Petros Markaris, il più 
                    noto autore greco di romanzi gialli, è attualmente 
                    impegnato in una impresa piuttosto ambiziosa: sta lavorando 
                    a una “trilogia della crisi” nella quale intende 
                    riferire della situazione economica e sociale del suo paese 
                    sotto la specie del romanzo criminale. 
                    Nel primo volume, Lixipròsthema Dhàneia 
                    (Prestiti scaduti, 2010) si riferisce dell’attività 
                    di un insolito serial killer, che prende a bersaglio banchieri, 
                    finanzieri e funzionari delle agenzie di rating. I corpi di 
                    costoro sono rinvenuti decapitati a colpi di scimitarra e 
                    tutto fa supporre che l’assassino, considerandoli responsabili 
                    dell’attuale situazione del paese, si sia assunto l’incarico 
                    di impartir loro la più plateale delle punizioni. Come 
                    se non bastasse, ci sono dei malintenzionati che diffondono 
                    per la città volantini e autoadesivi con cui si invitano 
                    i cittadini a non pagare i loro debiti alle banche, e, forse, 
                    delle due fattispecie di reato, quella che più preoccupa 
                    i pezzi grossi è la seconda, anche se il commissario 
                    Charitos, naturalmente, non perde mai il senso delle priorità. 
                    
                    Nel secondo romanzo della serie, Pereosi (vuol dire 
                    qualcosa come “adempimento”, “realizzazione”, 
                    ma anche “conclusione”, è uscito lo scorso 
                    ottobre e lo sto leggendo con diletto in questi giorni), la 
                    prima vittima è un evasore fiscale: un medico di grido 
                    che, nonostante le entrate della lussuosa clinica privata 
                    in cui opera, le onerose parcelle che impone ai pazienti e 
                    un treno di vita che gli permette di mantenere ben due ville, 
                    una in città e una alle Cicladi, nonché una 
                    collezione di quadri di grande valore, riesce a dichiarare 
                    una minima frazione del suo reddito e a pagarci delle tasse 
                    risibili. O almeno ci riuscirebbe, se non incappasse anche 
                    lui in un misterioso giustiziere – uno che, figuratevi, 
                    si fa chiamare “l’esattore del popolo” – 
                    che prima lo invita via Internet a regolarizzare la sua posizione 
                    fiscale e poi, evidentemente, passa all’azione, con 
                    il risultato che il cadavere del contribuente infedele viene 
                    rinvenuto nel sito archeologico del Ceramico, steso con una 
                    iniezione di cicuta.
                  
