Cause più e meno remote della separazione 
                 
                  1.  
                  Nel prologo de I villeggianti, una regista 
                  in cerca di finanziamenti per un suo prossimo film è 
                  di fronte ad una commissione dal cui giudizio dipendono i finanziamenti 
                  in questione. È già nei guai di suo – il 
                  compagno della sua vita le ha appena comunicato che la lascia 
                  –, ma si sente anche rivolgere una domanda del tipo “Ci 
                  dica in poche parole di cosa tratta il suo film” e, in 
                  quel suo annaspare che ne consegue, emerge quanto, della domanda, 
                  se ne possa ritenere offesa – un'offesa che si somma all'altra. 
                   
                  2.  
                  Credo si debba ringraziare la casa editrice Pgreco per la ripubblicazione 
                  de La famiglia che uccide, un libro di Morton 
                  Schatzman ormai difficilmente trovabile. Era stato pubblicato 
                  nel 1973 e prontamente tradotto da Feltrinelli che, in considerazione 
                  del sottotitolo – “Un contributo psicoanalitico 
                  alla discussione sul caso Schreber” –, e in considerazione 
                  delle ossa rotte con cui ne usciva la psicoanalisi stessa, si 
                  sentiva in dovere di annettervi una postfazione di Luciano Codignola 
                  destinata, alla bell'e meglio, a porvi qualche rimedio.  
                  Al di là del terrificante “caso Schreber” 
                  – un caso di particolare ferocia nell'escogitare e nell'applicare 
                  una metodica coercitiva e repressiva di educazione sessuale 
                  –, l'analisi di Schatzman individua la famiglia come “fabbrica 
                  di ideologie autoritarie”, giungendo all'amara conclusione 
                  che “ottenere dei cambiamenti nel sistema complessivo 
                  di premesse che regolano la sua esperienza e quella del suo 
                  gruppo sociale può essere altrettanto difficile per un 
                  dato individuo quanto alterare la grammatica della sua lingua 
                  natale”. E “inconsapevolmente”, la psicoanalisi 
                  avrebbe “contribuito alla conservazione delle ideologie 
                  del suo tempo” – un tempo che si prolunga nel nostro, 
                  peraltro, a giudicare dagli atteggiamenti perduranti nei confronti 
                  della donna e del sesso – e “accettato certi aspetti 
                  dello status quo della società” – come l'organizzazione 
                  familiare. 
                   
                  3.  
                  Ricordiamo Valeria Bruni Tedeschi come attrice, ne parliamo 
                  tuttora come di un'attrice, ma dobbiamo anche saperla riconoscere 
                  come regista o, meglio – usando un termine che travalica 
                  il mezzo utilizzato per esprimersi –, come autrice. Fino 
                  ad ora ha diretto quattro film: È più 
                  facile che un cammello..., nel 2003, Attrici, 
                  nel 2007, Un castello in Italia, nel 2013 e, 
                  ora – nel 2018, ma distribuito solo in questo 2019, I 
                  villeggianti. Figlia della pianista Marisa Borini e 
                  di un ricco industriale piemontese, sorella di Carla – 
                  nota come modella, come cantante e come moglie dell'ex presidente 
                  francese Sarkozy – e di Virginio, morto nel 2006 in seguito 
                  ad immunodeficienza acquisita, Valeria ha vissuto in Francia 
                  ed è francese a tutti gli effetti. Ha fatto coppia a 
                  lungo con l'attore Louis Garrel con cui ha adottato Céline, 
                  una bambina africana, ma, poi – come capita al suo personaggio 
                  nella finzione de I villeggianti – se 
                  ne è separata. Indubbiamente, avrà potuto usufruire 
                  di agi, ma altrettanto indubbiamente, ha conosciuto il dolore 
                  – il dolore di ogni separazione e il dolore della contraddizione. 
                   
                  Nei suoi film fa i conti con se stessa e con la sua famiglia 
                  – senza sconti per nessuno, con una lealtà commovente. 
                  Miscela tutto ciò che ha – l'incantevole figlia 
                  in crescita, la mamma stessa in carne ossa e artrosi, una bellissima 
                  nonna, l'amica (un'altra “autrice”) Noémi 
                  Lvovsky, qualcuno ad interpretare il padre, qualcuno la sorella 
                  (e ora capita a Valeria Golino che restituisce la fiducia con 
                  una franca partecipazione di grande intensità), qualcuno 
                  il fratello, qualcuno il marito. Fruga con ferma delicatezza 
                  nelle ferite poco rimarginate dei rapporti familiari – 
                  esiti di negligenza genitoriale, di superficialità, di 
                  conflitti egoistici – e affonda senza pietà questo 
                  suo bisturi mentale nella piaga dei rapporti di classe così 
                  come se li è ritrovati inculcati nel processo educativo 
                  che le è toccato – distanze sociali da rispettare 
                  in un progressismo di facciata, ipocriti perbenismi, contegni 
                  dal costo umano altissimo. 
				   Se 
                  da una parte tengo presente Schatzman e dall'altro lei, mi rendo 
                  conto della molteplicità delle forme in cui la famiglia 
                  – qualsiasi famiglia (ricchi e poveri, padroni e servitù, 
                  ci dice Valeria Bruni Tedeschi, perché mentre mette a 
                  tavola gli uni cerca anche gli scheletri negli armadi degli 
                  altri) – può produrre le sue vittime. 
                   
