Venne fuori che qualcuno andava 
                    a dire in televisione che quelli come me erano pericolosi. 
                    Il guaio è che io di tutta quella faccenda non ne avevo 
                    ancora saputo un bel niente perché a casa mia la televisione 
                    non ce l’avevamo proprio. A dire il vero a casa mia 
                    non avevamo nemmeno una vera e propria casa come sottolineò 
                    la maestra quel giorno in cui venne a parlarci del razzismo.
                    “Prendete Rajko ad esempio, lui è proprio come 
                    voi” disse indicandomi, e poiché tutti si misero 
                    a guardarmi come se io fossi proprio uguale a loro, io mi 
                    sentii proprio come se fossi uguale a loro.
                    “Anche se sì insomma in un certo senso è 
                    diverso...” e tutti si misero a guardarmi come se sì, 
                    in un certo senso, fossi diverso, e allora io mi sentii come 
                    se sì, in un certo senso, fossi diverso.
                    “Ma anche lui ha una casa proprio come la vostra, anche 
                    se in realtà la sua non è una casa proprio uguale 
                    alla vostra...” e tutti si misero a guardarmi come se 
                    in realtà la mia casa non fosse proprio uguale alla 
                    loro, così che per un po’ aspettai di capire 
                    com’è che avrei dovuto sentirmi.
                    “Diciamo che la sua è una casa speciale perché 
                    si può spostare...” e tutti si misero a guardarmi 
                    come se la mia casa fosse speciale perché si poteva 
                    spostare così io pensai di dovermi sentire speciale 
                    proprio come uno che aveva una casa speciale che si poteva 
                    spostare e mi sentii speciale proprio come uno che aveva una 
                    casa speciale che si poteva spostare. 
                  
                  
 In 
                    mezzo a tutti quegli occhi fissi
                   Ma poi la maestra proseguì
                    “Alcuni dicono che quella casa dovrebbe essere spostata 
                    perché...come posso dire...è come se fosse parcheggiata 
                    dove non c’è un parcheggio, o come se il parcheggio 
                    ci fosse ma non fosse stato pagato e hanno paura che questo 
                    possa compromettere l’ordine, ecco diciamo, il regolare 
                    svolgimento delle cose ...” e tutti si misero a guardarmi 
                    come se, insomma va beh, s’è capito no? Tutti 
                    si misero a guardarmi male e io mi sentii come se tutti mi 
                    stessero guardando male e mi persi poi gran parte del discorso.
                    Stavo lì a rimuginare tra me e me, in mezzo a tutti 
                    quegli occhi fissi, sul com’è che proprio mio 
                    padre si fosse inventato un parcheggio proprio lì e 
                    non avesse neanche pagato il biglietto, voglio dire, tra tutte 
                    le kampine proprio la nostra doveva essere fuori posto, proprio 
                    roba da compromettere l’ordine, ecco diciamo, proprio 
                    roba da compromettere il regolare svolgimento delle cose, 
                    e proprio un sacco di altre cose, evidentemente...
                    “Attenzione bambini” gridò a un certo punto 
                    la maestra, e quando quelli si misero tutti sull’attenti, 
                    io pure mi misi sull’attenti e ricominciai ad ascoltare, 
                    solo che anche se ormai avevano tutti smesso di guardarmi 
                    io continuavo a sentirmi come se ancora non avessero smesso 
                    di guardarmi, cosa che non mi era mai capitata prima e mi 
                    parve strana, molto strana davvero. “Però!” 
                    pensai “è strano!”
                    Comunque la maestra voleva esser certa che avessimo capito 
                    bene – Il razzismo è una cosa brutta, è 
                    pensare che non sia divertente giocare con qualcuno soltanto 
                    perché è o sembra diverso. Chi non vuole giocare 
                    con qualcuno soltanto perché è o sembra un diverso 
                    è razzista e a Gesù dispiace quando uno è 
                    razzista perché Egli vuole che tutti i bambini giochino 
                    e si divertano insieme e diventa triste quando non lo ascoltano 
                    –
                    “Allora Rajko” intervenne il mio compagno di banco 
                    Piero “è razzista perché non ascolta Gesù 
                    e vuole che Gesù è triste?”
                    E tutti si voltarono a guardarmi come se fossi razzista perché 
                    non ascoltavo Gesù e volevo che lui fosse triste, così 
                    io iniziai un poco a scocciarmi di tutto questo voltarsi a 
                    guardarmi e dissi alzando la voce che non era vero che non 
                    ascoltavo Gesù o che volevo che lui fosse triste. Certo, 
                    era vero che io non lo avevo mai visto come lo avevano visto 
                    gli altri, perché come ho già detto la televisione 
                    io non ce l’avevo, ma dai discorsi che ne facevano loro 
                    ne avevo dedotto che fosse uno a posto questo Gesù, 
                    lo avrei tenuto come un phral per giunta perché mi 
                    stava simpatico pure a me e non era per niente vero che io 
                    volevo che lui fosse triste, tutt’altro, volevo pure 
                    io che fosse contento e così mentii. – Anche 
                    io ci ho parlato qualche volta, ieri per esempio è 
                    stato al campo da noi – e siccome tutti parevano guardarmi 
                    con ammirazione esagerai- abbiamo giocato a pallone e io gli 
                    ho parato un rigore! – Ma ormai non mi riusciva più 
                    di capire com’è che mi stessero guardando tutti, 
                    sapevo e vedevo soltanto che mi guardavano. Strano. 
                  