                  
 Crisi mondiale
                  Ora, non sono abbastanza avanti nella lettura per sapervi 
                    dire se questo omicidio sia il primo di una serie, come nell’opera 
                    precedente, o se l’intera vicenda verta sul singolo 
                    caso e, se lo sapessi, comunque non ve lo direi, visto che 
                    è buona norma di chi si occupa di gialli non anticipare 
                    mai gli sviluppi della trama, ma è evidente che l’immaginazione 
                    sociale in Grecia, almeno come la interpreta Markaris (il 
                    cui romanzo, in pochi mesi, ha già avuto otto edizioni) 
                    è di tipo alquanto sanguinario. In questa Atene spettrale, 
                    in cui non c’è praticamente più traffico 
                    per le strade, salvi gli addensamenti dovuti ai blocchi degli 
                    scioperanti, metà dei negozi hanno le serrande abbassate, 
                    l’unico argomento di conversazione in famiglia e sul 
                    posto di lavoro (compreso il commissariato) riguarda i tagli 
                    dello stipendio e delle altre forme di reddito e le anziane 
                    pensionate che vivono sole non hanno altra alternativa all’inedia 
                    che il suicidio di gruppo, in questa città che non 
                    è che l’ombra di quella che, appena otto anni 
                    fa, presentava orgogliosa al mondo la perfetta organizzazione 
                    delle sue Olimpiadi, si direbbe diffusa la convinzione per 
                    cui le responsabilità del disastro vanno attribuite 
                    senza esitazione a una classe dirigente e imprenditoriale 
                    che altro non merita che la più severa delle punizioni.
                    È probabile, anzi, è sicuro che l’analisi 
                    sia troppo semplicistica. La crisi ha una dimensione mondiale 
                    ed europea e i meccanismi che l’innescano non sono limitati 
                    ai ceti superiori. Charitos e i suoi colleghi sanno benissimo 
                    che se si volesse colpire a morte tutti coloro che evadono 
                    o eludono il fisco la strage sarebbe di massa e quanto alle 
                    responsabilità dei banchieri e degli operatori finanziari, 
                    in Grecia non saranno diverse che altrove. Tuttavia è 
                    vero che in quel paese, storicamente, a una popolazione particolarmente 
                    operosa e frugale si è spesso contrapposta una borghesia 
                    parassitaria e vorace, che ha intercettato e sperperato la 
                    maggior parte delle risorse disponibili, preferendo destinarle 
                    ai propri consumi piuttosto che investirle nello sviluppo 
                    comune e che a questa mancanza di equilibrio può essere 
                    imputata la fragilità dell’effimero benessere 
                    di cui la Grecia ha goduto negli ultimi anni. Ed è 
                    vero, più in generale, che a una condizione di maggior 
                    privilegio dovrebbero corrispondere responsabilità 
                    maggiori, per cui i cittadini vessati hanno tutto il diritto 
                    di imputare ai ceti abbienti quello che, nella comune disgrazia, 
                    sembra un comportamento particolarmente deplorevole. Certo, 
                    l’equilibrio non si ristabilisce con le scimitarre né 
                    con le iniezioni di cicuta (anche se le particolari caratteristiche 
                    della loro storia sociale hanno lasciato in eredità 
                    ai greci una certa qual asprezza nello scontro di classe), 
                    ma stiamo parlando di romanzi, anzi, di romanzi gialli, non 
                    di trattati di sociologia o di programmi politici.
                  
                  
 La ricetta è la stessa
                  In Italia, dove si scrivono, ahimè, molti più gialli che in Grecia, nessuno scrittore, che io sappia, ha mai impostato la propria opera su queste tematiche. Nessuno, d’altronde, si è mai sognato di attribuire le responsabilità della crisi, che non riguarda, notoriamente, soltanto il popolo ellenico, al ceto dirigente, agli operatori finanziari o, semplicemente, ai ricchi. La diagnosi più diffusa, a giudicare da quanto si legge e si ascolta, tende a ribaltare il concetto: non siamo nei guai perché chi sta in alto ha lucrato e sperperato, ma perché chi sta in basso (i lavoratori, in buona sostanza) tende a restare abbarbicato a privilegi e garanzie ormai fuori dal tempo e l’unico modo per salvare l’amata patria dal fallimento – o, come più modernamente si dice, dal default – è quello di riportare quei riottosi a condizioni più sostenibili, di fargli abbassare la cresta facilitando i licenziamenti, allontanando all’infinito le pensioni, rendendo più produttivo il lavoro (che poi vuol dire aumentare lo sfruttamento). La ricetta, in definitiva, è la stessa che è stata applicata e ancora si vuole applicare alla Grecia, con il rischio, ben concreto, di spezzarle definitivamente le reni, solo che da noi neanche a cercarlo con il lanternino si troverà non dico un politico, ma solo un autore di romanzi disposto a sottolineare le colpe di chi da sempre ha diretto e tuttora dirige il paese e il suo sistema produttivo e solo fino a pochi mesi fa assicurava a una società praticamente sull’orlo del baratro che tutto andava benissimo. Perché, anche se il fenomeno, come dicevamo prima, non si esaurisce entro i confini di una singola nazione, c’è crisi e crisi a seconda di come le varie società la percepiscono: se come spinta al rinnovamento e al capovolgimento delle gerarchie o come conferma dell’inamovibilità del sistema vigente. Che è appunto la via che la classe dirigente italiana, di destra e di sinistra, ha entusiasticamente imboccato e se ne capisce anche il motivo, ma noi, scusate, perché mai dovremmo seguirla?