  
			  
 
  
				Ivan Della Mea dieci anni dopo 
                “Io finisco con questa qui e non la spiego neanche più, 
                  tanto non c'è niente da spiegare. Ringrazio tutti per 
                  una bella giornata, abbiamo discusso, magari ci siamo anche 
                  un po' incazzati” si sente provenire qualche risatina 
                  dalla platea “ma a me rimane quest'idea qui: è 
                  meglio incazzarsi in compagnia che stare zitti e da soli. È 
                  meglio! [ applausi ] È meglio, forse si riesce a far 
                  qualcosa”.  
                  Intanto che parla ha cominciato ad arpeggiare la chitarra sul 
                  re maggiore, con un risultato percepibilmente dissonante, e 
                  si rivolge ai due che lo accompagnano con una seconda chitarra 
                  e una fisarmonica “secondo me è fuori come una 
                  belva”, intende che la chitarra è terribilmente 
                  scordata. Valuta per un attimo l'ipotesi di accordare, e subito 
                  rinuncia: “ma fa niente” e comincia a cantare, con 
                  la sua “esse” assurda, che pare un chiodo strisciato 
                  su un vetro. Un difetto di pronuncia ben più disturbante 
                  di una erre moscia. Chi, nonostante quella “esse” 
                  lì, si ostina a cantare deve proprio aver delle cose 
                  urgenti da comunicare, che non può affidare a nessun 
                  altro 
                  noi siamo gli ultimi del mondo 
                  ma questo mondo non ci avrà 
                  diventa ovviamente “noi sshiamo”.  
                  La canzone che conclude questo recital è quella nota 
                  come L'Internazionale di Fortini, io sono il secondo 
                  chitarrista, invitato sul palco un po' a tradimento per fare 
                  un finale assieme (avevo già cantato prima con un set 
                  tutto mio) e il fisarmonicista è Davide Giromini, è 
                  il 23 agosto del 2008 e siamo a Merizzo (nella provincia di 
                  Massa e Carrara), in quel momento io ho 36 anni, Davide ne ha 
                  32 e Ivan ne ha 67. È una delle ultime volte che ci troviamo 
                  su un palco assieme, io e il Mea. 
                 
                Quel regionale delle 5,50 
		        Si va a letto tardi, come da tradizione in questa vita errabonda 
                  di cantori impegnati. Il più delle volte senza cachet 
                  fissi, pagati con un gettone, o solo rimborsati delle spese 
                  di viaggio, senza albergo, ospitati in case di gentili compagni. 
                  Tutto molto bello, ma la fatica pesa, soprattutto quando si 
                  comincia ad avere un'età in cui le ossa urlano, il peso 
                  del vino e delle cene troppo abbondanti e mangiate a ridosso 
                  del sonno logorano l'apparato digestivo. Il Mea si spende da 
                  cinquant'anni e più con determinazione suicida, lui che 
                  s'è fatto già un infarto quasi dieci anni prima, 
                  che è troppi chili in sovrappeso e che ha un diabete 
                  che finge di non avere. Ci svegliamo prestissimo: c'è 
                  ancora - mentre vi scrivo - un regionale sopravvissuto alla 
                  distruzione della rete ferroviaria italiana a profitto dell'Alta 
                  velocità, che parte alle 5,50 del mattino da Livorno, 
                  e passando per Sarzana, Massa, Carrara, arriva a Milano alle 
                  10,20. Io e il Mea prendiamo quello. 
                  È la prima (e l'ultima) occasione in cui sono per quattro 
                  ore e mezzo a tu per tu con il poeta e cantore che rappresenta 
                  uno dei miei più alti esempi, estetici ed etici: un maestro, 
                  un mito. Intendiamoci, l'ho incontrato già tante volte 
                  (sin dagli anni novanta), mi ha espresso le sue perplessità 
                  (all'inizio), poi la sua benevolenza, infine anche il suo affetto, 
                  mi ha invitato ripetutamente a cantare nelle iniziative dell'istituto 
                  che dirige dal 1996 - l'Istituto Ernesto de Martino, la casa 
                  di tutti i miei miti - abbiamo parlato, ma sempre a spizzichi 
                  e bocconi: battute, facezie, pettegolezzi e perfidie deliziose 
                  (di cui era un cultore), commenti salaci, qualche delirio. 
