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                Michel Foucault, 
                  filosofo, storico, e molto altro ancora (senza peraltro lasciarsi 
                  ingabbiare in una disciplina particolare), ha, tra l’altro, 
                  tenuto diversi corsi al Collège de France, uno dei quali, 
                  nell’anno accademico 1973-1974, dal titolo «Il potere 
                  psichiatrico» (1). Durante queste 
                  lezioni-seminari sviluppa un’indagine storico-filosofica, 
                  ma anche letteraria, sulle modalità attraverso cui si 
                  è costituito un sapere medico sulla follia e la corrispondente 
                  nascita del manicomio. Ma già agli esordi del suo percorso 
                  di ricercatore egli aveva espresso in nuce tutte le sue formidabili 
                  intuizioni rispetto a questi temi.  
                  Folie et déraison. Histoire de la folie à 
                  l’âge classique esprime i contenuti di una 
                  grande genealogia della follia. In questo testo pubblicato nel 
                  1961, Foucault sviluppa una conoscenza molto più ampia, 
                  vasta e pregnante, di quanto non possa sembrare a una prima 
                  lettura, della storia della follia, nell’età che 
                  va dalla fine del medioevo alla prima metà del secolo 
                  XIX.  
                  Superando una mera cronologia dei singoli eventi, ricostruendo 
                  il suo profilo storico e attualizzando la sua immagine, Foucault 
                  scrive una genealogia della follia, contribuendo significativamente 
                  a innovare, sia metodologicamente che concettualmente, l’intera 
                  storia delle idee. 
                  Egli fonda il suo modello ermeneutico su un approccio multidisciplinare 
                  (scientifico, sociale, antropologico, filosofico, artistico, 
                  ecc.), attraverso una versatilità di prospettive di osservazione 
                  dei fatti indagati e una puntuale coerenza d’indagine 
                  storica. La follia diviene sia l’oggetto che il soggetto 
                  del discorso, del suo sviluppo, della sua evoluzione, attraverso 
                  le varie epoche prese in considerazione, in una storia che non 
                  parla solo di cose ma anche di fatti, ai quali non vengono attribuiti 
                  solo significati ma li si fa anche significare. 
                  Questa storia, ci dice Foucault, è anche la nostra, poiché 
                  indaga la realtà delle nostre stesse fondamenta, una 
                  storia della ragione che si intreccia con quella della sragione 
                  e viceversa. 
                  Proprio perché tutto questo ci appartiene, è parte 
                  di noi, i materiali vivi e le riflessioni stimolanti che Foucault 
                  mette a disposizione in questa opera, costituiscono un insieme 
                  di possibilità di indagine che non possono non stimolare 
                  anche una visitazione interiore in ciascuno di noi. D’altro 
                  canto lo stesso studioso francese, come ha ben evidenziato Mario 
                  Galzigna nell’incipit alla sua introduzione nella nuova 
                  edizione italiana dell’opera (2), 
                  teorizza la necessaria utilizzazione del pensiero altrui per 
                  esplorare se stessi e per riconoscere la validità (spendibilità) 
                  di una riflessione: «Le persone che amo, le utilizzo. 
                  Il solo segno di riconoscimento che si possa testimoniare a 
                  un pensiero […] è precisamente di utilizzarlo, 
                  di deformarlo di farlo stridere, gridare. Allora, dicano pure 
                  i commentatori se si è o non si è fedeli, ciò 
                  non ha alcun interesse» (3). Questa 
                  considerazione è parte della posizione filosofica di 
                  Foucault, l’affidare il destino di un pensiero, di un’opera 
                  (a partire dai propri lavori) all’insieme delle riutilizzazioni, 
                  delle riprese e persino degli stravolgimenti che di tutto ciò 
                  è possibile fare, in altre opere, altri pensieri, altre 
                  forme, in luoghi e tempi diversi.  
                  La psichiatria e l’istituzione asilare, secondo il ragionamento 
                  del nostro autore, sono frutto di un’evoluzione, non sempre 
                  lineare e conseguente, ma pur tuttavia decisa, che muove da 
                  una concezione intellettualistica e approda a una visione morale 
                  della follia. In questo passaggio sostanziale di significato, 
                  noi possiamo trovare e riconoscere la storia della cultura occidentale, 
                  nelle declinazioni che, di volta in volta, i meccanismi di esclusione 
                  e di criminalizzazione, hanno assunto assoggettando ogni forma 
                  di diversità e di devianza.  
                  Naturalmente è possibile e doveroso mettere in evidenza 
                  alcuni concetti e nuclei teorici decisamente fondamentali, che 
                  hanno caratterizzato questa storia, e che rappresentano il passaggio 
                  da una concezione della follia considerata come un errore di 
                  giudizio, un autoinganno della ragione, un sogno, a una vera 
                  e propria malattia morale (4), «malattia 
                  della civilizzazione», riprendendo il pensiero degli inizi 
                  dell’Ottocento di Jean-Étienne Dominique Esquirol 
                  (1772-1840). 
                
