|     Il 
                  2012 
                  come il 1936 
                Nel 1933 il presidente degli Stati Uniti d’America Theodore 
                  Roosvelt si trovò a dover fronteggiare una crisi disastrosa, 
                  conseguenza diretta del crollo del ’29. Furono anni difficili 
                  per l’America e, per la prima volta, occuparsi di letteratura 
                  implicò per molti scrittori un impegno sociale fino a 
                  quel momento sconosciuto. A questa nuova generazione di scrittori 
                  apparteneva Steinbeck, che in questo romanzo del 1936, narra 
                  la storia di uno sciopero di braccianti, del suo fallimento 
                  e di uomini che trasformano la propria disperazione in lotta 
                  per il riconoscimento dei propri diritti fondamentali. La 
                  battaglia è un romanzo di lotte sindacali. 
                Potrete leggere passaggi come questi: 
                  - V’è capitato mai di lavorare (…) dove 
                    tutti parlano di lealtà verso la propria azienda, e 
                    lealtà vuol dire spionaggio dei propri dipendenti? 
                  
 - Niente come la lotta unisce gli uomini tra loro.
                  
 - Gli imbecilli credono che si possono domare gli scioperi 
                  coi soldati.
                  
 - Non fatene una regola, perché spesso crolla, 
                  ma di solito quando qualcuno cerca di spaventarvi è segno 
                  che ha paura.
                  
 - Non c’è altro mezzo per fare che gli uomini 
                  aderiscano a un movimento, se non quello di ottenere che ognuno 
                  vi porti qualcosa di sé.
                  
 - Non potete svegliare che chi vuole essere svegliato.
                  
 - Quando i sentimenti sono maturi, si può lottare 
                  per qualunque cosa.
                  
 - Uno vede come vanno le cose, l’ingiustizia e la 
                  miseria, e se ha un dito di cervello tira le sue conclusioni.
                  
 - Non credo nulla finché non ho visto.
                  
 - (…) tutto sembra difficile quando si è 
                  stanchi.
                  
 - (…) gli uomini sospettano di chi non parla come 
                  loro.
                  
 - Un uomo in gruppo non è più se stesso; 
                  è la cellula di un organismo, che non è lui come 
                  le cellule del vostro corpo non sono voi.
                  
 - (…) parlare rende più chiaro il proprio 
                  pensiero anche se nessuno ascolta.
                  
 - Ho pensato di parlare a costoro e farli parlare; fargli 
                  dire che pensano dello sciopero. Credo che la pensino come i 
                  padroni hanno ordinato di pensare.
                  
 - Gli uomini cambiano molto dopo aver mangiato.
                  
 - Gli piace d’esser crudeli, di picchiare, e per 
                  questi loro gusti han sempre un nome pronto, patriottismo o 
                  difesa della costituzione.
                  
 - Quando una folla non fa rumore, quando viene avanti 
                  come un sonnambulo allora è tempo di battersela per una 
                  guardia.
                  
 - Qualcuno ha da schiattare se si vuole che la massa esca 
                  una buona volta da questo scannatoio.
                  
 - Credo che a volte voi realisti siate la gente più 
                  sentimentale di questo mondo.
                  
 - Talvolta quando la gente non ne può più, 
                  è allora che si batte meglio.
                  
 - C’è qualcuno che spera di salvarsi da sé, 
                  ma non è possibile se non si salvano tutti.
                  
 - Nulla da perdere all’infuori delle catene.
                  
 - (…) odiamo il capitale investito che ci tiene 
                  schiavi.
                  
 - Si è un po’ stufi di uno che ha sempre 
                  ragione.
                  
 - Non abbiamo armi. Se qualcosa ci capita non lo mettono 
                  sui giornali. Ma se succede qualcosa a loro, giù fiumi 
                  d’inchiostro. Non abbiamo né denaro né armi, 
                  così dobbiamo servirci della nostra testa, vedete? È 
                  come un uomo con un bastone che debba far fronte a una squadra 
                  di fucilieri. La sola cosa che può fare è quella 
                  di nascondersi e poi colpirli alle spalle. Forse non è 
                  molto leale, ma (…) non siamo in una gara atletica.
                  
 - (…) un uomo affamato non è tenuto alle 
                  regole.
                  
 - (…) la gente lavora bene insieme quando c’è 
                  un nemico.
                  
 - Se lottiamo, altra gente nelle nostre condizioni lotterà.
                  
 - (…) per molti la proprietà è più 
                  importante della vita stessa.
  
                Volete capire qualcosa di più di questo libro? Allora 
                  sappiate che nel 1936 – anno di uscita del romanzo – 
                  l’America è ancora un paese di nomadi disoccupati; 
                  gli uomini in cerca di lavoro si spostano da un centro all’altro 
                  saltando in corsa da e su i treni merci per non pagare il biglietto, 
                  sfidando i bastoni delle guardie ferroviarie; le famiglie si 
                  muovono sui camion Ford; la crisi non frena il flusso migratorio 
                  verso le città. A rileggere ai nostri giorni La battaglia, 
                  ci pare difficile non ammetterne ancora una volta la forza d’urto, 
                  la capacità di coinvolgimento e, soprattutto, l’estrema 
                  attualità. Oggi 2012 ancor meglio dell’altrieri, 
                  1936.   
                                                
                
                   