                  Ci siamo ritrovati su tanti palchi: ricordo quello dell'anno 
                  prima a Massa, uno spettacolo organizzato in un comodo teatro 
                  (una volta tanto) da Ovidio Bompressi, l'uomo condannato ingiustamente 
                  (è mia radicata opinione, non verità giudiziaria) 
                  per essere l'esecutore materiale dell'omicidio del commissario 
                  Calabresi, per quella vicenda Ivan si è battuto come 
                  un leone con il brano Ci si rivedrà, ma anche 
                  il verso sarcastico “oh com'è onesto e pentito 
                  Marino”. Ovidio dopo la grazia per ragioni di salute lavora 
                  per l'Arci di Massa organizzando spettacoli. Siamo tutti affiancati 
                  contemporaneamente sul palco, io col mio scudiero Rocco Marchi, 
                  Ivan, Davide, Les anarchistes (Marco Rovelli, Alessandro Danelli 
                  e Nicola Toscano che è tragicamente morto a cinquant'anni 
                  nel 2017). Ivan si guarda da una parte e dall'altra e prorompe: 
                  “oh, prima io ero quello più estremista di tutti, 
                  guardato male nel Pci, ora sono diventato il moderato, qui sono 
                  tutti anarchici!” e scoppia a ridere. In quell'occasione 
                  mi consegna un paio di testi “vedi se riesci a fare la 
                  musica”.  
                  Ovviamente a questo va aggiunto che di Ivan sono stato un fedele 
                  spettatore, che la prima volta che lo vidi di persona fu martedì 
                  9 ottobre 1990, ero giunto a Milano da Lecce 13 giorni prima, 
                  proprio nel mio diciottesimo compleanno, con l'intenzione di 
                  diventare fumettista. Nell'isolato in cui vivo e da cui vi sto 
                  scrivendo, nello “Spazio Ansaldo” (oggi sede del 
                  museo Mudec) si svolgeva “Milano Poesia”, l'ultimo 
                  importante progetto di Gianni Sassi, uno dei guru della controcultura. 
                   
                  Lì incontrai il Mea, il mio tentativo di approccio fu 
                  disastroso: provai a dirgli che il disco Il rosso è 
                  diventato giallo era da sempre uno dei (pochi) dischi che 
                  i miei possedevano e che ascoltavo da quand'ero in fasce “e 
                  non sei diventato daltonico?” ridacchiò lui, girandosi 
                  subito dall'altra parte. Per la verità io sono daltonico, 
                  ma preferii tacerglielo. Provai a riagganciarlo “qui siamo 
                  proprio vicini a via Savona...” dissi con aria allusiva, 
                  “beh?” fece un po' scocciato “quella dov'è 
                  ambientata la tua canzone El me gatt” dissi sperando 
                  di conquistare con questa citazione la sua benevolenza “ah... 
                  ma quella l'ho messa per la rima” (anni dopo mi disse 
                  che invece non era vero, era proprio via Savona quella della 
                  terribile Ninetta che sgozzava i gatti).  
                  Sconfitto me ne tornai a casa, pensando “ma che stronzo”, 
                  o meglio non formulando compiutamente questo pensiero, perché 
                  non avrei osato pensarlo di cotale mito... però insomma, 
                  diciamo un po' deluso. Tutte le testimonianze che ho raccolto 
                  per questo libro coincidono nel dire che Ivan prima di volerti 
                  bene ti provocava. 