                   
                    |    
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                    Michel 
                        Foucault  | 
                   
                 
                  
                  La nozione di errore 
                Nell’introduzione all’opera in questione Mario 
                  Galzigna sottolinea, riprendendo alcune riflessioni di Jean-Paul 
                  Sartre (5), come lo sperimentatore sia parte 
                  del sistema sperimentale, che occorra costruire un’epistemologia 
                  realista che situi la conoscenza nel mondo: «che spezzi 
                  la dicotomia tra osservatore e osservato, riconoscendo il coinvolgimento 
                  del soggetto nella realtà osservata come parte costitutiva 
                  ed essenziale del processo conoscitivo» (6). 
                  In questo senso quindi l’incipit foucaultiano suggerisce 
                  come non sia possibile, come dirà Clifford Geertz (1926-2006), 
                  capire la gente senza interagire con essa dal punto di vista 
                  umano, perché la «comprensione» implica sempre 
                  «l’immersione» (7). Scrive 
                  Galzigna: «Possiamo pensarci, in ultima analisi, come 
                  soggetti costituiti (prodotti, determinati, inglobati nella 
                  realtà di conoscere) e come soggetti costituenti (produttivi, 
                  determinanti, capaci di cooperare alla costruzione della realtà 
                  che ci ingloba)» (8). 
                  Questo filo che lega Sartre a Foucault viene individuato da 
                  Galzigna nel passaggio, per certi versi anche significativo 
                  e consistente, dalla genealogia degli anni Settanta agli scritti 
                  ultimi, a testimonianza delle straordinarie capacità 
                  critico-evolutive che il filosofo francese sviluppa nel suo 
                  itinerario culturale. Sartre e Foucault sono accomunati da una 
                  medesima difficoltà: «quella di concepire, di comprendere 
                  e di vivere gli aspetti attivi e gli aspetti passivi che definiscono 
                  il soggetto costituito e il soggetto costituente» (9). 
                  Problematiche importanti in questo quadro di ricerca teorica 
                  che vede protagonisti tra gli altri anche Cornelius Castoriadis 
                  e altri pensatori francesi, come quelli costituitesi nel gruppo 
                  della rivista Libre. 
                  In questa dialettica tra costituito e costituente, tra costituzione 
                  e personalizzazione, Foucault innesta una «variabile anarchica 
                  – la follia – che sparapiglia i giochi della dialettica: 
                  già nella Prefazione la concepisce al tempo stesso come 
                  gesto originario e costitutivo, come esperienza-limite, come 
                  fattore imprevedibile, come livello precategoriale che rimane 
                  estraneo alla storia, ma che al tempo stesso, … la instaura 
                  e la rende possibile» (10). 
                  Si tratta di un’esperienza-limite, di partizione tra ragione 
                  e sragione, un gesto costitutivo di rottura. Ma, ripensando 
                  la questione del soggetto, appannaggio tradizionale della fenomenologia 
                  e dell’esistenzialismo, Foucault, muovendosi dal lavoro 
                  di Georges Canguilhem (1904-1995), la situa nello spazio di 
                  una filosofia dell’errore. Nella sua opera, Il normale 
                  e il patologico del 1943, lo storico e filosofo della biologia 
                  Canguilhem, intende demolire le pretese della medicina positivistica 
                  di definire la malattia come pura differenza quantitativa rispetto 
                  a norme oggettive, radicandola invece nell’esperienza 
                  del soggetto in quanto individuo vivente. Riflettendo sulla 
                  norma e sull’errore egli contesta le tesi tuttora diffuse 
                  secondo le quali «i fenomeni patologici sono identici 
                  ai fenomeni normali corrispondenti, tranne che per variazioni 
                  quantitative» (11). Ciò che 
                  invece attrae Foucault è la ripresa del vitalismo e della 
                  sua funzione e, al contempo, la ricostruzione del processo di 
                  formazione dei concetti riguardanti la vita, così come 
                  sono espressi da Canguilhem. Scrive Foucault: «L’errore 
                  è per Canguilhem l’alea permanente attorno a cui 
                  si avvolgono la storia della vita e il divenire degli uomini. 
                  È questa nozione di errore che gli permette di legare 
                  ciò che sa della biologia e la maniera in cui ne fa la 
                  storia, senza che mai abbia voluto, come si faceva al tempo 
                  dell’evoluzionismo, dedurre questa da quella. È 
                  questa nozione che gli permette di segnare il rapporto tra vita 
                  e conoscenza della vita e di seguirvi, come un filo rosso, la 
                  presenza del valore e della norma. Questo storico della razionalità, 
                  tanto razionalista lui stesso, è un filosofo dell’errore, 
                  voglio dire che è a partire dall’errore che egli 
                  pone i problemi filosofici, diciamo più esattamente il 
                  problema della verità e della vita» (12). 
                  Non esiste cultura senza follia, scrive Foucault nel 1961 (13), 
                  ci sono civiltà che l’hanno celebrata, altre che 
                  l’hanno esorcizzata tenendola a distanza, altre ancora 
                  che l’hanno curata. Tra i folli ci sono persone interessanti 
                  o non, come tra quelle normali: ciò che gli preme sottolineare 
                  è che «non esiste cultura senza follia, e quel 
                  che mi sono proposto di studiare è appunto il problema 
                  assolutamente generale dei rapporti che una cultura intrattiene 
                  con la follia, a partire dall’analisi di un caso preciso, 
                  vale a dire quello delle reazioni della cultura dell’età 
                  classica a un fenomeno, quello della follia, che sembrava opporsi 
                  radicalmente al razionalismo del XVII e del XVIII secolo» 
                  (14).  
                  