                 
                 La 
                  questione del modello 
                  gerarchico 
                Il nome dell’autore del libro Il mondo degli psicoanalisti 
                  (Liguori Editore, Napoli 2011, pagg. 257, euro 19,90) può 
                  suscitare un certo déjà-vu ai vecchi lettori di 
                  “A.” Infatti Giorgio Meneguz ha scritto diversi 
                  articoli per la rivista tra il 1981 e il 1984 – quasi 
                  tutti imperniati sul tema della psichiatria.  
                  Dopo aver lavorato per dieci anni in fabbrica come operaio e 
                  dieci in un servizio pubblico di psichiatria, si occupa ora, 
                  da oltre vent’anni, di psicoterapia e, più recentemente, 
                  anche di insegnamento post-universitario. Il suo primo libro 
                  Psicoanalisi ed etica indagava – tenendo il passo 
                  di una critica storico-sociale – le dimensioni del potere, 
                  del denaro, dei valori e della coscienza morale all’interno 
                  della psicoanalisi.  
                  Nell’articolo “La psicoanalisi dello Zeitgeist 
                  aderente alla prospettiva postmoderna” (2003), pubblicato 
                  su Psicoterapia e scienze umane, Meneguz scrive: «La 
                  tentazione [di alcuni psicoanalisti] di identificare la posizione 
                  anti-autoritaria postmoderna con l’anarchismo teorico 
                  (alcuni accostano Rorty a Castoriadis) si scontra col fatto 
                  che neppure gli anarchici più refrattari, come per esempio 
                  Proudhon, Bakunin, Reclus, Kropotkin rifiutavano l’autorità 
                  in sé e per sé e neppure rifiutavano l’organizzazione 
                  (es. Bakunin, 1882, Dio e lo Stato, p. 52). Distinguendo 
                  l’autorità “naturale” dall’autorità 
                  “artificiale”, gli anarchici criticano il modello 
                  gerarchico di organizzazione delle relazioni umane, ma non concordano 
                  con l’idea secondo cui una società non debba darsi 
                  una organizzazione e delle leggi». La questione del modello 
                  gerarchico di organizzazione viene ora criticamente indagata 
                  da Meneguz nel libro Il mondo degli psicoanalisti, 
                  soprattutto in merito alle ricadute della formazione professionale 
                  sulla qualità dei rapporti tra colleghi.  
                  Utilizzando molti racconti presi dalla storia della psicoanalisi, 
                  l’autore problematizza le insidie autoritarie e mistiche 
                  presenti nella dimensione maestro/allievo e il ruolo distruttivo 
                  dell’istituzione gerarchica sulla creatività e 
                  sulla crescita professionale degli apprendisti. E critica con 
                  fermezza l’idealizzazione (della psicoanalisi, dei padri 
                  costituenti della psicoanalisi, dei maestri attuali, ecc.), 
                  processo psicologico e interpersonale che porta alla dipendenza 
                  infantile. È importante che un “maestro” 
                  (in psicoanalisi, “maestro” in relazione all’allievo 
                  significa: “il proprio analista”, “il supervisore” 
                  o “il docente”) sia consapevole che i ruoli reciproci, 
                  di maestro e allievo, dipendono da una semplice coincidenza, 
                  perché se nello studio di psicoanalisi o nella scuola 
                  di formazione alla psicoterapia quelli sono i ruoli, in un altro 
                  contesto il “maestro” sarà allievo di un 
                  maestro e, in un altro ancora, l’allievo, il paziente, 
                  potrà essere maestro del suo “maestro”.  
                  La questione è complicata e nel libro Il mondo degli 
                  psicoanalisti qualche piega viene spianata, a partire da 
                  riflessioni sul ruolo che svolgono il contesto storico e socioeconomico, 
                  la “vocazione” professionale, il talento, il training 
                  per diventare psicoanalista, i rapporti tra colleghi sia a livello 
                  orizzontale che verticale. Il libro esplora i modi in cui un’istituzione 
                  amministra e trasmette l’eredità dei padri fondatori 
                  e gestisce il bisogno di sapere e di appartenenza degli studenti. 
                   
                  Queste modalità sembrano a me – operatore in psichiatria 
                  – cruciali affinché uno psicoterapeuta, grazie 
                  a una buona formazione professionale, sappia gestire i rischi 
                  di derive autoritarie e patologiche nello svolgimento del suo 
                  lavoro con i suoi pazienti e nel rapporto di collaborazione 
                  con i colleghi. Ma è anche, Il mondo degli psicoanalisti, 
                  un libro sulla storia della psicoanalisi senz’altro utile 
                  agli studenti e agli appassionati dell’argomento. Le molte 
                  storielle raccontate stimolano il desiderio di approfondire 
                  alcuni argomenti.  
                  Il libro è di facile e piacevole lettura, anche se in 
                  certi passaggi è forse troppo verboso per i miei gusti. 
                  Probabilmente susciterà discussioni anche in ambiti estranei 
                  alla psicoanalisi: fa pensare molto (anche lettori che non lavorano 
                  come psicoterapeuti: il sottoscritto per esempio) perché 
                  procede per problemi e non per risposte preconfezionate. 
                  
