Signora 
                  Ministra della Giustizia, chi è il ladro? 
                   
                  “Che io possa avere la 
                  forza di cambiare le cose,  
                  che io possa avere la pazienza di accettare le cose  
                  che non posso cambiare,  
                  che io possa avere l’intelligenza  
                  di saperle distinguere”.  
                (Tommaso Moro)  
                Sono state pubblicate dai giornali alcune denunce dei redditi 
                  e ho pensato che molta gente che guadagna un sacco di soldi 
                  a volte ruba, molto di più di un barbone per sfamarsi, 
                  di un tossicodipendente per trovare i soldi per la sua dose 
                  e di un malavitoso per cercare di cambiare il suo destino e 
                  quello della sua famiglia. 
                  Eppure, chissà perché, in carcere è così 
                  difficile trovare un banchiere, un politico, un giudice, un 
                  imprenditore, un vescovo e altri cosiddetti “colletti 
                  bianchi”, forse perché ci sono veri delinquenti 
                  che non entrano mai in galera, e poi ci sono ex delinquenti 
                  che non escono mai dal carcere.  
                  Leggendo il giornale “La Repubblica” di venerdì 
                  24 febbraio 2012 ho scoperto che l’ex Capo Dipartimento 
                  dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta guadagna 
                  543.954 euro. E mi sono domandato come fa un uomo che comanda 
                  le carceri a non vergognarsi di guadagnare così tanti 
                  soldi mentre un agente della Polizia Penitenziaria riesce a 
                  malapena a sopravvivere e a mantenere i suoi familiari e i detenuti 
                  guadagnano veri stipendi di fame. Non mi resta che sperare che 
                  il nuovo Direttore del Dipartimento dell’Amministrazione 
                  Penitenziaria, Giovanni Tamburino, (ex Presidente del Tribunale 
                  di Sorveglianza Roma) si diminuisca lo stipendio per proporre 
                  di aumentarlo alle guardie carcerarie e ai detenuti che lavorano. 
                  E per ultimo ricordo alla Ministra della Giustizia, tecnica, 
                  ma spero volenterosa, che i fondi destinati alla retribuzione 
                  dei detenuti-lavoratori, sono passati dai 71.400 euro del 2006 
                  ai 49.664 euro del 2011 (- 30,5%), e che il numero degli occupati 
                  è rimasto pressoché invariato; il risparmio è 
                  stato ottenuto riducendo le ore d’impiego e da 18 anni 
                  le retribuzioni dei detenuti non vengono adeguate: Il lavoro 
                  alle dipendenze del DAP viene retribuito avendo come riferimento 
                  economico i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro di vari 
                  settori, in misura non inferiore ai 2/3 del trattamento previsto 
                  nei contratti stessi, così come indicato nell’art. 
                  22 dell’Ordinamento penitenziario. Tuttavia l’adeguamento 
                  ai CCNL non è stato effettuato dal 1994, per carenza 
                  di risorse economiche. (Notizie registrate al Registro Stampa 
                  del Tribunale di Padova n°1964). 
                  Ricordo pure alla Ministra della Giustizia che dal mese di novembre 
                  2011 svolgo attività lavorativa come scrivano/bibliotecario 
                  nel carcere di Spoleto, con passione, dedizione e fantasia e 
                  mi sono attivato, con spese personali di cartoleria e valori 
                  bollati, e ho scritto a diverse case editrice per rinnovare 
                  e aggiornare la biblioteca, facendo arrivare per il momento 
                  un migliaio di libri. Eppure la mia paga media mensile è 
                  di 26,48 ¤ e non credo proprio che questa sia una remunerazione 
                  decorosa e rieducativa, la trovo piuttosto umiliante. 
                  A questo punto mi chiedo: Signora Ministra della Giustizia, 
                  chi è il ladro? 
                 Carmelo Musumeci 
                  Carcere di Spoleto (Pg)  
                  www.carmelomusumeci.com 
                  
                 Proposta: 
                  i “Comitati di liberazione dallo Stato” 
                   
                  Sfogliando il numero di Marzo della prima rivista italiana in 
                  ordine alfabetico, leggo sbalordito l’articolo di Andrea 
                  Papi, riassunto magnificamente nel titolo “Il 
                  tributo iniquo delle tasse”. Papi in tal articolo 
                  si sofferma su una considerazione etica e libertaria della tassazione, 
                  il problema non è la quantità di tasse che paghiamo, 
                  se esse siano eque o no o se i ceti medio – alti paghino 
                  la quantità giusta di tasse, il problema è la 
                  tassazione in sé. Ogni anarchico sa, che mettere in discussione 
                  ogni dì lo stato è il compito principale, dobbiamo 
                  partire dal presupposto che lo stato vive la sua coercizione 
                  attraverso lo strumento fiscale, in poche parole, riconosciamo 
                  lo stato moderno attraverso i tributi, quando paghiamo le tasse 
                  diamo il nostro ok alla proliferazione dell’organismo 
                  statuale.  
                  Papi riflette in modo davvero intelligente tutto ciò, 
                  senza macchia, un articolo da incorniciare per la sua precisione, 
                  strabiliante ancor di più che anche tra gli anarchici 
                  si avvii una discussione di tal genere, un dibattito che finalmente 
                  guardi alle tasse come prodotto dell’imposizione del potere 
                  statuale e dei suoi amici economici.  
                  Come dimenticare tutte le polemiche con quell’agenzia 
                  di morte morale e non solo, chiamata Equitalia? Papi nell’articolo 
                  parla di disobbedienza civile e non-violenta contro lo strumento 
                  fiscale, aggiungo che condivido dicendo non sarebbe ora di mettere 
                  su dei “Comitati di liberazione dallo Stato”, partendo 
                  proprio dalla lotta fiscale, dallo sciopero contro la rapina 
                  fiscale? Un servizio va scambiato tra gli individui, secondo 
                  scelte non coercitive e liberamente, volontariamente tra gli 
                  uomini, quello che fa lo stato, invece, è imporre, la 
                  stessa logica che fa vivere tutte le organizzazioni della malavita 
                  in teoria all’opposto dello stato, in realtà specchio 
                  dell’altra realtà.  
                  Siamo sottoposti alla condizione, beffarda per lo più, 
                  di contribuire a spese che non abbiamo voluto e non possiamo 
                  controllare, grazie alle tasse che versiamo si pagano gli aeri 
                  militari della morte e grazie alle nostre tasse si costruiscono 
                  le megastrutture di morte come la TAV e sempre con le tasse 
                  si paga chi di mestiere è autorizzato a “picchiare” 
                  chi contro queste megastrutture lotta. Il problema è 
                  lì, nella tassazione. Disobbedienza fiscale non è 
                  un concetto assurdo ma una vertenza autenticamente e intimamente 
                  libertaria. 
                  Un saluto libertario.  
                 Domenico Letizia 
                  (Maddaloni – Ce) 
                  