                  
                  La nascita del manicomio 
                La follia dunque come lettrice della nostra cultura sembra 
                  essere una delle prospettive che il filosofo francese intraprende 
                  in questo studio archeologico pluridisciplinare (15). 
                  Il XVII secolo rappresenta per Foucault una svolta sostanziale 
                  poiché fino ad allora, fino all’età barocca, 
                  il folle ha condotto un’esistenza interamente libera. 
                  Aveva una presenza visibile di superficie nella cultura: feste 
                  dei folli, teatro dedicato ai folli, un posto significativo 
                  nella letteratura, c’era una vera e propria iconografia 
                  della follia. Hieronymus Bosch e Brueghel, tra gli altri, hanno 
                  dipinto la follia, così come il Don Chisciotte di Cervantes, 
                  ma anche in Shakespeare, ne ha narrato la tragicità, 
                  assieme a una vera e propria tradizione letteraria della follia 
                  e sulla follia, lungo tutto l’arco di tempo che arriva 
                  fino alla seconda metà del seicento. La poesia, la letteratura 
                  diventano, agli occhi di Foucault, indispensabili per comprendere 
                  l’enigma di questa dimensione non classificabile, sfuggente, 
                  dell’essere e del non essere degli uomini e delle donne. 
                  Con la nascita del manicomio, l’imporsi di una società 
                  mercantile e capitalista, l’affermarsi nella società 
                  di un modello familiare borghese, tra la fine del settecento 
                  e i primi anni dell’ottocento, il folle cessa di essere 
                  ciò che era stato considerato per essere ritenuto e classificato 
                  innanzitutto come un asociale. La scrittura cambierà, 
                  la narrazione si avvarrà di nuovi strumenti e nuove tecniche 
                  analitiche e descrittive, che troviamo ben analizzate nel lavoro 
                  di Galzigna (16) a partire dalla documentazione 
                  raccolta negli archivi dell’ex ospedale psichiatrico di 
                  San Servolo a Venezia.  
                  Questa dimensione letteraria e artistica della follia, che esprime 
                  almeno una parte della verità di una cultura, è 
                  stata espressa da individui che erano ai limiti della follia 
                  stessa o che ne facevano un’esperienza personale profonda. 
                  Nella seconda metà dell’ottocento sarà ripresa 
                  da Nietzsche, da Raymond Roussel, da Van Gogh, da Artaud, per 
                  sottolineare nei fatti (più che nelle intenzioni) come 
                  la follia sia un fenomeno di civiltà straordinariamente 
                  importante. 
                  Il 5 febbraio del 1960, ad Amburgo, Foucault scrive la prefazione 
                  alla prima edizione della sua storia (17), 
                  che rappresenta, a mio giudizio, una straordinaria prosa stilisticamente 
                  significativa oltre che contenutisticamente qualificata. 
                  Per Foucault è necessario fare la storia di quella forma 
                  di follia «per mezzo della quale gli uomini, nel gesto 
                  di sovrana ragione che chiude il prossimo in manicomio, comunicano 
                  e si riconoscono attraverso il linguaggio spietato della non-follia» 
                  (18). Raggiungere una sorta di grado zero 
                  della storia della follia, quando è ancora esperienza 
                  indifferenziata e quindi esperienza non ancora scissa della 
                  scrittura stessa. Per fare questo però, continua il nostro 
                  autore, è necessario rinunciare alla comodità 
                  delle verità terminali e non lasciarsi mai guidare da 
                  quello che noi possiamo sapere della follia. Ecco perché 
                  troviamo in questa opera una quantità di fonti pluridisciplinari, 
                  ecco perché le espressioni artistiche in vario modo declinate, 
                  trovano nel ragionamento di Foucault, così ampio spazio. 
                  