                  Paolo De Piccoli                 
                   
                                 
                 Un 
                  sindacato 
                  orizzontale 
                 
                I pirati «credono di essere paria e invece sono gli embrioni 
                  della società a venire», del nuovo capitalismo. 
                  Così Valerio Evangelisti nel romanzo «Tortuga» 
                  dove un protagonista invita a evitare le ipocrisie: «Vogliamo 
                  denaro, fuori da ogni regola. Arraffiamo di tutto e vendiamo 
                  di tutto, uomini inclusi. Noi siamo il futuro e nessuno ci fermerà». 
                  Facciamo un salto nel tempo e nello spazio – dal 1685 
                  al 1900, dai Caraibi agli Stati Uniti – per ascoltare 
                  Eddie Florio, gangster italo-americano in «Noi saremo 
                  tutto», sempre di Evangelisti: «I gangster 
                  fanno parte del gruppo che comanda (…) Erano forti prima, 
                  lo saranno dopo. Cambierà un poco la nomenclatura, questo 
                  sì. Ma sono un tassello del potere». 
                  Un piccolo salto indietro e Valerio Evangelisti ci porta, sempre 
                  negli Usa, tra il 1877 e il 1919. Degno compare dei pirati e 
                  dei gangster, tassello del potere, è Robert William Coates, 
                  detto Bob: una vita da spia, da infiltrato, da provocatore con 
                  occasionali ruoli di picchiatore e sparatore o di capoccia delle 
                  squadracce anti-rossi. Siamo nel nuovo romanzo di Evangelisti, 
                  il bellissimo e doloroso One Big Union (Mondadori, 
                  Milano 2011, pagg. 440, e 18,50).  
                  Robert William Coates inizia la carriera di “uomo ombra” 
                  a 14 anni, facendosi reclutare per dare una lezione ai sovversivi 
                  della Comune di Saint Louis, nel 1877, per finire – da 
                  assassino e torturatore – nel 1919: un personaggio ricalcato 
                  sul vero Coates come Evangelisti spiega, nelle ultime pagine. 
                  Traditore della sua classe, essendo il figlio di un operaio 
                  irlandese immigrato negli Usa. Non lo fa solo per denaro, a 
                  suo modo è sincero: si crede un «soldato dell’esercito 
                  del bene». Poche idee ma esitazioni zero: gli operai sono 
                  fannulloni anzi «sfaticati di professione, senzadio, sovversivi, 
                  accattoni nati» (come scrive la sorella di Coates, giornalista 
                  filo-padroni); se si vietasse il lavoro minorile sarebbe una 
                  tragedia nazionale; bisogna «attenersi all’ordine 
                  cristiano del mondo, al rispetto della proprietà privata» 
                  se occorre ingannando e violando le leggi; per la «feccia», 
                  la «mandria umana» (cinesi, slavi, negracci, ungheresi, 
                  scandinavi, tedeschi e «dagos» cioè italiani, 
                  una razza dannata) ci vogliono «legnate» o peggio; 
                  se in acciaieria «muore in media un operaio al mese e 
                  moltissimi restano feriti» (o si ammalano) è una 
                  ineluttabile fatalità; e se i padroni vogliono licenziare, 
                  abbassare i salari, fare trattenute per le parrocchie, pagare 
                  in buoni da spendere solamente nei loro spacci, vietare le rappresentanze 
                  dei lavoratori... sono nel loro pieno diritto.  
                  Traditore in buona fede. Infatti quando Coates spia o bastona 
                  è convinto di lavorare per l’America e anzitutto 
                  per moglie e figli, da bravo cristiano. «In fondo la famiglia 
                  era una società in formato piccolo» e se la giovane 
                  donna che lui ha sposato si ribella va picchiata («come 
                  spesso il pastore raccomandava ai mariti») anzi – 
                  così riflette – «sarebbe stata un’estensione 
                  domestica del suo mestiere quotidiano». Un tanto buon 
                  figlio di Dio non avrà amori felici (muore la prima moglie, 
                  scappa la seconda). Quanto ai due figli, così diversi 
                  per carattere ed esiti, sono destinati male. Ma anche se questo 
                  non è un giallo sarebbe scorretto rivelare troppo. 
                  Le infamie di Coates servono a Evangelisti per raccontare dall’interno 
                  il movimento sindacale negli Usa: dal Workingmen’s Party 
                  ai Knights of Labo, dall’Afl (American Federation of Labor) 
                  all’American Railway Union. Difendono sì i lavoratori 
                  ma in un’ottica limitatissima: sindacati di mestiere, 
                  tendenti al corporativo, attenti al dialogo con i padroni, nazionalisti 
                  e razzisti, convinti che il modello americano dia una possibilità 
                  a tutti e dunque sia giusta, organizzazioni burocratiche e verticali. 
                  Nel 1905 il quadro cambia: nasce il sindacato “orizzontale”, 
