Due umili lavoratori, non importa 
                    quale sia la loro nazionalità, sono stati probabilmente 
                    uccisi da alcuni militari, non importa quale sia la loro nazionalità.
                    Questo è ciò che conta. Chi li ha ammazzati 
                    non doveva stare lì con un mitra in mano, pagati da 
                    un sistema che spende soldi in spese militari per poi dire 
                    che mancano per ospedali, pensioni, università. Ma 
                    non sono questi gli unici paradossi della famosa “questione 
                    intricata”, che a me sembra semplice: i militari italiani 
                    non dovevano stare lì, sul ponte di una nave commerciale 
                    privata, e non possono aprire il fuoco contro innocenti pescatori. 
                    Pescatori e non pirati, perché i pirati in Kerala non 
                    ci sono.
                    Tendenzialmente, sia in India che in Italia non scarseggia 
                    l’inclinazione a difendere i propri militari: si rivendica 
                    l’impunità per uccidere sul proprio territorio 
                    e non si concede facilmente ad altri questo lusso. Di qui 
                    i problemi degli ormai famosi (in India direi “famigerati”) 
                    marò italiani e le difficoltà della diplomazia 
                    della Farnesina: a quanto pare, ci istruiscono i nostri media, 
                    all’estero si può aprire il fuoco impunemente 
                    contro un pescatore a un tot di miglia dalla costa, sostenendo 
                    di aver respinto dei pirati all’arrembaggio. Questo 
                    delirio si chiamerebbe “diritto internazionale”.
                    Squillano sui giornali le trombe soffiate da astrusi alfieri 
                    dell’impunità militare, un’impunità 
                    che dovrebbe farci ricordare le lamentele italiche per gli 
                    aviatori americani mai incolpati di alcunché per la 
                    strage del Cermis. Alle teorie degli esperti di diritto internazionale 
                    giornali come La Nazione affiancano inquietanti dichiarazioni 
                    di militari, tratte da Facebook, che chiedevano carta bianca 
                    per fare irruzione in India o almeno farla pagare agli indiani 
                    che vivono in Italia. Tutto questo, oltre a collocarsi tra 
                    il ridicolo e il favoreggiamento del razzismo strisciante 
                    nella nostra società, conforta ovviamente le autorità 
                    indiane nelle loro scelte di trattenere gli italiani per sottoporli 
                    a processo, oltre a allungare i tempi diplomatici nuocendo 
                    agli interessi degli stessi soldati detenuti. L’ “ora 
                    d’odio” non ha pagato all’epoca delle pressioni 
                    diplomatiche italiane contro il Brasile nel caso Battisti: 
                    contro l’India, paese con una fortissima tradizione 
                    anticoloniale, “giornalate” come quelle di questi 
                    giorni sono un vero e proprio suicidio mediatico. Comunque 
                    auguri. 
                    Per come la vedo io, affidare all’India le indagini 
                    per i morti indiani su navi indiane potrebbe riaffermare un 
                    principio che non è giuridico ma è umanitario: 
                    che non basta essere pagati per proteggere delle merci per 
                    avere il diritto di uccidere delle persone, con la scusa che 
                    “forse”, “eventualmente”, “potrebbero 
                    essere dei pirati”.
                  
 Il 
                    gioco delle tre carte con la nave greca
                   Intanto al posto dell’olandese volante ha fatto la 
                    sua comparsa un mercantile greco fantasma: è il tertium 
                    datur che potrebbe guadagnarsi la responsabilità 
                    dell’assassinio dei pescatori. Le cose non cambierebbero 
                    molto: stessa faccia, stessa razza, direbbero i miei cosmopoliti 
                    amici in malayalam (non è una parolaccia, 
                    è la lingua del Kerala) Per ora questa nave veleggia 
                    solo sulla blogsfera italiana e non dà notizie di sé 
                    nel mondo anglofono. Però chissà che non guadagni 
                    anche questa sponda: i greci come capri espiatori in questo 
                    periodo funzionano bene. Magari consegnarsi alle autorità 
                    indiane al posto degli italiani potrebbe essere l’ennesimo 
                    sacrificio chiesto in cambio dello sblocco del super prestito 
                    europeo. Comunque la vogliamo mettere, le cose sono le stesse. 
                    Uccisi da europei e da militari, cioè da colonialisti 
                    europei. Se non si tiene a mente questo elemento, non si capisce 
                    nulla di quel che sta succedendo a Kochi in questi giorni 
                    (come fanno i sapientoni di geopolitica internazionale che 
                    parlano di elezioni in Kerala e di beghe tra Congress, Bharatiya 
                    Janata Party e Sonia Gandhi). Per gli italiani dovrebbe contare 
                    qualcosa, oltre la solidarietà verso le vittime, anche 
                    il fatto che questi soldati sono inviati a proteggere interessi 
                    privati e sono pagati con i soldi pubblici da uno stato che 
                    a quanto si dice non ha un euro per sanità, pensioni 
                    e welfare sociale. Non è una cosa da poco, visto che 
                    all’ordine del giorno al senato c’è stato 
                    di recente proprio il rifinanziamento delle missioni militari 
                    all’estero, che destra e sinistra concordemente plaudono 
                    (provvedimento approvato con 223 sì, 35 no e 2 astenuti). 
                  