                  Un classico dell’antipsichiatria 
                L’uomo moderno, dice Foucault, non comunica più 
                  col folle. Da un lato l’uomo di ragione ha delegato il 
                  medico attraverso l’universalità astratta della 
                  malattia, dall’altro c’è il folle che comunica 
                  solo l’intermediario di una ragione (altrettanto astratta) 
                  fatta di ordine, conformità, costrizione, pressione. 
                  Insomma non c’è più un linguaggio comune 
                  perché la definizione-costituzione della follia come 
                  malattia mentale, alla fine del settecento, certifica la rottura 
                  del dialogo, facendo sprofondare nell’oblio le parole 
                  «imperfette», attraverso le quali si realizzava 
                  l’incontro tra ragione e follia. 
                  Invece, scrive Foucault, «bisognerebbe dunque tendere 
                  l’orecchio, chinarsi verso questo borbottio del mondo, 
                  cercare di scorgere tante immagini che non sono mai state poesia, 
                  tanti fantasmi che non hanno mai raggiunto i colori della veglia» 
                  (19). Egli ci ricorda come per secoli invece 
                  la parola del folle «o non era intesa, oppure, se lo era, 
                  veniva ascoltata come una parola di verità» (20). 
                  Questo ascolto realizza il filosofo francese nella sua opera 
                  quando ricorre all’arte di Bosch, di Brueghel, al teatro 
                  di Artaud, alla letteratura di Cervantes e di Shakespeare, alla 
                  filosofia di Sade e di Nietrzsche (solo per citare alcune delle 
                  fonti), per dare voce a tutto ciò. Anche in questo aspetto 
                  sta la novità della scrittura e della ricerca archeologica 
                  intorno a questa straordinaria genealogia della follia. 
                  Foucault subisce una vera e propria fascinazione davanti al 
                  tragico della pittura di un artista come Bosch. Ma nella sua 
                  concezione «la pittura non è disvelamento ontico, 
                  la terra non sorge nell’opera, l’opera non rivela 
                  l’essere istituito nell’ente o un’origine, 
                  ma ripete sempre più oscuramente attraverso la storia 
                  il tragico di un’esperienza del limite, del vuoto, della 
                  morte, l’opera aggroviglia i segni di questo invisibile 
                  troppo visibile» (21).  
                  Il suo scopo è rendere conto della follia come esperienza 
                  e non come sintomo.  
                  L’opera Storia della follia nell’età 
                  classica si presenta come una sorta di antistoria della 
                  psichiatria per poi essere considerata come un classico dell’antipsichiatria 
                  (22). Foucault rifiuta una visione da conquistatrice 
                  della psichiatria perché, a suo giudizio, la follia non 
                  costituisce, in primis, un oggetto medico ma, piuttosto, 
                  una decisione culturale complessiva, «un modo di definirsi 
                  come uomini di ragione, rigettando i folli dall’altra 
                  parte della separazione… È il contrario rispetto 
                  alla storia tradizionale della psichiatria, che fa apparire 
                  l’oggettivazione medica come liberatrice. Alla radice 
                  del nostro rapporto con la follia, c’è piuttosto 
                  un gesto di separazione, una maniera di escludere l’altro 
                  per liberarci della sua ossessione e per poterci definire all’interno 
                  di una integrità culturale determinata» (23). 