                 La 
                  malattia dell’economia globale (con una proposta di risanamento) 
                Dom Arigipulo di 
                  Zab (Novara) si è messo nei panni dei due noti editorialisti 
                  economici del Corriere della Sera, Alesina e Giavazzi e ha scritto 
                  un “loro” articolo assolutamente falso ma altrettanto 
                  assolutamente verisimile. Eccolo. 
                 Almeno due secoli di storia economica ci hanno portato alla 
                  situazione attuale. Pure noi, che da sempre lodiamo i pregi 
                  del sistema capitalista mondiale, ci siamo accorti che qualcosa 
                  non funziona a dovere. 
                  Tranquilli, non siamo certo diventati antiliberisti: siamo sempre 
                  convinti che proprietà privata dei mezzi di produzione 
                  e libero mercato siano i fondamenti di ogni sistema economico 
                  sano. 
                  Non si può certo immaginare di creare valore in un sistema 
                  pianificato al modo del vecchio socialismo sovietico. Anche 
                  i cinesi l’hanno compreso nel corso degli ultimi trent’anni: 
                  non possiamo certo definire la Cina un paese socialista nel 
                  senso classico marxiano. Le diverse aree dell’Impero di 
                  Mezzo nelle quali funzionano le nostre stesse regole di mercato 
                  ormai sopravanzano i territori protetti ed i residui collettivisti 
                  presenti nell’organizzazione del lavoro agricolo e dei 
                  settori industriali arretrati. 
                  Ormai tutto il mondo è capitalista. Anche chi si oppone 
                  formalmente ha, in fondo, conservato solo una vuota denominazione: 
                  partito comunista cinese, partiti comunisti e socialisti qua 
                  e là nel modo, i residui di un castrismo ormai riassorbito 
                  tra i tranquilli regimi nazional-populisti latinoamericani. 
                  Partiamo dunque da questo dato: non esiste un’alternativa 
                  credibile al capitalismo globalizzato. 
                  Eppure c’è una crisi profonda che sta fiaccando 
                  il sistema economico mondiale. Eppure dobbiamo ammettere che 
                  qualcosa non funziona a dovere. 
                  Dove sta il problema principale che impedisce al sistema economico 
                  di funzionare al modo in cui classici della “triste scienza” 
                  avevano vaticinato con tanta sicumera? 
                  Il problema sta negli esiti imprevisti dell’Illuminismo 
                  ideologico. A furia di considerare la libertà individuale 
                  come fosse un valore in sé, si è esagerato non 
                  poco. Certo i pensatori settecenteschi pensavano alla loro persona, 
                  ai loro familiari, ai loro amici: insomma, ai membri delle classi 
                  privilegiate. I liberi ed eguali (ma non troppo) dovevano essere 
                  gli ottimati: gli aristocratici per famiglia e tradizione, ma 
                  anche i nuovi arrivati in forza del loro censo (quindi uomini 
                  d’affari, delle professioni, della neonata borghesia industriale). 
                  Ma qualcuno ha voluto esagerare e ha esteso i cosiddetti diritti 
                  umani fondamentali anche alle classi subalterne, ai lavoratori 
                  tutti. Così, come per magia, ci siamo trovati in un mondo 
                  nel quale le differenze di ceto sono sparite: un operaio di 
                  fabbrica può vantare gli stessi diritti di un manager 
                  per la cui istruzione sono state spese (dalla sua famiglia o 
                  da altri) quantità enormi di denaro. 
                  Tornando sul terreno dell’economia politica, abbiamo assistito 
                  alla liberazione del fattore produttivo lavoro. La soggettività 
                  dei lavoratori si è posta, nel corso degli ultimi due 
                  secoli, su un inusuale piedistallo, pretendendo di essere coprotagonista 
                  sulla scena del mondo della produzione e dello scambio. Il fattore 
                  lavoro si è voluto differenziare dagli altri fattori 
                  produttivi (risorse naturali, capitale) e ha imballato, con 
                  tali pretese, il funzionamento corretto del sistema capitalista. 
                  Ecco allora la nostra proposta. Proviamo, sperando che non sia 
                  già troppo tardi, a rimediare agli eccessi ideologici 
                  del pensiero liberale. Rimoduliamo il liberalismo, costruiamo 
                  un pensiero ben temperato dalle prove e dalle durezze della 
                  vita. Acquistiamo coraggio e diciamocelo con chiarezza: il sistema 
                  capitalista può funzionare bene solo se si ricostruisce 
                  un meccanismo di regole che riconduca il lavoro nel suo ambito 
                  naturale. 
                  Intendiamo dire che il lavoro deve essere servile. Deve cioè 
                  essere di proprietà di colui che può acquistarlo 
                  in forza dei capitali finanziari posseduti. 
                  Il capitale umano è funzione dell’accumulazione 
                  del capitale tecnico e di quello finanziario: è cosa 
                  limpida e cristallina. 
                  Se vogliamo che l’imprenditore e che l’investitore 
                  possano essere davvero padroni del loro destino, abbiamo bisogno 
                  che il lavoro si pieghi completamente alla loro volontà 
                  demiurgica. 
                  Le materie prime si ribellano forse a chi le forgia? Le macchine 
                  ben funzionanti si ritorcono contro il loro manovratore? Le 
                  masse di denaro flottante nei forzieri delle banche centrali 
                  in compagnia dell’oro ivi custodito cospirano forse ai 
                  danni dei loro padroni? E allora perché il lavoro dovrebbe 
                  essere l’unico fattore produttivo a ribellarsi contro 
                  i signori dell’economia globale? 
                  Ecco il problema ed ecco la soluzione: è necessario, 
                  al più presto, ricostruire un insieme di regole formali 
                  (sostenute al livello gerarchico più elevato, cioè 
                  a livello costituzionale) che riconducano il lavoro entro i 
                  confini di un servaggio efficiente e funzionale alle esigenze 
                  della produzione e dei consumi dei ceti privilegiati. 
                  Solo introducendo questa innovazione giuridica (che altro non 
                  è se non un ritorno ad un passato più felice) 
                  possiamo sperare di annullare il conflitto di classe fondato 
                  sull’invidia. 
                  Solo in tal modo possiamo immaginare che l’Imprenditore 
                  possa riacquistare la sua originaria libertà di intraprendere, 
                  di plasmare la sua impresa a sua somiglianza, di gestire le 
                  risorse (anche quelle umane) in vista di un vero accrescimento 
                  del valore aggiunto. 
                  Solo in tal modo possiamo liberare Stati ed Imprese dall’eccesso 
                  di indebitamento che sta demolendo il sistema capitalista: il 
                  lavoratore-servo, infatti, smetterà di pretendere tutti 
                  quei servizi di vario genere che hanno svuotato le casse erariali 
                  di più di una nazione. 
                  E ci siamo limitati solo alla menzione dei vantaggi economici 
                  di tale ristrutturazione normativa. Ognuno può vedere 
                  da sé quali potranno essere i vantaggi morali e politici 
                  per l’intera nostra comunità. 
                (testo di Dom Argiropulo di Zab) 
                  