                  
                     
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                      I 
                          “pericolosi” pescherecci del Kerala  | 
                    
                  
                  
 Di 
                    pirati e castelli di carta
                   Si continua a parlare di pirati, almeno in Italia. Ora, 
                    le navi dei pescatori in Kerala sono migliaia e intrecciano 
                    continuamente nelle acque costiere, dentro e fuori il limite 
                    del tirassegno consentito. Talvolta si avvicinano ai grandi 
                    mercantili per allontanarli dalle loro reti, che potrebbero 
                    recidere (è quello che probabilmente stava facendo 
                    la Saint Antony). Le coste del Kerala sono poi controllatissime 
                    dalle autorità marittime indiane. Non si sono mai registrati 
                    casi di pirateria per quel che ne so io, e per quel che ho 
                    letto (non sono un esperto ma ne so più di un giornalista 
                    italiano, avendo vissuto e lavorato da quelle parti per svariati 
                    mesi). Due casi di pirateria in un solo giorno è uno 
                    scoop che solo i nostri media possono vantare. Ma sì, 
                    prendiamola così: mettiamola nella più benevola 
                    (per la creduloneria italiana) ipotesi che la nave tricolorata 
                    abbia mitragliato una nave di pescatori (forse senza colpirli) 
                    e che l’ipotetica e fantasmagorica nave greca abbia 
                    mitragliato un’altra (o la stessa) nave di pescatori, 
                    per giunta colpendola. Siamo ai limiti dell’assurdo, 
                    di peggio si potrebbe solo arrivare a pensare che non fossero 
                    pescatori ma pirati. Ma bisogna per l’appunto sostenere 
                    che fossero pirati: altrimenti come giustificare il fatto 
                    che gente armata e pagata da noi fosse lì? Bisognava 
                    infatti tutelare le merci dai pirati. Ma proviamo a crederci. 
                    Siamo quasi nella migliore tradizione della scienza investigativa 
                    italiana, siamo prossimi alla teoria del malore attivo di 
                    Pinelli. Siamo al ridicolo o alla cattiva coscienza. Ma non 
                    importa. Prendiamola per buona, diamo la colpa ancora una 
                    volta ai greci e sventoliamo il tricolore. Ci credete? Vi 
                    sentite a posto con la vostra coscienza? E con la vostra intelligenza? 
                    Se sì, abbandonate la lettura di questo articolo. Tutto 
                    risolto?
                    No, invece. Perché gli indiani non ci credono e hanno 
                    il dovere di non crederci. Fossi in loro non ci crederei neanch’io. 
                    E infatti non ci credo ma sarei felice di sapere che in mio 
                    nome (malgrado tutto, c’è chi potrebbe pensare 
                    all’estero che come italiano io condivida le scelte 
                    dei governi del paese in cui sono nato) non siano stati ammazzati 
                    due pescatori del Kerala di origini Tamil. Io me lo auguro 
                    che i due soldati italiani non abbiano ucciso i due pescatori. 
                    Mi risulta difficile crederci, ma quasi lo vorrei. Not 
                    in my name. Ma sono scettico, perché di solito 
                    in questo mondo chi uccide porta una qualche divisa e chi 
                    muore è disarmato. Ma se anche le cose stessero in 
                    maniera diversa da come sostengono gli indiani, l’unico 
                    modo per sapere come le cose sono andate davvero è 
                    lasciare che siano gli indiani a condurre le indagini. Non 
                    che anche la loro giustizia non conosca abusi. Ce ne hanno 
                    eccome. Non che anche i loro poliziotti non uccidano a casaccio. 
                    Non che sia una bella situazione finire nei guai con le autorità 
                    locali anche da quelle parti. Vi assicuro che non scherzano 
                    e che è facile, come ovunque, come anche da noi, ritrovarsi 
                    in una montatura. Ma in questi frangenti loro hanno più 
                    possibilità per andare in fondo alle cose. Perché 
                    da noi la verità, come in tanti altri casi in passato, 
                    come nel caso del Chermis, o come nel caso delle tanti morti 
                    all’interno di caserme e prigioni (Cucchi, Bianzino 
                    e Mastrogiovanni per citarne solo alcuni), non emergerebbe 
                    mai.
                    Riassumiamo la questione. Dimentichiamoci le lenzuolate dei 
                    giornali, le sparate nazionaliste del fascista al microfono 
                    di turno, quelle dei suoi omologhi indiani del BJP, le menate 
                    contro Sonia Gandhi… sono tutte figure di un balletto 
                    delle parti ridicolo che non mi interessa. Lo ripeterò 
                    fino alla noia: quel che conta è che due lavoratori 
                    disarmati che guadagnavano una miseria facendo un lavoro bellissimo 
                    e dignitoso sono stati uccisi in nome di interessi di classe 
                    (che non sono i nostri) da gente venuta da lontano, pagata 
                    con i soldi tolti alle scuole e agli ospedali. Che sia Italia 
                    (probabile) o Grecia (tant’è), lo vedremo. In 
                    ogni caso questo è ingiusto, è ignobile. 
                    Ma il peso più grave è ancora sulle spalle degli 
                    indiani, e non sui politici o sui parlamentari ma sui poveri 
                    pescatori che devono guadagnarsi il pane sfidando il neocolonialismo 
                    e la violenza degli stranieri: ancora una volta gli europei 
                    si presentano in India con le vesti del generale Dreyer e 
                    dei suoi cecchini. La risposta degli indiani non può 
                    passare dai soliti slogan del BJP o dello Shiv Sena ma deve 
                    recuperare tutta la radicalità dei freedom fighter 
                    industani: Down with imperialism. Inquilab Zindabad.