                  l’Iww (Industrial Workers of the World) che crede nella 
                  «one big union», un solo grande sindacato senza 
                  distinzioni di razza o mansioni, per organizzare anche le donne 
                  e gli immigrati, i precari e i braccianti, persino la massa 
                  di vagabondi – gli hobos – che si muovono clandestini 
                  sui treni e vivono di espedienti.  
                  Il romanzo racconta vittorie e sconfitte del periodo 1877-1919: 
                  la battaglia di Homestead; lo scontro alla Pullman con il boicottaggio 
                  e i figli degli scioperanti “adottati” temporaneamente 
                  dai lavoratori di altre città; Spokane e la battaglia 
                  durissima per «la libertà di parola»; Lawrence; 
                  lo sciopero di Ludlow stroncato a colpi di mitragliatrice; il 
                  soviet di Seattle nel 1919... Quasi sempre gli attacchi armati 
                  di squadracce (o di “crumiri” reclutati per l’occasione 
                  fra i peggiori criminali) contro i lavoratori servono da pretesto 
                  per spianare la strada alle polizie, agli sceriffi o addirittura 
                  alla Guardia nazionale invocato a gran voce dai giornali e dalle 
                  Chiese (ma c’è anche qualche prete sovversivo e 
                  nel romanzo ne incroceremo). E’ questa la democrazia? 
                  Sì, «in sostanza una catena di interessi» 
                  enuncia candidamente Burns allo “scolaretto” Coates. 
                  «Al momento decisivo lo Stato è sempre dall’altra 
                  parte», con i padroni che – spiegano gli Iww – 
                  si comprano quasi tutti i giornali e i giudici. 
                  Nel suo lungo viaggio lo spione Coates incontra Joseph Gould 
                  (celebre la sua frase: «Io posso assoldare metà 
                  della classe operaia perché faccia fuori l’altra 
                  metà»), Joseph Buchanan, Eugene Debs, Daniel De 
                  Leon, Bertha Thompson, gli sbirri di Pinkerton (fra loro il 
                  giovane Dashiell Hammett che diventerà un grande scrittore 
                  e un “rosso”), l’anarchica Emma Goldman, Ben 
                  Reitman, Alice Freeman Palmer («fautrice dell’accesso 
                  femminile agli studi»), John Reed ma soprattutto Mamma 
                  Jones, «Big Bill» Haywood, la nera Lucy Parsons, 
                  Charles Moyer, George Pettibone, il boscaiolo Frank Little, 
                  Vincent Saint John, Elizabeth Gurley Flynn, l’italiano 
                  Joseph Ettor, Walter Nef... insomma l’anima degli Iww. 
                  E alcuni compagni di strada come Upton Sinclair o Jack London. 
                  Come resistere alla violenza del capitale? Si può distruggere 
                  quel che c’è senza un chiaro programma politico 
                  per il futuro? I nodi che gli Iww tentano di sciogliere sono 
                  antichi (e moderni). Meglio leggere Marx o addestrarsi con la 
                  dinamite? Si punta sul voto o sullo sciopero generale? Ci vogliono 
                  militanti professionali o semplici ribelli? Se le canzoni di 
                  Joe Hill invitano al sabotaggio poi va bene anche «il 
                  gallo rosso» cioè la violenza incendiaria? E’ 
                  utile che gli immigrati si organizzino per gruppi nazionali 
                  o devono riconoscersi come senza patria? E ancora: per opporsi 
                  agli assalti armati bisogna non essere inermi ma questa auto-difesa 
                  facilita e moltiplica le provocazioni? 
                  Non bisogna esagerare nel trovare le similitudini fra vicende 
                  di 100 anni fa e quelle di oggi. Certo il giochino dell’unità 
                  nazionale davanti alla “crisi” o le comode definizioni 
                  di guerra «umanitaria» somigliano moltissimo alla 
                  cronaca. «Il padrone peggiore è quello che si dice 
                  vostro amico. E’ chi parla di comune interesse, di crescita 
                  collettiva, di collaborazione per il bene nazionale»: 
                  questa la convinzione dei wobblies, cioè degli Iww. Dar 
                  loro torto è impossibile. E’ evidente la simpatia 
                  di Evangelisti, anche se non ne nasconde le divisioni e gli 
                  errori. 
                  Sconfitte durissime ma anche vittorie storiche (le 8 ore). C’è 
                  molto da imparare. E qualcosa insegnano anche gli eroi negativi 
                  come Coates. Chi ai giorni nostri continua il lavoro di pirati, 
                  gangster e spioni è salito di rango, spesso si arrampica 
                  ai vertici del potere. Mentre oggi è in crisi la convinzione 
                  che «un torto fatto a uno è un torto fatto a tutti» 
                  come l’idea che chi lavora ha interessi comuni opposti 
                  a quelli di chi lo sfrutta. Ed è anche per questo che 
                  conoscere queste vicende storiche è importante quanto 
                  saper leggere, scrivere e far di conto. 
                  