                 No 
                  Tav / Una ribellione contagiosa 
                 Dieci giorni indimenticabili. Dieci giorni che hanno dato 
                  una spinta all’opposizione sociale nel nostro paese. In 
                  questi dieci giorni la scintilla partita dalla Val Susa ha infiammato 
                  le piazze della penisola, un contagio immediato, capillare, 
                  incontenibile, che sta mettendo in difficoltà l’esecutivo 
                  guidato da Mario Monti. 
                  Il governo, forte dell’appoggio bipartisan di buona parte 
                  dell’arco parlamentare, nei suoi primi cento giorni ha 
                  goduto di una sorta di benedizione nazionale. Destra e sinistra 
                  hanno provato a vendere l’illusione che i tecnici prestati 
                  alla politica potessero curarne i mali. Nei fatti sono stati 
                  bravi nel mostrare un’asettica capacità di fare, 
                  e in fretta, quello che Fondo Monetario, Banca Centrale Europea 
                  pretendono dai paesi dell’Unione schiacciati dalla crisi: 
                  eliminazione di ogni forma di tutela, disciplinamento forzato 
                  dei lavoratori, svendita dei beni comuni.  
                  La precarietà del lavoro, già sancita dalle leggi 
                  Treu e Biagi, nei piani di Monti deve divenire l’unico 
                  orizzonte possibile e desiderabile da tutti.  
                  La retorica contro la noia del posto fisso, della vita tutta 
                  quanta nella stessa città, dei legami con i propri cari 
                  come catena da spezzare sta accompagnando il percorso verso 
                  la demolizione del poco che resta. L’attacco alla tutela 
                  contro i licenziamenti politici, alla cassa integrazione, il 
                  lavoro interinale che esce dall’eccezione per divenire 
                  la norma sono alcuni dei tasselli del puzzle di Monti. 
                   Nonostante 
                  la Grecia rivelasse, come uno specchio orientato nel prossimo 
                  futuro, l’inevitabile esito delle politiche del governo, 
                  le lotte sono state deboli, parcellizzate, incapaci di catalizzare 
                  il consenso popolare.  
                  L’imponente manifestazione del 25 febbraio in Val Susa 
                  è stato il primo segnale – forte e chiaro – 
                  di un’inversione di tendenza. Nonostante una campagna 
                  mediatica martellante, nonostante le dichiarazioni del capo 
                  della polizia Manganelli, che descriveva il movimento No Tav 
                  come nido di terroristi pronti a uccidere, decine di migliaia 
                  di persone si sono riconosciute in un movimento capace di rappresentare 
                  chi vuole case, ospedali, scuole, treni per i pendolari e non 
                  è più disponibile a pagare la crisi dei padroni. 
                  Non è più solo una questione di ambiente: oggi 
                  più che in passato è diventata la sfida di chi 
                  si batte per l’interesse generale contro l’arroganza 
                  di chi vuole imporre con la forza un’opera inutile, dannosa, 
                  costosissima.  
                  La partita sulla linea ad alta velocità tra Torino e 
                  Lyon è arrivata ad un punto cruciale. È in ballo 
                  un intero sistema, un sistema elaborato e oliato per anni, per 
                  garantire agli amici degli amici di destra e sinistra, un bottino 
                  sicuro e legale.  
                  Le linee ad alta velocità costruite nel nostro paese 
                  sono state l’ossatura del dopo tangentopoli: un sistema 
                  raffinato e semplice per dribblare tutti gli ostacoli legali. 
                  Siti di interesse strategico, leggi obiettivo, general contractor 
                  sono stati alcuni degli strumenti adottati per cementare un 
                  sistema sicuro di drenaggio di denaro pubblico a fini privatissimi. 
                  Un sistema che funziona perché va bene a tutti, per tutti 
                  c’è una fetta di torta.  
                  Un sistema che nessuno può permettersi di far saltare. 
                  Un sistema che il movimento contro la Torino Lyon ha reso trasparente, 
                  mostrandone i meccanismi, aprendo crepe, costruendo una resistenza 
                  popolare alla quale guardano in tanti.  
                  La strategia del governo è chiarissima: celare le ragioni 
                  della lotta No Tav, declinando nella categoria dell’ordine 
                  pubblico un movimento che non riescono a piegare né con 
                  le buone né con le cattive. 
                  In risposta alla manifestazione del 25 febbraio il governo ha 
                  deciso di allargare il cantiere/fortino della Maddalena. Millecinquecento 
                  uomini in armi – la forza dello Stato nel suo volto più 
                  vero, quello della repressione violenta – sono stati dispiegati 
                  nel catino della Clarea. 
                  Luca Abbà, un compagno da sempre in prima linea nella 
                  lotta, si arrampica su un traliccio dell’alta tensione 
                  per rallentare i lavori. Con criminale determinazione gli uomini 
                  dello Stato lo inseguono obbligandolo a salire pericolosamente 
                  vicino ai fili. Viene folgorato e cade. Resterà per tre 
                  quarti d’ora a terra in attesa di soccorsi, mentre le 
                  ruspe continuano il loro lavoro.  
                  Manganelli aveva dichiarato che gli anarchici cercavano il morto, 
                  per un pelo gli uomini di Manganelli non hanno ucciso Luca, 