                  4.  
                  Nella villa di famiglia – nella villa di una famiglia 
                  che si può permettere la Costa Azzurra – non può 
                  mancare la piscina e non possono mancare, al momento giusto 
                  dell'anno, all'arrivo delle meritate vacanze dei padroni, le 
                  consuete pratiche del ripristino eseguite con più e meno 
                  sbadata solerzia dal personale di servizio. Non nel film della 
                  Tedeschi, ma in un romanzo di Caroline Lunoir, La mancanza 
                  di gusto – un romanzo che recupera circostanze 
                  analoghe come quelle di una figlia che si ritrova con l'entourage 
                  familiare, in agosto, nella villa avita – mi ero già 
                  imbattuto nella piscina come “uno zaffiro incastonato 
                  nel paesaggio circostante, prova incontestabile dell'opulenta 
                  felicità familiare” – una felicità 
                  apparente, doverosamente esibita ma fasulla, costruita a prezzi 
                  cospicui per gli anelli più deboli della catena.  
                  Lì – in un più tradizionale rispetto dei 
                  canoni narrativi – sarà il permesso di utilizzo 
                  della piscina esteso improvvisamente alla famiglia dei custodi 
                  – a far deflagrare le contraddizioni su cui dormicchiava 
                  l'unità familiare. La Tedeschi non ha bisogno di episodi 
                  “chiave” – c'è una straziante campionatura 
                  di storia del cinema quando lei, in coppia con la Golino, cantano 
                  “Ma che freddo fa”, ma, come episodio, non costituisce 
                  la chiave per accedere a nulla che già non sapevamo – 
                  e neppure ha bisogno di farci percepire una pretesa completezza 
                  del suo mosaico; meno consolatoria della Lunoir, chiede un forte 
                  contributo di attenzione politica e di senso da parte dei suoi 
                  interlocutori; non si preoccupa di entrare ed uscire a piacimento 
                  dalle cornici imposte dalle convenienze della narrativa cinematografica 
                  – a volte il suo è film sul film, a volte è 
                  attrice e a volte no, a volte la finzione è più 
                  di una, a volte, forse, nessuna –, prova a fidarsi di 
                  noi – e io, dico la verità, di deluderla non me 
                  la sento. 
                   
                  5.  
                  Neanch'io sono capace di raccontare la trama di un mio saggio. 
                  Un'argomentazione, mi dico, si articola su di un insieme di 
                  rapporti e ridurre il tutto ad un “tema”, nella 
                  sua ridottezza, mi sembra avvilente. Parlo di un film, d'accordo, 
                  parlo di vari film, non di uno solo, d'accordo; li correlo ad 
                  un saggio e ad alcune tesi, d'accordo; sfrutto un'analogia con 
                  un romanzo, d'accordo anche su questo; esprimo stima a qualcuno, 
                  lascio impliciti altri giudizi, diciamo così, più 
                  circospetti.  
                  Con quest'ultima noterella, poi, dichiaro una specie di solidarietà 
                  a qualcuno che, a prima vista, è il personaggio di un 
                  film, ma che, in virtù del mio patire con lui diventa 
                  qualcosa di ben di più: prima, persona, una, poi, persone, 
                  tante – tante persone che soffrono delle medesime contraddizioni, 
                  che stanno lì – tra lo schermo e la vita, più 
                  nella vita che nello schermo – schiacciate dallo stesso 
                  congegno. Se ci riesco, a compiere queste trasformazioni per 
                  me, se ci riesco per qualcuno dei miei lettori, se suscito un 
                  processo in virtù del quale si diventa consapevoli di 
                  qualcosa che, con tutta probabilità, ci sarebbe passato 
                  inosservato sotto il naso, bene, il mio compito lo posso considerare 
                  concluso. Non ha un nome? Non sono capace di rappresentarne 
                  il senso in una sola frase? Non offro scorciatoie e riassuntini? 
                  Meglio.  
                Felice Accame 
                 Nota 
                  Il caso Schreber deriva dalla pubblicazione, nel 1903, delle 
                  Memorie di un malato di nervi di Daniel Paul 
                  Schreber, poi tradotto e pubblicato più volte da Adelphi 
                  (ancora un'edizione nel 2007). Per farsene un'idea, cfr. S. 
                  Freud, Casi clinici, vol. 6, Il Presidente Schreber 
                  (Boringhieri, Torino 1975) e W. G. Niederland, Il caso 
                  Schreber (Astrolabio, Roma 1975). La mancanza 
                  di gusto di Caroline Lunoir è stato pubblicato 
                  da 66Thand2ND, a Roma nel 2012. 
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