                In treno con lui 
		        Ecco, Ivan lo inseguivo da sempre, finalmente diventato anch'io 
                  un cantautore, era lui che mi aveva cercato e ammesso come un 
                  suo pari, affianco sugli stessi palchi, invitato nell'istituto 
                  che dirigeva. Ma ancora non mi aveva aperto il cuore.  
                  Ora ero con lui in treno per quasi cinque ore. Parlò 
                  di tutto, ininterrottamente, ridendo - ah, la sua risata - soffrendo 
                  per il fatto di non poter fumare. Parlava, raccontava del brefotrofio 
                  in cui era stato messo bambino, di suo fratello Luciano morto 
                  già da cinque anni, di sua madre, del detestato padre, 
                  della compagna di vita e d'amore Clara, dei figli Sara e Pietro, 
                  del Ciarchi “ora sembra molto più freak di me, 
                  ma quando l'ho conosciuto io ero un barbone che dormiva in strada 
                  e lui un ragazzo di buona famiglia, quando andai a casa sua 
                  la prima volta con Rudy, erano tutti vestiti da signorini, e 
                  c'era un pianoforte: una casa borghese.” Spettegolò 
                  a lungo sulla passione per quella grande cantante popolare cui 
                  dedicò le prime canzoni d'amore “ma lo sapevano 
                  tutti che eravamo fidanzati, con annessi e connessi... poi sai, 
                  lei aveva un figlio ed ebbe paura.”, non vi dico come 
                  suonava “annesshi e connesshi” nella pronuncia sibilante 
                  del Mea.  
                   L'orso, 
                  il respingente Ivan, stava cercando complicità da me 
                  anche con allusioni un po' goliardiche.  
                  Seguitò a raccontare di quando all'istituto si presero 
                  tutti le anfetamine - comprate a etti in un losco bar lì 
                  di sotto - per trascrivere giorno e notte nastri su nastri, 
                  ore di registrazioni sul campo per un concorso di Roberto Leydi, 
                  “e poi LUI è diventato professore e se n'è 
                  andato portandosi via i nastri dell'Istituto” (sapevo 
                  bene che questa era un'antica polemica che guastò per 
                  sempre i rapporti fra i due principali organizzatori del Folk 
                  revival Bosio e Leydi). E poi si parlò tanto di Milano: 
                  Milano di giorno e di notte, Milano dei barboni “ho vissuto 
                  per strada, non per modo di dire, senza una casa in cui dormire. 
                  Si imparava dagli altri, ce n'erano di organizzatissimi, con 
                  panchine attrezzate a letto, meglio dell'albergo. Però 
                  quando arrivò inverno mi dissi che non avrei resistito 
                  a lungo, un freddo, Alessio, un freddo. Chi ha dormito per strada 
                  d'inverno non può che essere comunista.” Ecco un 
                  fondamento ideologico del pensiero di Ivan.  
                  Continuavano i racconti sul Naviglio, sui personaggi che aveva 
                  conosciuto e parevano tratti da una novella di Paolo Valera 
                  rivista da Jannacci “il tale faceva l'operaio e lo avevano 
                  licenziato per ragioni sindacali, allora avevano messo su l'azienda 
                  familiare: la moglie batteva lui incassava... ma un giorno si 
                  accorge che lei con un cliente ci provava gusto, insomma c'era 
                  del tenero, allora non è più questione di lavoro, 
                  si riscoprì marito cornuto, l'ha ciapata per la bernarda 
                  e l'ha menada in navili”. 
                  Milano si avvicina, lui si rende conto che il treno ferma a 
                  Rogoredo e si precipita giù come una valanga di carne 
                  “se scendo qui faccio molto prima, per il Corvetto”. 
                  Mi saluta dalla banchina “vieni a trovarci a me e Clara, 
                  così continuo i racconti e tu mi scrivi la biografia” 
                  e ride. Poi lo sentirò ancora per telefono, ci vedremo 
                  un paio di volte in Conchetta, canteremo, ma quando finalmente 
                  sono andato in Corvetto non era proprio a casa sua, e stava 
                  stretto nella cassa. 