                  anarchico e No Tav. 
                  La risposta in Val Susa e in tutta Italia è stata forte, 
                  immediata, corale. 
                  Per un’intera settimana ci sono state manifestazioni, 
                  blocchi di strade ed autostrade, cortei spontanei. La bandiera 
                  con il treno crociato è divenuta la bandiera di un paese 
                  che resiste, alza la testa, vuole cambiare radicalmente la rotta. 
                  I partiti dell’esile opposizione istituzionale di sinistra, 
                  che si illudevano di cavalcare la protesta, trasformandola in 
                  voti e poltrone, sono rimasti ai margini di una lotta agita 
                  in prima persona da gente che non vuole più affidare 
                  ad altri il proprio futuro.  
                  Gente disponibile a rischiare la vita e la libertà, gente 
                  che ha ben compreso che solo l’azione diretta, senza deleghe 
                  e senza tutele, può inceppare il meccanismo. 
                  Il governo ha risposto con violenza e arroganza. Le truppe di 
                  Cancellieri hanno spaccato braccia e gambe, hanno gasato e caricato, 
                  si sono scatenate nel rastrellare la gente nelle case e nei 
                  bar. 
                  Dopo una settimana di blocchi in Val Susa e ovunque in Italia, 
                  il governo ha deciso di andare avanti. Costi quel che costi. 
                  La litania è quella consueta: il collegamento con l’Europa, 
                  la piccola Italia schiacciata dietro le Alpi, il treno che in 
                  quattro ore ti conduce a Parigi, il Tav che porta lavoro, i 
                  manifestanti sempre violenti. Il primo ministro rivendica la 
                  propria autonomia dai governi precedenti, ma si limita a fare 
                  quello che gli altri non erano riusciti a realizzare fino in 
                  fondo: gli interessi dei padroni e dei banchieri.  
                  L’idea di sviluppo di Monti si basa sulla distruzione 
                  delle risorse e sulla devastazione dei territori: l’unica 
                  cosa che conta è far girare le merci, far girare i soldi, 
                  fare grandi opere utili solo alla lobby che sostiene e finanzia 
                  un’intera classe politica.  
                  Dalla Val Susa viene un segnale forte e chiaro: noi non ci stiamo. 
                  Non ci stiamo più: il mondo che vogliamo per i nostri 
                  figli è fatto di solidarietà, di cooperazione, 
                  di uguaglianza.  
                  Il governo ha paura, ha paura dell’infezione valsusina, 
                  ha paura che l’anomalia No Tav divenga una mutazione genetica 
                  durevole e diffusa. Per questo occorre disciplinare, costi quel 
                  che costi, chi oggi parla con la voce di tutti coloro che, nel 
                  nostro paese, si battono contro un’idea di sviluppo che 
                  mira al profitto di pochi contro la vita e la libertà 
                  di tutti. 
                  Un movimento radicato e insieme radicale, capace di autogovernarsi, 
                  resistere, mantenendo salda negli anni la propria sfida.  
                  Monti e Cancellieri puntano il dito sugli anarchici, preparano 
                  nuove misure repressive. Si torna a parlare di fermo di polizia, 
                  di arresti in differita, dell’inasprimento delle pene 
                  per reati come l’insulto a pubblico ufficiale, i blocchi 
                  di strade e ferrovie, sino ad un nuovo tipo di associazione 
                  illegale che consenta di imprigionare gli anarchici. 
                  Quello che Monti e il suo governo non capiscono è che 
                  gli anarchici sono parte riconosciuta del movimento No Tav da 
                  lunghi anni, che i tentativi di dividere e spaccare non hanno 
                  mai funzionato, perché chi lotta e si confronta in modo 
                  diretto, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ha costruito saldi 
                  rapporti di fiducia e mutuo appoggio. 
                  Quello che Monti non comprende – o forse lo comprende 
                  sin troppo bene – è che gli anarchici sono una 
                  minoranza, ma le idee di libertà, partecipazione, uguaglianza, 
                  sperimentazione sociale, la pratica dell’azione diretta, 
                  della cooperazione, dell’autogestione si stanno diffondendo 
                  tra i tanti che hanno compreso che questo non è il migliore 
                  dei mondi possibili.  
                  La commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica 
                  Italiana esprime la propria solidarietà a Luca e ai suoi 
                  cari, auspicando che possa presto tornare alla lotta. 
                  Esprime la propria solidarietà ed il proprio appoggio 
                  ai compagni e alle compagne arrestate per la resistenza No Tav, 
                  che, anche in carcere, continuano a lottare per la libertà 
                  e sono puniti con l’isolamento. 
                  Si stringe a Tobia, rinchiuso tra le mura di casa con il divieto 
                  di scrivere lettere e fare telefonate, Tobia che non accetta 
                  che gli tappino la bocca ed è in sciopero della fame 
                  (poi sospeso al 13° giorno, n.d.r.). 
                  Sarà sempre più dura. Per chi sfrutta ed opprime, 
                  per chi pesta e umilia. Tra blocchi e barricate cresce la voglia 
                  di resistere, di cambiare di senso al presente, di consegnare 
                  un altro futuro a chi verrà dopo di noi.  
                 La Commissione di Corrispondenza 
                   
