane, 
                    provincia di Brescia, dove il gorilla lo chiamano “il 
                    scimiù”....