                  In questo monumentale lavoro sulla follia Foucault ci accompagna 
                  attraverso la mutazione di significati che la malattia mentale 
                  attraversa nel corso della storia moderna e getta le basi per 
                  una ricerca a tutto campo anche nella contemporaneità 
                  (post-modernità?). 
                  Nel Rinascimento infatti prevale, secondo il filosofo francese, 
                  un’esperienza cosmica della follia. Questa condizione 
                  di erranza fondamentale, ben evidenziata dall’opera di 
                  Bosch La nave dei folli, provoca il timore del caos, 
                  anche dietro ad apparenze regolate, la minaccia della distruzione 
                  del mondo, ogni angoscia dell’esistenza (24). 
                  Alla fine del settecento e nei primi anni dell’ottocento, 
                  l’alienista francese Philippe Pinel (1745-1826) avrebbe 
                  scoperto che i folli, considerati dei criminali, delle bestie 
                  selvagge o esseri posseduti dal demonio, erano in realtà 
                  degli malati, ed era quindi necessario trattarli con umanità 
                  e dolcezza, dentro quadri clinici via via più precisi 
                  e puntuali. In mezzo tra questi due poli storici, Foucault descrive 
                  una storia che va dal momento del grande internamento dell’Hôpital 
                  général (assieme ai vagabondi, ai blasfemi, 
                  ai libertini, ecc.), alla nascita del manicomio, che libera 
                  i folli dalle catene, ma li irrigimenta nella moderna psichiatria. 
                  Il folle dopo essere stato un personaggio inquietante, diviene 
                  un problema di natura sociale, per approdare infine alla condizione 
                  di malato. 
                  Ad annunciare questa esperienza moderna della follia ecco, nel 
                  testo di Foucault, citata l’opera di Diderot Il nipote 
                  di Rameau, nella quale è evidente questa trasformazione: 
                  «lui che sapeva imitare tutto, i canti della natura e 
                  i contegni del bel mondo, lui che conosceva tutte le lingue 
                  e non era più nessuno a forza di essere tutti, ma lui 
                  che allo stesso tempo, alla fine della sua pagliacciata, si 
                  ritrovava solo e recluso, con un sorriso vuoto» (25). 
                  Rameau mostra questo ventaglio di possibilità andando 
                  da una soggettività completamente sguarnita a una oggettività 
                  tremolante fatta di apparenze: «Cento buffoni come me! 
                  Signor filosofo, non sono così comuni. Sì, dei 
                  buffoni banali. Si è più esigenti in materia di 
                  idiozie che in materia d’ingegno o di virtù. Io 
                  sono raro nella mia specie, sì, molto raro. Ora che non 
                  mi hanno più. Che cosa fanno? Si annoiano come cani. 
                  Io sono un sacco inesauribile di impertinenze. In ogni momento 
                  avevo una battuta che li faceva ridere fino alle lacrime; ero, 
                  per loro, un manicomio al completo» (26). 
                  Queste tre grandi visioni della follia sono sempre, per Foucault, 
                  colte e penetrate a partire da opere artistiche e letterarie, 
                  perché non si tratta, a suo giudizio, di conoscere la 
                  follia quanto, piuttosto, di comprendere in virtù di 
                  quale esperienza questa follia sia divenuta oggetto di conoscenza. 
                  La sua Storia della follia è una requisitoria 
                  contro la razionalità scientifica che pretende di esaurire 
                  l’essere della follia. 
                  