                  della Federazione Anarchica Italiana 
                  cdc@federazioneanarchica.org 
                  tel. 3333275690 
                  
                 Bravo 
                  Accame (e occhio all’ideologico) 
                Ritengo Felice Accame uno degli epistemologi (l’etichetta 
                  è riduttiva, lo so, ma in qualche modo bisogna pur definire, 
                  pena un’estensione terminologica impropria per gli spazi 
                  di una rivista come “A”) più importanti del 
                  panorama non solo italiano, oltre che, ovviamente, una delle 
                  vere personalità che intervengono su”A”. 
                   
                  Questa premessa non è una excusatio non petita, come 
                  dimostrerà il seguito di questa breve argomentazione. 
                  Sono, cioè, assolutamente d’accordo anche con quanto 
                  Accame scrive a proposito dell’“ideologia” 
                  (in “A” 
                  368, febbraio 2012, p.76), cioè che essa sia da intendere 
                  quale “sistema di valori”, nonché, in virtù 
                  di un’estensione-designa anche una “progettazione 
                  sociale”- prima che di questa progettazione sia stata 
                  sancita la negatività o la positività”. 
                   
                  D’accordo: era la classica definizione, da Destutt de 
                  Tracy in poi, che Carlo Cattaneo estende anche all’ambito 
                  sociale. Ma, con Karl Marx e Friedrich Engels, soprattutto nella 
                  “Deutsche Ideologie” (Ideologia tedesca), opera 
                  ancora “giovanile”, ideologia vuol dire “falsa 
                  coscienza del mondo” (altrove “falsa rappresentazione”) 
                  e allora “ideologi” diviene espressione negativa, 
                  applicata alla concezione ancora astratta della realtà 
                  presente (ovviamente secondo Marx ed Engels) nei “Giovani 
                  Hegeliani” (“sinistra hegeliana”) ossia Bruno 
                  e Edgar Bauer, Moses Hess, Arnold Ruge e Max Stirner, in parte 
                  a chi al”movimento”afferiva, un po’ confusamente, 
                  come Michail Bakunin, con cui, però, Marx ed Engels si 
                  scontreranno in seguito, in sede di Prima Internazionale, per 
                  ben altri motivi. Concezione fatta poi propria dai marxisti 
                  (almeno qui non vale la famosa frase di Marx “Je ne suis 
                  pas marxiste”, “non sono marxista”, non si 
                  ha cioè uno scollamento tra Marx e i marxismi successivi, 
                  dove rilevo, a mo’ di critica agli anarchici, ma a livello 
                  storico-critico, che essi spesso considerano l’“universo” 
                  marxista quasi fosse un insieme indistinto), ma anche da gran 
                  parte del pensiero, dominante e di opposizione, se guardiamo, 
                  definendolo, alla fattualità politica. “Ideologia” 
                  come “falsa coscienza”, cioè lo sentiamo 
                  dire da marxisti e iper(o meglio neo)liberisti, da politologi 
                  e sociologi e filosofi, da giornalisti e mass-mediologi.  
                  Sono quindi d’accordissimo con Accame quando sostiene 
                  che “Bollare – come si fa oggi a destra e a manca 
                  – come “ideologico” un argomento e pretendere 
                  con ciò di aver messo a tacer l’avversario – 
                  ...è da irresponsabili – nel senso letterale del 
                  termine” (ibidem).  
                  Credo che sarebbe una sorta di correttezza epistemologica e 
                  quindi linguistico-deontologica seguire qui Felice Accame, ma 
                  anche su “A” (lascio al lettore il compito di trovare 
                  citazioni a riguardo, cosa difficile, sfogliando l’intera 
                  collezione dei 40 anni ormai passati o invece, cosa più 
                  fattibile, limitandosi alla raccolta dell’ultimo anno) 
                  troviamo spesso l’uso anzidetto, in chiave di bassa strumentalità, 
                  perché oggi dire”argomentoideologico”significa”argomento 
                  strumentale, al servizio di una certe classe sociale “o 
                  anche “di alcune singole categorie”. Facit?  
                  Accame ha ragione e senz’altro deve proseguire, su questo 
                  terreno come su altri, per un “nuovo rasoio di Ockham” 
                  contro le idee ricevute come contro i “concetti-zeppa”, 
                  quelli superflui, ma sarebbe necessario, se non un “consensus 
                  omnium”, almeno un accordo limitato (magari ad “A”, 
                  ma potenzialmente non solo a questa rivista) per riformulare 
                  espressioni come questa. Servirebbe anche ad evitare equivoci 
                  comunque tuttora più che mai presenti a livello di argomentazioni 
                  correnti, dove il codice comunicativo non è sempre condiviso 
                  da emittente e ricevente. Servirebbe soprattutto ad obbligare 
                  notisti politici di ogni “ispirazione ideale” a 
                  dismettere un linguaggio comodo quanto stereotipato, spesso 
                  non significante.  
                 Eugen Galasso 
                  (Firenze) 
                 