                  Daniele Barbieri 
                   
               
                 La 
                  persecuzione nazista 
                  dei testimoni di Geova 
                Oggetto di alcune importanti ricerche monografiche in lingua 
                  inglese e tedesca, la persecuzione dei testimoni di Geova da 
                  parte dello Stato nazista ha incontrato, in Italia, scarso interesse 
                  tra gli storici. 
                  A colmare questa lacuna viene ora l’ottimo lavoro di Claudio 
                  Vercelli, autore di un testo interessante non solo per le informazioni 
                  che contiene, ma anche per gli interrogativi che pone: Triangoli 
                  Viola. La persecuzione e la deportazione dei testimoni di Geova 
                  nei Lager nazisti, Roma, Carocci, 2011, pp. 181, 19 
                  euro. 
                  Benché il protagonista, per così dire, di questo 
                  studio sia un gruppo religioso di impostazione teocratica che 
                  applica in maniera rigida, in alcuni casi al limite del fanatismo, 
                  insegnamenti che ritiene discendere da Dio – quanto di 
                  più lontano si possa pensare, va da sé, da una 
                  visione anarchica del mondo – in realtà quello 
                  di Vercelli è un libro che dovrebbe quantomeno incuriosire 
                  un libertario: riguarda, infatti, tra le altre cose, l’eterno 
                  rapporto dell’uomo con il potere, e in particolare dell’individuo 
                  moderno con Stato, per di più nella sua versione più 
                  cruda, criminale e liberticida, quella totalitaria. Più 
                  ancora, questa ricerca ha a che fare con la disobbedienza nei 
                  confronti di un potere che si reputa emanare delle norme ingiuste, 
                  e di essere anzi, costitutivamente, ingiusto in se stesso, letteralmente 
                  una manifestazione luciferina. Una disobbedienza condotta controcorrente, 
                  in mezzo a una società in larga parte convertita alla 
                  “religione” omicida di un moderno sciamano dotato 
                  di un irresistibile e sinistro fascino. Una resistenza non-violenta, 
                  quella dei testimoni, fortificata solo dalla propria coscienza 
                  e dalla solidarietà dei propri correligionari. 
                  Vercelli ripercorre le tappe di questa persecuzione, che si 
                  abbatté su un gruppo statisticamente poco significativo 
                  – all’epoca in cui Hitler ascese al potere i testimoni 
                  in Germania erano circa 25 mila, più o meno lo stesso 
                  numero dei rom e dei sinti, vale a dire lo 0,05 % della popolazione 
                  tedesca – e socialmente ed economicamente poco influente, 
                  dal momento che gran parte degli aderenti alla Confessione appartenevano 
                  ai ceti meno abbienti della società (operai, contadini, 
                  piccolo-borghesi). 
                  Perché i nazisti si accanirono contro i testimoni di 
                  Geova? Va considerato il fatto – spiega Vercelli – 
                  che la Confessione, in quanto manifestava una simpatia (su basi 
                  esclusivamente religiose) per il sionismo, aveva legami con 
                  gli Stati Uniti, dove il movimento era nato qualche decennio 
                  prima, venne ritenuta un gruppo politico che, sotto una copertura 
                  religiosa, appoggiava il piano con dominio del mondo degli Ebrei 
                  e fiancheggiava il bolscevismo (pp. 21-23).  
                  Benché i testimoni siano stati “l’unico gruppo 
                  religioso perseguitato come tale” (p. 127), in realtà 
                  la causa della persecuzione non fu la religione di per se stessa 
                  – i nazisti, benché portatori di una religione 
                  politica pagana, erano venuti facilmente a patti con i due gruppi 
                  cristiani maggioritari, la Chiesa cattolica e le confessioni 
                  protestanti – ma l’applicazione dei precetti religiosi 
                  nel concreto della vita quotidiana, che finiva per assumere, 
                  relativamente ai testimoni, un chiaro, sebbene del tutto involontario, 
                  significato politico sovversivo. Infatti, vivere seguendo Geova, 
                  per i testimoni, comportava, pacificamente ma altrettanto imperativamente, 
                  rifiutare di riconoscere la “religione” nazista, 
                  il culto idolatrico del suo sommo sacerdote, a partire da quell’atto 
                  di proskynesis, umiliante per un non-nazista, che era l’Hitlergruß 
                  (saluto a Hitler). Significava, poi, rifiutare di svolgere il 
                  servizio militare, atto passibile di morte durante la guerra, 
                  oppure di iscrivere i figli alla Hitlerjugend, la gioventù 
                  hitleriana a cui i giovani dovevano obbligatoriamente appartenere, 
                  oppure ancora iscriversi al sindacato di Stato.  
                  Questo insieme di gesti, espressione di un ordine simbolico 
                  del tutto contrario a quello nazista, e il proselitismo con 
                  cui i testimoni, tentando di diffondere il loro culto, finivano 
                  per incitare gli altri a commetterli, non potevano essere tollerati 
                  nello Stato nazista. Vercelli evidenzia come la persecuzione 
                  nazista dei testimoni possa essere suddivisa in tre fasi. In 
                  un primo tempo, il culto dei testimoni fu bandito a livello 
                  regionale e centrale (1933-34), e molti testimoni subirono aggressioni, 
                  pene detentive, confische di proprietà, licenziamenti 
                  dal lavoro. In un secondo momento, il nazismo, di fronte alla 
                  protervia della Confessione che a dispetto di tutti i divieti 
                  era riuscita a mantenere una struttura coesa e riusciva ancora 
                  a fare azione di proselitismo, aumentò la repressione 
                  negli anni 1935-37, nel “tentativo di distruggere fisicamente 
                  il movimento” (p. 105). Il terzo periodo fu quello dell’internamento 
                  nei campi di concentramento, dove trovarono la morte circa il 
                  60 % degli internati appartenenti alla Confessione.  
                  Neppure i campi di concentramento, i “laboratori” 
                  in cui, osservava Hannah Arendt, lo Stato totalitario sperimentò 
                  la sua capacità di “dominio assoluto sull’uomo”, 
                  riuscirono tuttavia a spezzare la volontà dei testimoni, 
                  che perlopiù rifiutarono, come avevano fatto precedentemente, 
                  di ripudiare la propria fede e tradire i compagni, dimostrando 
                  con ciò come sia possibile, sia pure pagando un prezzo 
                  altissimo, resistere anche al più tirannico dei poteri. 
                  Pertanto, come scrive Vercelli, quella dei testimoni di Geova, 
                  “pur non trattandosi di una trama cospirativa, poiché 
                  non aveva come obiettivo il sovvertimento dei poteri ma il mantenimento 
                  dei rapporti tra correligionari, essa, per le modalità 
                  in cui si svolse e per l’oggetto che la motivava – 
                  testimoniare la possibilità di esistenza di un mondo 
                  diverso da quello nazista – si inscrive nella costellazione 
                  delle diverse forme di resistenza civile” (pp. 173-74). 
                  