                  Io intanto proseguo sul treno e arrivo in Centrale, scendo con 
                  la testa che gira piena di tutti quelle storie, scesi dal treno, 
                  guardai l'ingresso della metropolitana e provai un senso di 
                  nausea: non potevo chiudermi sottoterra. Dalla Stazione a casa 
                  mia ci sono otto chilometri, il sole cuoceva, decisi di farli 
                  a piedi, riavvolgendo il nastro di tutti i racconti che mi aveva 
                  fatto l'Ivan, allungando il percorso e passando per tutte le 
                  zone nominate: via Tommaso Grossi, il Sagrato del Duomo, Via 
                  Gorizia... 
                Una vita fitta di intrecci 
		        Ecco lettori miei, il libro che mi ha fatto buttare sangue e sudore, ma soprattutto lacrime, è una passeggiata per la vita e le canzoni del Mea: Luigi della Mea ribattezzatosi da solo Ivan, nato a Lucca nell'ottobre del 1940 morto a Milano nel giugno del 2009. È una passeggiata per una storia di vita che, soprattutto nei primi vent'anni, sembra eccessiva anche per essere un romanzo naturalista di Zola. Poi diventa un resoconto collettivo della canzone popolare e della partecipazione politica, lì l'individualità di Ivan sembra perdersi al servizio di una storia grande, che pure vuole essere raccontata. Questo libro è anche un percorso nell'opera di un intellettuale che consta di più di 15 dischi, una decina di volumi (fra romanzi, prose varie, versi, favole), innumerevoli articoli. Sono opere nate da un'esigenza di confessione, ma anche dall'urgenza della testimonianza e del confronto, oggi attraverso il web le possiamo ascoltare con più facilità d'un tempo, quando bisognava procurarsi i supporti fisici, i dischi, per lungo tempo introvabili. Però il web è una “Biblioteca di Babele” eterodiretta dai motori di ricerca e dai social, per questo è più che mai necessario uno sforzo di sistematizzazione, di analisi, di scavo e di ricostruzione del contesto storico, politico e artistico in cui nacquero quei canti. 
Infine quello che vi accingete a leggere è una ricognizione su una vita che è stata straordinariamente fitta di intrecci, perché la vita di un artista impegnato politicamente già lo è di suo, perché il fratello di Ivan, Luciano, è stato un intellettuale centrale per la nascita della nuova sinistra in Italia, e ha incessantemente creato relazioni anche perché incapace fisicamente di stare da solo. Perché infine la nostra storia si svolge per larga parte negli anni che, dal 1962 al 1980, hanno visto la più grande partecipazione collettiva che si sia mai registrata: solo la capillare voracità della televisione e poi il colpo di grazia dell'informatica sono riusciti a domare quelli che Giorgio Gaber definì “anni affollati”. 
Ecco, io ora riprendo il mio percorso per Milano, per l'Italia, per i dischi, i libri, i giornali, i concerti, gli spettacoli, le manifestazioni, le fabbriche occupate, le piazze, i centri sociali, i congressi di Partito, le feste dell'Unità, dei sindacati, della Resistenza... il percorso esistenziale, politico e artistico del mio amico e maestro Ivan, vi invito a farlo con me questo percorso, nelle pagine che seguono. Forse come questo tempo in cui passiamo, non servirà a nulla e tutto si perderà nel camposanto della dimenticanza. Ma noi, che stiamo aggrappati a un libro o a un disco, sacro o profano, alla Bibbia o al Capitale, a Proust o a Bulgakov, a Bob Dylan o a Violeta Parra, possiamo forse rinunciare all'idea che finché qualcuno racconta le nostre storie, abbiamo sconfitto la morte? 
                Alessio Lega 
                Questo articolo è tratto dal libro La Nave dei Folli: vita e 
                  canzoni di Ivan Della Mea, in uscita nei prossimi giorni 
                  per Agenzia X. 
               |