                 Botta... 
                  / Non dimentichiamo che ci sono vittime e carnefici 
                Carissimo Andrea, 
                  quando sosteniamo che determinate ingiustizie come lo schiavismo, 
                  la tortura, lo stupro... che vengono inflitte a persone umane 
                  e non umane, sono delle azioni che consideriamo intollerabili, 
                  non stiamo automaticamente sostenendo che occorre fare la guerra 
                  a chi non la pensa come noi.  
                  Non tollerare le ingiustizie, a nostro parere, non significa 
                  per forza reprimere e combattere chi ha una diversa visione 
                  rispetto alla nostra. Significa, invece, usare l’attivismo, 
                  il boicottaggio, la critica, la denuncia, l’informazione, 
                  le lettere, gli articoli, i discorsi, i libri, i filmati, i 
                  fumetti, la musica affinché quella determinata ingiustizia 
                  possa cessare. E d’altronde lo abbiamo già scritto 
                  e ripetuto in diverse occasioni, anche nell’ultima lettera 
                  (“A” 370, 
                  pag. 93 “Anarchismo, anarchici, antispecismo”) 
                  quando scriviamo “...vittime senza voce che possono solo 
                  contare su chi osa non tollerare le ingiustizie attraverso l’attivismo, 
                  la sensibilizzazione, il boicottaggio...”. 
                  L’antispecismo, a nostro parere, è, di per se stesso, 
                  non violento perché ogni forma di sopruso o di imposizione 
                  finisce per ricalcare l’ideologia del dominio. E d’altronde 
                  ci sarà un motivo per cui non si sente mai di un vegan 
                  o di un antispecista che entrano nei ristoranti per prendere 
                  a bastonate chi azzanna le bistecche! Gli antispecisti e i vegan 
                  non lo fanno! Al contrario, se proprio vogliamo parlare di imposizione 
                  o di intolleranza come base di ogni guerra, dovremmo considerare 
                  gli atti che danno la possibilità di azzannare quella 
                  stessa bistecca. Questi atti sono la prigionia, lo sfruttamento, 
                  l’alimentazione forzata, lo stupro attraverso l’inseminazione 
                  artificiale, l’assassinio di un individuo nel pieno della 
                  sua vita, la riduzione in schiavitù, la tortura... 
                  Quando si parla di quella che potremmo definire questione animale, 
                  si tiene sempre e solo in considerazione l’umano. Ed è 
                  proprio questo lo specismo! Volendo considerare la tolleranza 
                  e il rispetto delle differenze, infatti, si dimentica sempre 
                  che ci sono delle vittime e dei carnefici. Si dimentica sempre 
                  che la tolleranza nei confronti dei carnefici dovrebbe passare 
                  in secondo piano rispetto a quella da accordare alle vittime 
                  che chiedono solo di poter continuare a vivere, di vedere tollerato 
                  il loro diritto di vivere in libertà. Ma nel caso dello 
                  specismo questo non avviene perché, per lo specismo, 
                  ciò che conta, in questo caso la tolleranza, può 
                  essere applicato solo a chi è superiore, e quindi all’umano. 
                  Il diverso dall’umano non viene neppure preso in considerazione. 
                  Era questo ciò che intendevamo nel criticare chi invoca 
                  tolleranza solo per i carnefici. La tolleranza nei confronti 
                  dei carnefici è sicuramente un gesto profondo e nobilitate, 
                  ma solo quando è preceduto da una ferma condanna per 
                  le sue azioni, solo quando tiene in considerazione e in precedenza 
                  la tolleranza nei confronti delle vittime. 
                  È solo così che la tolleranza assume un senso 
                  anche nei confronti dei nazisti nonostante gli stermini da loro 
                  attuati. E da un punto di vista antispecista la gravità 
                  dell’olocausto subito dagli ebrei non è più 
                  grave di quello subito dagli animali non umani negli allevamenti. 
                  Riteniamo che ribaltare la questione e usare l’argomentazione 
                  della tolleranza per condannare chi denuncia un’ingiustizia 
                  sia poco corretto. Riteniamo che trasformarlo in un fanatico 
                  che vuole “colpire, annientare, distruggere e, se va bene, 
                  sottomettere” chi non la pensa come lui, sia il classico 
                  metodo con cui si tende a reprimere ogni forma di dissenso. 
                   
