
                  Secondo Eugenio Scalfari, che 
                    ne ha scritto in uno dei raffinati elzeviri che pubblica ogni 
                    due settimane sull’“Espresso” (Cappuccino 
                    democratico, 15 marzo 2012), il Partito democratico è 
                    un po’ come un cappuccino, nel senso che è composto 
                    da due elementi da nessuno dei quali si può prescindere 
                    per la definizione dell’insieme. In effetti, omettendo 
                    il latte in quella bevanda ci resta solo un caffè e 
                    senza il caffè non si ottiene altro che latte, e allo 
                    stesso modo le componenti ex Ds ed ex Margherita sono essenziali 
                    per quel partito e solo dalla loro combinazione può 
                    sprigionarsi quel tipico aroma salvifico in cui il fondatore 
                    di “Repubblica” e buona parte dei suoi lettori 
                    confidano.
                    L’argomento, almeno per quanto si riferisce alla ricetta 
                    del cappuccino, è al di là di ogni possibile 
                    contestazione, anche se da uno dei più venerati maitres 
                    à pénser del giornalismo italiano ci si 
                    penserebbe autorizzati ad aspettarsi qualcosa di più. 
                    Ma in realtà Scalfari vuol dire che nessuna delle due 
                    componenti può arrogarsi un diritto di veto nei confronti 
                    dell’altra minacciando una nuova separazione e ne approfitta 
                    per esprimere la propria preferenza per un cappuccino dal 
                    sapore, diciamo così, più carico, quale lo si 
                    otterrebbe se nella formazione confluisse anche il gruppo 
                    di Vendola. L’operazione, a suo dire, rafforzerebbe 
                    il carattere liberalsocialista del partito e porrebbe le premesse 
                    per la definitiva realizzazione di quelle riforme di cui tanto 
                    il paese abbisogna.
                  
 Nemmeno 
                    un comunista o democristiano
                   
Personalmente, 
                    su questo esito avrei qualche dubbio. Come avrei qualche perplessità 
                    sulla disinvoltura con cui, non solo da parte di Scalfari, 
                    si tende oggi ad appropriarsi del termine “liberalsocialismo”, 
                    una espressione coniata verso la metà degli anni ‘30 
                    del secolo scorso da Carlo Rosselli per definire un programma 
                    politico e ideale che non avrebbe avuto, nei decenni successivi, 
                    una particolare fortuna. Ma a quella tradizione Scalfari è 
                    sempre stato legato e nessuno può contestargli il diritto 
                    di auspicare una sua rinascita. Anche il liberalsocialismo, 
                    nella visione rosselliana, era la sommatoria di due componenti 
                    eterogenee ma imprescindibili, quella socialista e quella 
                    liberale, ciascuna delle quali avrebbe vivificato l’altra 
                    con il proprio sistema di valori e ne avrebbe emendato i difetti. 
                    Detta così, la prospettiva può sembrare un po’ 
                    meccanica e in effetti il pensiero di Rosselli prevedeva qualche 
                    mediazione in più (aveva , in particolare, delle accentuazioni 
                    libertarie che forse potrebbero interessare ai lettori di 
                    questa rivista), ma in questi casi quel che conta è 
                    farsi capire e accontentiamoci pure.
                    C’è una cosa, piuttosto, che non capisco io. 
                    Scalfari, che era presente, rievoca la “lunga giornata” 
                    in cui, al Lingotto di Torino, fu fondato il nuovo partito, 
                    e ne ricorda quelli che a suo avviso ne rappresentavano i 
                    precedenti culturali e politici nella storia d’Italia. 
                    “Mi vennero in mente” scrive “Turati, Gobetti, 
                    il socialismo riformista dei fratelli Rosselli, il liberalsocialismo 
                    di Guido Calogero e infine Norberto Bobbio, Piero Calamandrei 
                    e Galante Garrone. Queste furono le patenti nobili del riformismo 
                    italiano che … segnò una traccia profonda nella 
                    cultura politica italiana … e che a mio avviso … 
                    dovrebbe rappresentare l’identità profonda del 
                    partito democratico.” Il che è ben detto ma un 
                    po’ strano perché, Turati a parte, nessuno dei 
                    nomi citati può essere ricondotto alla tradizione da 
                    cui provenivano i Ds, né tanto meno a quella della 
                    Margherita. 
                    Nessuno di quei rispettabili signori era di scuola marxista 
                    o credeva nella dottrina sociale della Chiesa, come a dire, 
                    esprimendosi rozzamente, che non aveva nulla a che fare né 
                    con il Partito comunista né con la Democrazia cristiana, 
                    e tutti, in effetti, vissero gli sviluppi della politica italiana 
                    del dopoguerra in una posizione isolata e minoritaria, raccogliendo 
                    da parte dei militanti e dei dirigenti di quei partiti di 
                    massa e dei loro satelliti e alleati una certa indifferenza 
                    ostile e superciliosa, temperata al massimo da qualche rara 
                    e occasionale attestazione di stima. 
                  
 Maionese 
                    impazzita
                   Ma erano tutti dei rigoristi, secondo la miglior tradizione 
                    giacobina, e non cercavano quel tipo di consenso che si ottiene 
                    rinunciando ai propri valori di fondo. In particolare, essendo 
                    tutti, per una quantità di motivi su cui non possiamo 
                    soffermarci adesso, assertori convinti del punto di vista 
                    laico, avrebbero considerata bizzarra l’idea per cui 
                    una forza politica di sinistra avrebbe avuto qualche prospettiva 
                    di successo solo a condizione di accogliere nel proprio interno 
                    una componente ex democristiana. È probabile che se 
                    avessero sentito esprimere l’ipotesi, da esponenti quali 
                    erano di un’era prebasagliana, avrebbero invocato a 
                    gran voce la cella imbottita e la camicia di forza.
                    Insomma, non tutte le mescolanze sono paragonabili tra loro 
                    e chi pensasse che, in fondo, il cappuccino e il martini, 
                    in quanto entrambi composti dalla fusione di due elementi, 
                    siano la stessa cosa potrebbe subire qualche amaro disinganno. 
                    Più che di petizioni di principio e di padri nobili 
                    – che, naturalmente, ciascuno è libero di attribuirsi 
                    a piacere, tanto a chi volete che importi? – la democrazia 
                    italiana ha bisogno di riforme politiche e di attenzione ai 
                    diritti civili. 
                    E quanto a questo, l’amalgama su cui si fonda il Partito 
                    democratico non è forse il più propizio: pensate 
                    a tutto il canaio che succede ogni volta che entrano in ballo 
                    le questioni cosiddette “di coscienza” e aspettate 
                    a vedere, per esempio, cosa succederà dopo la recente 
                    pronuncia della Cassazione sul matrimonio gay e vi renderete 
                    conto che quella organizzazione, più che a un cappuccino, 
                    rischia di somigliare a una maionese impazzita.