                  Francesco Berti 
                
              
              
               
                Quella volta a Giffoni 
                  con Theo Anghelopulos 
                Agosto 1992. Ventiduesimo Festival del Cinema dei Ragazzi di 
                  Giffoni Valle Piana. Nonostante la calura viene giù giove 
                  pluvio e tutti gli appuntamenti in programma vengono spostati 
                  dagli spazi all’aperto al cinema Valle (nel piccolo centro 
                  salernitano non era sorta ancora la cittadella del cinema). 
                  E qui che mi avvicino timidamente al regista Theo Anghelopulos 
                  e gli chiedo se può rilasciarmi un’intervista. 
                  Tra un perfetto francese e un italiano zoppicante mi fa capire 
                  che si può. E seduta stante ci appartiamo in un angolo 
                  del bar del Valle per iniziare la conversazione. Allora scrivevo 
                  di cinema già da qualche anno, e di registi, attori, 
                  cinematografari ne avevo conosciuti pure abbastanza, ma con 
                  Anghelopulos fu una delle prime volte che avvertii il contagio 
                  diretto con l’anima, l’occhio di un cinema politicizzato 
                  (ed antagonista) dei grandi circuiti che mette lo spettatore 
                  in rapporto critico con quello che vede. Senza andare a rileggermi 
                  l’intervista, di poche sue parole ho ancora un ricordo 
                  lucidissimo. Con un mezzo sorriso beffardo mi confida Anghelopulos 
                  che per lui la stragrande maggioranza degli americani made in 
                  Usa sono degli imbecilli nel senso più pieno della parola 
                  e il cinema degli Studios viene prodotto per un pubblico che 
                  passivamente e sistematicamente deve immolarsi all’altare 
                  del sollazzo. In un altro frammento dell’intervista spende 
                  belle parole per il poeta e sceneggiatore romagnolo Tonino Guerra 
                  con cui ha girato, forse, i film più belli della sua 
                  carriera. “Un fratello per me è Tonino, un vero 
                  poeta solo con lui potevo fare dei film in cui la storia si 
                  cementa così delicatamente con l’epica e la lirica”… 
                
                   
                    |    
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                    Theo 
                        Anghelopulos  | 
                   
                 
                 Theo Anghelopulos, il più grande regista greco, è 
                  morto a 76 anni lo scorso 24 gennaio investito da una moto in 
                  una località dell’Attica, ad ovest del Pireo, mentre 
                  stava ultimando le riprese del suo ultimo lungometraggio con 
                  protagonista Toni Servillo. Da “Ricostruzione di un delitto” 
                  del 1970 a “La polvere del tempo” di tre anni fa, 
                  il regista ateniese ci ha lasciato in eredità non molti 
                  film (appena quattordici quelli completati), ma uno più 
                  bello e intenso dell’altro, eppure se si consultano i 
                  saggi (e sono diversi) sui cento film più belli della 
                  storia del cinema di tutti i tempi non si trova un solo volume 
                  che cita un suo lavoro. Vi si può trovare in classifica 
                  “Cabaret” di Bob Fosse o “Un tranquillo week-end 
                  di paura” di John Boorman ma non si segnala “La 
                  recita” (1974), un capolavoro in assoluto di quattro ore 
                  (con degli straniamenti di natura brechtiana), oppure l’esistenziale 
                  e metaforico “Alessandro il grande” (1980) o “ 
                  Lo sguardo di Ulisse (1991), affresco di altissima tensione 
                  stilistica che vide, durante le prime riprese, la morte del 
                  protagonista Gian Maria Volonté sostituito poi da Harvey 
                  Keitel. Hanno scritto di Anghelopulos: regista isolato, intransigente, 
                  rigorosamente artista, “lo sguardo del cinema europeo”. 
                  E ciò è tutto vero, ma va ricordato perché, 
                  insieme all’ungherese Miklos Jancsò, è stato 
                  il maestro, il grande manipolatore (se così si può 
                  definire) del “plan-séquence” (piano sequenza), 
                  cioè della tecnica del montaggio interno durante le riprese 
                  che sfrutta i movimenti di macchina giovandosi della profondità 
                  di campo e della molteplicità di piani entro una singola 
                  inquadratura… 
                  Ritornando alla conversazione al Giffoni Film Festival salutandoci 
                  mi domanda su quale quotidiano sarebbe uscita l’intervista. 
                  Ribatto non su un quotidiano ma sul numero prossimo dello storico 
                  settimanale anarchico Umanità Nova (all’epoca 
                  redazione collegiale Spezzano Albanese). Chioserà il 
                  regista greco: “Ho sempre avuto in grande considerazione 
                  gli anarchici e la loro storia, spesso dolorosa e mal compresa”. 
                  
                  Mimmo Mastrangelo 
              
              
                 