                  In realtà, a riflettere con un minimo di lucidità 
                  sulla questione animale, chi viene colpito, annientato, represso, 
                  sottomesso e, sempre e comunque e in qualsiasi allevamento, 
                  ucciso, è sempre e solo l’animale. 
                  Anche secondo noi l’anarchismo nasce per liberare e non 
                  per creare nuove imposizioni, come giustamente scrivi. Noi siamo 
                  molto lontani dal voler creare imposizioni, ma riteniamo che 
                  una liberazione non possa avere senso se limitata solo all’umano. 
                  Così come non ha senso la liberazione di una sola razza, 
                  o di un solo sesso. Nessuna liberazione può basarsi sulla 
                  sottomissione di chi è diverso, di chi appartiene ad 
                  un’altra specie. 
                  Per quanto riguarda la nostra espressione “anarchici vecchio 
                  stampo” non intendevamo certo fare divisioni tra buoni 
                  e cattivi, ma solo riferirci a chi non accetta l’antispecismo 
                  solo perché non è stato indicato dai pensatori 
                  anarchici del passato. E la nostra non è neppure una 
                  forma di ingenuità che non tiene conto dei disastri commessi 
                  in nome di buone cause. Il nostro linguaggio risente inevitabilmente 
                  della drammaticità della situazione in cui si trovano 
                  tutti gli animali deportati, richiusi, vivisezionati, sfruttati 
                  e violentati. 
                  Non abbiamo alcun interesse o intenzione di far prevalere il 
                  nostro punto di vista, di creare guerre o nemici da combattere. 
                  Ciò che ci preme è solo amplificare delle voci 
                  rinchiuse, sfruttate, derise e annientate all’interno 
                  di capannoni, recinti, laboratori, zoo, acquari... Fare in modo 
                  che queste voci si sentano nonostante lo sforzo politico e mediatico 
                  che studia ogni mezzo per farle tacere. Nel fare questo continuiamo, 
                  da anni, ad usare pazienza e perseveranza. Continuiamo a fare 
                  tavoli in mezzo alla strada parlando con la gente, ad organizzare 
                  eventi, a mostrare immagini e video che rappresentano ciò 
                  che avviene realmente, ciò che non si vuole mostrare, 
                  continuiamo a scrivere articoli, libri e lettere affinché 
                  la questione venga affrontata con la serietà che merita. 
                  E speriamo che, alla fine, siano queste voci e non certo le 
                  nostre idee e i nostri pensieri ad avere ragione, a permettere 
                  che una sostanziale liberazione avvenga, ma avvenga per tutti 
                  e per tutte.  
                  Tutto questo ci pare abbastanza lontano dal voler “colpire, 
                  annientare, distruggere e, se va bene, sottomettere” chi 
                  non la pensa come noi. Resta il fatto che questa sofferenza, 
                  queste ingiustizie hanno un peso indicibile e non sono facilmente 
                  rappresentabili o interpretabili con parole dolci, con parole 
                  che esprimano una grande tolleranza nei confronti di chi le 
                  sta causando. Chi ha visto ciò che accade in un macello, 
                  chi ha visto trascinare via, verso il macello, una mucca da 
                  latte oramai talmente sfruttata e talmente esausta da non riuscire 
                  più a camminare, chi ha visto usare le scosse elettriche 
                  per farla muovere, chi ha visto le convulsioni, gli occhi spalancati 
                  dal terrore, chi ha sentito le urla e lo strazio e la disperazione, 
                  chi è consapevole, chi vede tutto questo in ogni prodotto 
                  animale, chi non riesce a voltarsi dall’altra parte, chi 
                  ha scelto di muoversi attivamente perché queste ingiustizie 
                  cessino, non sempre riesce a ritenere normale che altri accettino 
                  con leggerezza tutto questo, soprattutto se ci si trova in un 
                  ambito libertario. 
                  Ma questo, ovviamente, non significa condannare chi è 
                  diverso da noi. Significa, invece, ritenere ingiusta, sbagliata, 
                  intollerabile un’idea, un comportamento, un’azione, 
                  un’opinione. Il giudizio non viene posto sulla persona. 
                  La persona, fortunatamente, è in perenne mutamento. E 
                  nessuna persona è un nemico irrecuperabile, almeno ai 
                  nostri occhi. Quasi tutti i vegan sono stati carnivori e specisti, 
                  e quasi tutti ne sono perfettamente consapevoli. È per 
                  questo che non vogliono sottomettere nessuno, ed è per 
                  questo che sanno molto bene quanto occorra essere espliciti 
                  nel rappresentare quelle voci che non si vogliono ascoltare, 
                  che è molto meglio dimenticare fingendo che vada tutto 
                  bene. 
                  Un caro saluto attivamente antispecista.  
                  Troglodita Tribe 
                  Serrapetrona (Mc) 
                  troglotribe@libero.it 
                  
                 ... 
                  e risposta / Così chiarita, siamo d’accordo 
                Benissimo cari Troglodita Tribe, finalmente cominciamo a capirci 
                  nella sostanza. Questa vostra “intolleranza dolce” 
                  mi piace. Per quel che mi riguarda è molto più 
                  rivolta a se stessi che ai soggetti e all’oggetto da contestare. 
                   
                  Ma è proprio per questo che mi va bene. Così personalmente 
                  la vedo di più come determinazione ad oltranza nel combattere 
                  il male e l’ingiustizia, che è la forza di volontà 
                  degli idealisti e dei rivoluzionari.  
                  Ma è sempre proprio per questo che mi va bene. Anche 
                  perché non è affatto scontato che sia come voi 
                  dite. Nella mia esperienza l’intolleranza è un’altra 
                  cosa, ed è più rivolta all’esterno del soggetto 
                  che verso se stessi, è spesso la base della non accettazione 
                  degli altri.  
                  Ma messa così come la mettete voi, è perfetta: 
                  aiuta a combattere nel modo che ritengo più giusto. 
                Andrea Papi 
                  
                 Malatesta, 
                  le tasse, lo Stato 
                In una lettera apparsa 
                  nel n. 369 di “A”, Fabio Massimo Nicosia dichiara 
                  di cercare “soluzioni nell’ambito dell’anarchismo” 
                  e descrive la sua soluzione ‘georgista’. Nella lettera 
                  cita anche Malatesta, di passaggio. Vorrei a mia volta citare 
                  un breve passaggio di Malatesta, in risposta a Nicosia.  
                  Nel Programma anarchico, Malatesta elenca tutti i mali 
                  sociali e poi scrive: “Tale stato di cose noi vogliamo 
                  radicalmente cambiare. E poiché tutti questi mali derivano 
                  dalla lotta fra gli uomini, dalla ricerca del benessere fatta 
                  da ciascuno per conto suo e contro tutti, noi vogliamo rimediarvi 
                  sostituendo all’odio l’amore, alla concorrenza la 
                  solidarietà, alla ricerca esclusiva del proprio benessere 
                  la cooperazione fraterna per il benessere di tutti”. 
                  Questa è l’essenza dell’anarchismo di Malatesta 
                  e del nostro movimento, prima ancora che l’abolizione 
                  del governo. Voler abolire il governo è solo una conseguenza 
                  necessaria di quanto sopra. Voler abolire il governo senza condividere 
                  quanto sopra vuol dire cercare soluzioni in tutt’altro 
                  ambito e si fa solo confusione a voler dare l’impressione 
                  del contrario.  
                Davide Turcato 
                  (Vancouver – Canada) 
                  