                  Francesco Codello 
                Note
                 
                  - Cfr.: Michel Foucault, Il potere psichiatrico, 
                    Milano, Feltrinelli, 2010. 
                  
 - Cfr.: Michel Foucault, Storia della follia nell’età 
                    classica, trad. it. F. Ferrucci – E. Renzi – 
                    V. Vezzoli – M. Galzigna – B. Catini – D. 
                    Borca, Milano, BUR Rizzoli, 2011. 
                  
 - Ibidem, pag. 5. 
                  
 - Cfr.: Mario Galzigna, La malattia morale, Venezia, 
                    Marsilio, 1988. Di prossima ripubblicazione per le edizioni 
                    Mimesis. 
                  
 - Cfr.: Jean-Paul Sartre, Critica della ragione dialettica, 
                    I, Milano, Il Saggiatore, 1963. 
                  
 - Mario Galzigna, Introduzione, in: Michel Foucault, 
                    Storia della follia…, cit., pag. 8. 
                  
 - Ibidem., pag. 9. 
                  
 - Ibidem, pag. 10. 
                  
 - Ibidem, pag. 12. 
                  
 - Ibidem, pag. 13. 
                  
 - Georges Canguilhem, Il normale e il patologico, 
                    Torino, Einaudi, 1998, pag. 11. 
                  
 - Michel Foucault, La vita: l’esperienza e la scienza, 
                    in: Georges Canguilhelm, Il normale e il patologico, 
                    cit., pag. 282. 
                  
 - Cfr.: Michel Foucault, Non esiste cultura senza follia 
                    (1961), ora in: Aut aut, n. 351 del luglio-settembre 2011, 
                    Milano, Il Saggiatore, 2011. 
                  
 - Ibidem, pag. 7. 
                  
 - Archeologia proprio perché si tratta infatti di scavare, 
                    di scoprire strati profondi sotto la superficie degli enunciati 
                    e delle istituzioni. 
                  
 - Cfr.: Mario Galzigna, La malattia morale, op. cit. 
                  
 - Grazie all’edizione del 2011 curata da Galzigna, noi 
                    oggi possiamo leggere, per la prima volta in lingua italiana, 
                    questa straordinaria prefazione che non era più comparsa 
                    nelle varie edizioni francesi. 
                  
 - Michel Foucault, Storia della follia… , cit., 
                    pag. 41. 
                  
 - Michel Foucault, Storia della follia… , cit., 
                    pag. 47. 
                  
 - Id., L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 
                    1972, pag. 11. 
                  
 - Daniel Defert, L’altra scena della pittura, 
                    in: Aut-aut, cit., pag. 21. 
                  
 - Su concetto e sulla storia dell’antipsichiatria e 
                    sulla posizione di Foucault rispetto a questo tema vedi: Michel 
                    Foucault, Storia della follia e antipsichiatria (1973), 
                    in: Aut-aut, cit. pagg. 91-107. Vedi inoltre Roland Laing, 
                    L’io diviso, Torino, Einaudi, 1969; Erving 
                    Goffman, Asylums, Torino, Einaudi, 1978; Franco Basaglia, 
                    L’istituzione negata, Torino, Einaudi, 1968; 
                    Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, La maggioranza 
                    deviante, Torino, Einaudi, 1971; David Cooper, La 
                    morte della famiglia, Torino, Einaudi, 1972; Thomas S. 
                    Szasz, Disumanizzazione dell’uomo. Ideologia e psichiatria, 
                    Milano, Feltrinelli, 1974. 
                  
 - Frédéric Gros, Nota sulla “Storia 
                    della follia”, in: Aut-aut, cit., pagg. 10-11. 
                  
 - Per una lettura della follia invece nell’antichità 
                    greca, e quindi alle origini della medicina occidentale, si 
                    può leggere il bel saggio di Giulio Guidorizzi, Ai 
                    confini dell’anima. I Greci e la follia, Milano, 
                    Raffaello Cortina, 2010. 
                  
 - Frédéric Gros, Note… , cit., 
                    pag. 15. 
                  
 - Denis Diderot, Il nipote di Rameau, Milano, Garzanti, 
                    2000, pag. 55.
  
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