               
                 Trasmettere 
                  vita ed entusiasmo 
                Ritorna sugli scaffali delle librerie, dopo 27 anni, un piccolo 
                  capolavoro di letteratura “proletaria”, le splendide 
                  memorie autobiografiche che un vecchio anarchico, per il quale 
                  qualunque definizione sarebbe riduttiva, trasmise ai due allora 
                  giovani compagni triestini Claudio Venza e Clara Germani, attraverso 
                  un lungo e paziente lavoro di registrazione orale (Umberto Tommasini, 
                  Il fabbro anarchico. Autobiografia fra Trieste e Barcellona, 
                  Odradek, Roma 2011, pagg. 233, euro 18,00). 
                  Nell’ormai lontano 1972, infatti, Umberto Tommasini (1896-1980) 
                  aderente da sempre al movimento anarchico e al gruppo Germinal 
                  di Trieste, stimolato dai due freschi militanti del suo storico 
                  gruppo (fondamentale nel lavoro di storia orale il rapporto 
                  di totale fiducia fra intervistato e intervistatore), decise 
                  che fosse venuto il momento di trasmettere e consegnare alla 
                  storia la narrazione dei suoi ricordi e delle sue straordinarie 
                  esperienze. Non si trattava da parte sua di una sorta di compiaciuto 
                  orgoglio ma della convinzione che la memoria delle sue lotte, 
                  dei suoi sogni, delle sue testimonianze sulla storia novecentesca 
                  non dovesse andare perduta, ma potesse essere insegnamento e 
                  stimolo per le nuove generazioni (1). E 
                  non solo per le generazioni di anarchici ma, più in generale, 
                  per chiunque ritenga che lottare per una trasformazione in senso 
                  libertario della società possa e debba essere un dovere 
                  morale gratificante e piacevole.  
                  Leggendo queste bellissime pagine, si capisce l’importanza 
                  che questo lavoro si sia concretizzato, consentendo così, 
                  anche a chi non ha avuto occasione di conoscere Umberto, di 
                  partecipare con tanta immediatezza alla sua straordinaria esperienza 
                  di vita. E dobbiamo esserne grati non solo a Venza, che seppe 
                  dare organicità alla frammentata ricostruzione di Tommasini 
                  ma anche, e non di meno, a Clara Germani, che si sobbarcò, 
                  come ricorda tuttora Claudio, la gran parte del lavoro materiale 
                  di trascrizione dalle cassette e di battitura. Per i più 
                  giovani, per i quali le tecnologie di ultimissima generazione 
                  rappresentano la normalità dell’uso quotidiano, 
                  va segnalato come battere centinaia e centinaia di pagine trascritte 
                  da un Phonola su una mitica Lettera 22 fosse ben più 
                  faticoso che non lavorare su un agile programma di scrittura 
                  (2).  
                  Va poi detto che il lavoro sulle fonti orali, se da un lato 
                  non poggia su una documentazione ufficiale, è altrettanto 
                  utile perché permette di portare a conoscenza particolari 
                  altrimenti sconosciuti, sfuggiti magari anche alle occhiute 
                  attenzioni poliziesche o alle ricostruzioni accademiche. Inoltre, 
                  fornendo la griglia interpretativa dell’intervistato, 
                  tale lavoro apre a uno sguardo differente su quanto viene trasmesso. 
                  Se poi, come in questo caso, la registrazione orale viene scrupolosamente 
                  confrontata con le carte d’archivio conservate nel Casellario 
                  Politico Centrale dell’Archivio di Stato, diventa perfino 
                  possibile sfrondare di prima mano le tante inesattezze, se non 
                  addirittura falsità, che tali carte, redatte da informatori 
                  interessati e prezzolati, vorrebbero tramandare. Specularmente, 
                  non va dimenticato che a volte nell’intervistato scattano, 
                  per alcuni episodi, meccanismi di autocensura (e Venza ne ricorda 
                  non pochi soprattutto riferiti a certi periodi della clandestinità 
                  di Tommasini), e in questo caso il confronto con le carte di 
                  polizia aiuta a ricostruire anche ciò su cui si potrebbe 
                  essere reticenti. La lunga introduzione del curatore, un vero 
                  e proprio saggio biografico, permette poi di contestualizzare 
                  meglio il percorso cronologico di Tommasini, dato che nella 
                  trasmissione delle sue memorie, al “fabbro anarchico” 
                  capita di operare alcuni salti temporali dovuti alla necessaria 
                  vivacità del racconto (3).  
                
                   
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                    Trieste 
                        1947- da sinistra: Umberto Tommasini (Trieste 1896 - Vivaro, 
                        Pordenone 1980) militante anarchico fondatore del giornale 
                        Germinal, Nicola Di Domenico, Guglielmo Shefer. 
                        (Foto centro studi libertari/archivio GP.)  | 
                   