                 Afghanistan 
                  / Governo italiano doppiamente assassino 
                Il governo italiano assassino dei soldati italiani 
                  e di combattenti e civili afgani 
                In Afghanistan è in corso una guerra. Che consiste di 
                  stragi, devastazioni ed orrori inauditi. A questa guerra da 
                  dieci anni partecipa anche l’Italia. Illegalmente, poiché 
                  la Costituzione della Repubblica Italiana lo proibisce esplicitamente, 
                  inequivocabilmente. 
                  L’illegale, criminale partecipazione italiana alla guerra 
                  è responsabile della morte dei soldati italiani li’ 
                  assassinati, ed è responsabile della morte degli afgani 
                  assassinati dagli italiani. 
                  E l’Italia è corresponsabile altresì di 
                  tutte le altre stragi, di tutti gli altri orrori, commessi dalle 
                  truppe d’occupazione della coalizione di cui fa parte. 
                  I governanti italiani che continuano a mandare giovani italiani 
                  a morire e ad uccidere in Afghanistan sono dei criminali, sono 
                  degli assassini. Sono direttamente responsabili di quelle uccisioni 
                  i governanti italiani di questi ultimi dieci anni e con essi 
                  i parlamentari che hanno votato a favore di questo crimine ed 
                  i presidenti della 
                  Repubblica che questo crimine hanno avallato tradendo il loro 
                  dovere di fedeltà alla Costituzione che la partecipazione 
                  alla guerra vieta. 
                  Sono colpevoli della morte degli italiani uccisi dagli afgani 
                  e sono colpevoli della morte degli afgani uccisi dagli italiani. 
                  Poiché se non avessero inviato i soldati italiani a partecipare 
                  alla guerra in Afghanistan gli uni e gli altri sarebbero ancora 
                  vivi. 
                  Dieci anni di stragi. Dieci anni di criminale violazione della 
                  legge fondamentale del nostro ordinamento giuridico. Dieci anni 
                  di complicità col male più abissale. 
                  Cessi immediatamente la partecipazione italiana alla guerra 
                  terrorista e stragista. 
                  Tornino immediatamente e definitivamente in Italia tutti i soldati 
                  italiani dispiegati in Afghanistan. Tornino vivi. 
                  Cessi immediatamente la flagrante, insensata, scellerata violazione 
                  della Costituzione italiana e del diritto internazionale. 
                  Cessi immediatamente questo abominevole crimine contro l’umanita’. 
                  Si adoperi lo stato italiano per la pace, il disarmo e la 
                  smilitarizzazione dei conflitti. 
                  Cessi lo stato italiano di far morire degli esseri umani e si 
                  impegni invece per salvare le vite, recare aiuti umanitari, 
                  promuovere i diritti di tutti gli esseri umani, con interventi 
                  di cooperazione internazionale e di umana solidarietà 
                  rigorosamente civili, non armati, nonviolenti. 
                  Vi è una sola umanità. Solo la pace salva le vite. 
                  La guerra – che sempre consiste di omicidi – sempre 
                  è nemica dell’umanità. 
                Peppe Sini 
                  responsabile del “Centro di ricerca per 
                  la pace e i diritti umani” di Viterbo 
                  strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo 
                  e-mail: nbawac@tin.it 
                  web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza 
                  
                 Sopruso 
                  (alle inumane, quotidiane, vittime innocenti) 
                Dall’alba di millenni 
                  mani che afferrano 
                  tieni la testa giù 
                  terrore negli occhi 
                  cuore che batte 
                  ancora per poco 
                  dolore dolore  
                  dolore 
                  sangue urlare 
                  senza speranza ormai 
                  buio 
                  coltelli fucili e 
                  risate 
                  appetito gola e 
                  discorsi 
                  discorsi 
                  discorsi 
                  la bibbia il nonno 
                  i cicli la vita 
                  la morte 
                  ecco solo alla fine 
                  la morte. 
                Sandro Spinazzi 
                  (Marghera – Ve) 
                                  
                
                    
                  
                     
                      |  
                          I 
                          nostri fondi neri 
                            
                       | 
                     
                     
                       
                         
                           Sottoscrizioni.  
                            Piero Cagnotti (Dogliani – Cn) 30,00; Panayotis 
                            Kalamaras (Atene – Grecia) 20,00; Pino Fabiano 
                            (Cotronei – Kr) 50,00; Piero Barsanti (La Spezia) 
                            20,00; Nicola Colliva (Casalecchio di Reno – 
                            Bo) 20,00; L.B. (Ancona) “ricordando P. I., 
                            la sua compagna”; 350,00; Aurora e Paolo (Milano) 
                            ricordando il sorriso di Franco Serantini, 500,00; 
                            Pietro Mambretti (Lecco) 20,00; Paolo Sabatini (Firenze) 
                            20,00; Marco Cressatti (Bari) 10,00; Oreste Roseo 
                            (Savona) ricordando Domenico Pastorello e Isac Garcia 
                            Barba, 70,00; Albino Trucano (Borgiallo – To) 
                            20,00; Aldo Curziotti (Sant’Andrea Bagni – 
                            Pr) 20,00; Bruno Riva (Savosa – Svizzera) 10,00; 
                            Bas Moreel (Olanda) 50,00; Claudio Neri (Roma) 20,00: 
                            Attilio Destri (Tresana – Ms) 20,00; Daniele 
                            Ferro (Voghera – Pv) 20,00; Giorgio Franchi 
                            (Codigoro – Fe) 20,00; Franco Schirone (Milano) 
                            100,00; Giordano de Luca (Roma) 50,00; a/m BFS, Claudio 
                            Albertani (Città del Messico – Messico) 
                            50,00. Totale euro 1.490,00. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). A/m Antonio 
                            Senta, Eros Bonfiglioli (Bologna); Fantasio Piscopo 
                            (Milano) “in ricordo di mio padre Tullio”; 
                            Enrico Calandri (Roma); Giacomo Ajmone (Milano); Fabio 
                            Palombo (Chieti) 250,00; L. D. (Ancona); Andrea Albertini 
                            (Bolzano) 150,00; Gianluca Botteghi (Rimini); Giulio 
                            Canziani (Castano Primo – Va); Matteo Parisi 
                            (Brescia); Gianni Alioti (Genova); Francesco Barba 
                            (Kassel – Germania); Matteo Gandolfi (Genova); 
                            Pietro Steffenoni (Lodi). Totale euro 1.600,00. 
                         
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