 Finalmente 
                    la campanella squillò
                   “Rajko” mi riprese la maestra “questo 
                    non è rispettoso.”
                    “Ma io...” provai a difendermi.
                    “Fuori dalla porta” sentenziò.
                    Ne trassi che uno come Gesù, i rigori da uno come me, 
                    non se li sarebbe lasciati parare.
                    Mi alzai e imboccai l’uscita sfilando sotto quell’infinità 
                    di occhi che mi restarono addosso anche dopo aver chiuso la 
                    porta. Che ce ne fossero così tanti di occhi lì 
                    dentro non me ne ero mai accorto, non mi ero mai fermato a 
                    contarli come facevo adesso per passare il tempo. Di occhi 
                    ne avevamo due a testa. Di teste ne avevamo ventotto, una 
                    a testa più la maestra, che però per quel che 
                    ne sapevo io poteva anche valere di più e neanche capivo 
                    se mi ci dovevo mettere o no insieme agli altri nella conta. 
                    Comunque anche senza di me, così a occhio e croce, 
                    di sguardi dovevano essercene tanti, almeno cento in ogni 
                    occhio, qualcosa come tutto lo spazio dei prati di tutti i 
                    prati che avevo visto finora...
                    A conti fatti insomma, non era stata per niente una buona 
                    giornata; forse ero razzista e quasi sicuramente avevo reso 
                    triste Gesù.......Con tutto lo spazio dei prati dovevamo 
                    proprio andarci a parcheggiare nel posto sbagliato?.. Non 
                    potevamo avere anche noi una televisione anzi che starcene 
                    a guardare le stelle? Glielo avevo detto io a mio padre, una 
                    sera che ce ne stavamo di fuori a guardare le stelle.
                    “Dovremmo comprare la televisione”
                    “Per fare che?” aveva chiesto lui.
                    “Per guardare le cose” avevo risposto io.
                    “Guarda le stelle.” aveva concluso lui.
                    Finalmente la campanella squillò e fu l’ora di 
                    andarsene, e tutti uscirono, come me, ma io non mi sentii 
                    per niente come se stessimo uscendo tutti insieme, e anche 
                    se nessuno mi guardò come se non stessi uscendo insieme 
                    a loro, beh, forse fui proprio io a guardarmi come se non 
                    stessi uscendo insieme a loro e quasi quasi mi sentii come 
                    se in realtà stessi uscendo da solo e pensai di essere 
                    solo.
                    “Rajko” mi chiamò mio padre “andiamo?”
                    Gli corsi incontro e gli tesi la mano.
                    Lui la strinse.
                    Non ero solo.
                    Poi però mio padre fece una cosa che non avrei mai 
                    creduto, fece il razzista coi ragazzi del bar.
                    “Ehi! Perché non giochiamo tutti insieme a incendia 
                    il campo rom?” ci stavano invitando.
                    Io volevo giocare e mi fermai a guardarli proprio come uno 
                    che voleva giocare.
                    “Cammina” disse mio padre strattonandomi per la 
                    maglietta e affrettando il passo proprio come uno che invece 
                    non voleva giocare proprio per niente.
                    “Ma papà” provai a intervenire.
                    “Zitto e cammina. Quelli lì non sono degni neanche 
                    di pulirci le scarpe” sbottò con voce ferma senza 
                    fermarsi.
                  
 Gridava 
                    in silenzio mio padre
                   Camminai.
                    Lo guardai dispiaciuto e camminai.
                    Lo guardai dispiaciuto e deluso e camminai.
                    Lo guardai dispiaciuto e deluso e arrabbiato e camminai.
                    Se ci ero rimasto male io figuriamoci loro; erano stati così 
                    carini a invitarci, così sorridenti nel farlo e noi? 
                    Noi non ci eravamo nemmeno fermati un momento a parlargli, 
                    che so, a spiegargli magari che quel giorno lì avevamo 
                    da fare ma che ci avremmo volentieri giocato la prossima volta 
                    a incendia il campo rom insieme a loro. E certo che non glielo 
                    avevamo detto, perché mio padre non ci avrebbe mai 
                    voluto giocare con loro – quelli lì non sono 
                    degni neanche di pulirci le scarpe – aveva detto. E 
                    meno male che non lo avevano sentito perché ci sarebbero 
                    rimasti ancora peggio. E meno male che non lo aveva sentito 
                    Gesù. Gesù già. Chissà come l’avrebbe 
                    vista Gesù tutta quella faccenda. Sicuramente non sarebbe 
                    stato contento per niente, ed era ben la seconda volta in 
                    un giorno che tra e me e mio padre gli davamo motivo di essere 
                    triste...roba che presi a sentirmi triste anche io. Aveva 
                    ragione la maestra: non era per niente una cosa bella, il 
                    razzismo.
                    Gridava in silenzio mio padre quel giorno, lo faceva coi polsi, 
                    mi stringeva la mano fortissimo e mi faceva impressione, mi 
                    guardava come se ci fosse qualcosa da avere paura e allora 
                    anch’io lo guardavo come se ci fosse qualcosa da avere 
                    paura, ma io quasi quasi avevo un poco paura di lui.
                    E anche se mi teneva la mano io lo sentivo distante.
                    E mi sentivo solo, a camminare così da razzista. 
                    E non era per niente una cosa bella, il razzismo.