                 
                 Questa nuova edizione – originariamente pubblicata nel 
                  vivace dialetto triestino e oggi tradotta in lingua (4) 
                  – si presenta arricchita da una bella intervista fatta 
                  da Claudio Venza, professore di Storia della Spagna Contemporanea 
                  all’Università di Trieste, al collega Claudio Magris, 
                  intellettuale fra le più aperte personalità della 
                  cultura italiana, che già aveva recensito la prima edizione 
                  per Il Corriere della sera nel 1984, e prima sul quotidiano 
                  locale Il Pinolo, parlandone come di “uno dei libri più 
                  vivi degli ultimi anni”. E in effetti la vivacità 
                  del racconto, che forse nella traslitterazione in lingua ha 
                  perso un po’ del suo smalto, è uno dei tratti più 
                  caratteristici di quest’opera. Una vivacità, del 
                  resto, che non meraviglia affatto, perché chi ha conosciuto 
                  Tommasini restava semplicemente incantato dalla sua capacità 
                  di trasmettere vita ed entusiasmo in ogni sua parola. Vita ed 
                  entusiasmo che, a onor del vero, erano caratteristica comune 
                  degli anarchici della sua generazione, gente che, nonostante 
                  le dolorose sconfitte e le tante persecuzioni subite, ha continuato 
                  a esprimere il proprio impegno sociale con la stessa freschezza 
                  degli anni giovanili.  
                  In effetti la vita di Umberto Tommasini è un romanzo. 
                  Un romanzo che attraversa tutta la storia del Novecento e nel 
                  quale egli non è il distaccato osservatore ma il vivo 
                  protagonista di un periodo storico che ha visto affiancarsi 
                  momenti di altissima e tragica drammaticità a fasi di 
                  lotta rivoluzionaria gloriose ed entusiasmanti. Un romanzo che 
                  mostra, nel suo procedere negli avvenimenti, la capacità 
                  di affrontare senza tentennamenti anche i momenti più 
                  difficili e contraddittori. E questo perché in Tommasini, 
                  come in tanti altri anarchici, convivevano, rafforzandosi reciprocamente, 
                  due aspetti imprescindibili della militanza: la tensione sociale 
                  e la dimensione etica. La tensione sociale che rendeva automaticamente 
                  chiaro dove stessero il torto e la ragione nei processi di emancipazione 
                  dallo sfruttamento e affrancamento dall’autorità, 
                  la dimensione etica che non faceva mai venire meno quella umana 
                  “tenerezza” rivoluzionaria, che funzionò 
                  da fondamentale antidoto al prevalere della “ragion di 
                  stato” e della realpolitik.  
                  E difatti, leggendo questo avvincente affresco storico e passando 
                  in rassegna i momenti topici del secolo passato, la prima guerra 
                  mondiale, il biennio rosso, l’avvento del fascismo, il 
                  regime, l’esilio, l’antifascismo operativo, la guerra 
                  di Spagna, la seconda guerra mondiale, la lotta al nazifascismo, 
                  la ricostruzione, la ripresa del movimento, troviamo che la 
                  costante presenza di questo fabbro anarchico è fatta 
                  sia di immutabile volontà rivoluzionaria, sia della consapevolezza 
                  di dover conservare, sempre e comunque, l’umanità 
                  del libertario. Ne è un esempio il costante rifiuto di 
                  Tommasini di stringere la mano al famoso Carlos, quel Vittorio 
                  Vidali che interpretò come pochi altri, in Spagna e altrove, 
                  lo spirito del più genuino stalinismo e che, in nome 
                  di quella “ragion di Stato” di cui si diceva, contribuì, 
                  tra le tante sue malefatte, a “neutralizzare” molti 
                  degli elementi più combattivi della rivoluzione libertaria 
                  in Spagna (5).  
                  Tommasini non manca inoltre di rimarcare i momenti contraddittori 
                  che talvolta segnarono le vicende di cui narra, ma a tratti 
                  a questa sua sincerità, che può apparire venata 
                  di ingenuità, fa da controaltare una sorta di reticenza, 
                  volta a coprire fatti e persone che gli furono vicine. Del resto 
                  alcuni degli episodi in cui fu coinvolto, soprattutto durante 
                  il periodo dell’esilio e della lotta clandestina contro 
                  il fascismo, furono talmente complessi e inevitabilmente condizionati 
                  da fattori esterni, derivanti dal dover agire nella clandestinità, 
                  che spiegano il suo atteggiamento. Ancora, nei primi anni ‘70, 
                  e mutate completamente le condizioni sociali, restava sedimentata 
                  in lui una sensibilità particolarmente attenta a salvaguardare 
                  una memoria della quale non si sentiva unico depositario. 
                  Ciò che ci viene trasmesso, dalla lettura di questa avvincente 
                  autobiografia raccontata, non è solo l’avventuroso 
                  resoconto di una esperienza esemplare, ma è anche una 
                  lezione di vita, di una vita nella quale la coerenza tra i fini 
                  cercati e i mezzi da utilizzare è sempre stata alla base 
                  di tutto. Chiarendo ancora una volta che quello che si vorrebbe 
                  il peccato capitale degli anarchici, la mancanza di una mentalità 
                  “realista”, è invece la loro forza, quella 
                  che consente di continuare a restare fedeli, senza indecisioni, 
                  alle proprie convinzioni. Del resto un uomo che a settanta anni 
                  suonati mette in fuga, da solo, un gruppo di giovani neofascisti 
                  determinati a distruggere la sede del Germinal, è lì 
                  a dimostrarlo! 
                  
                  Massimo Ortalli 
                Note 
                 
                  - Come ha ricordato Claudio Venza in una recente presentazione 
                    del libro a Bologna, molti anarchici hanno preferito non parlare 
                    vuoi per modestia, vuoi per non rivelare troppo su argomenti 
                    e fatti delicati. 
                  
 - Claudio Venza, Vivere da anarchici: l’autobiografia 
                    di Umberto Tommasini in I Giorni Cantati, n. 4 del 1983: 
                    “Si è trattato di un lungo lavoro, anzi lunghissimo. 
                    Dalle 16 ore circa di conversazione-intervista a questo militante 
                    anarchico sono scaturite quasi 500 cartelle per un totale 
                    di più di 800.000 battute”. 
                  
 - Claudio Venza, cit. “Si era chiesto all’intervistato 
                    di seguire nel racconto della sua esperienza un ordine cronologico, 
                    che è stato sostanzialmente mantenuto con l’eccezione 
                    di alcuni fatti con una forte analogia tematica”. 
                  
 - Claudio Venza, cit. “La sola trascrizione letterale 
                    ha occupato un anno di lavoro in quanto bisognava rispettare 
                    le regole ortografiche, spesso incerte, del dialetto triestino. 
                    Infatti Umberto Tommasini parlava normalmente un tipo di dialetto 
                    ‘slavazà’, cioè reso simile all’italiano 
                    da un ‘lavaggio’ di molti termini di uso locale 
                    con la lingua nazionale”. 
                  
 - Vittorio Vidali, uno degli elementi di spicco del Comintern 
                    nel periodo compreso fra le due guerre, fu non solo uno degli 
                    artefici della criminale repressione degli anarchici e dei 
                    militanti del Poum in Spagna, ma fu anche sospettato (molto 
                    probabilmente a ragione) di aver contribuito ad organizzare 
                    l’assassinio di Trotsky in Messico. 
  
                 |