  
                
  
				Appunti di viaggio 
                Ci sono sempre state due Americhe, che non si 
                  parlano e non si amano. Da una parte chi vive sulla costa, dall'altra 
                  la gente dell'interno. Più aperti i primi, tradizionalisti 
                  gli altri. È una delle chiavi possibili per comprendere 
                  qualcosa degli Stati Uniti. Una, appunto. 
                 
				Vengo dall'Alabama col banjo sul ginocchio. vado in Louisiana ad incontrare l'amata. Oh! Susanna, non piangere per me, vengo dall'Alabama col banjo sul ginocchio. (da Oh! Susanna, Steven Foster, 1848) 
				Il ritornello di Oh! Susanna, chissà perché, 
                  l'ho imparato da bambino, ma solo pochi anni fa ho scoperto 
                  che quell'allegra canzone, molto famosa ai suoi tempi, è 
                  folle, macabra e razzista, un nonsense a ritmo di polka che 
                  mette in rima assurdi paradossi, mentre il protagonista uccide 
                  con indifferenza ben cinquecento “negri”1 
                  lungo il cammino che lo conduce dall'amata. Quando mi lascio 
                  New York alle spalle per macinare chilometri lungo autostrade 
                  monotone, il ritmo di quel motivetto mi accompagna in segreto, 
                  perché il nonsense può essere una chiave di lettura 
                  di questo paese. Guidati dai suoni metallici e vagamente sgradevoli 
                  del banjo si può percorrere meditabondi l'ovest sconfinato 
                  o andare imbronciati verso sud, fino in Louisiana, dove certamente 
                  non è mai esistita alcuna Susanna a lavorare nei campi 
                  e gli schiavi cantavano ben altre canzoni, tormentati dalle 
                  fruste dei sovrintendenti. 
                  Il ritmo interiore del mio viaggio, insomma, è falsa 
                  allegria in terra rubata. Parto dalla costa orientale per cercare 
                  di capire. Trattengo il fiato, mi guardo attorno, nascondo il 
                  malumore. Passo per queste terre con l'animo di un apache, silenzioso 
                  e malinconico in sella al suo cavallo.  
                  Sessant'anni fa John Steinbeck fece lo stesso. Emulo Don Chisciotte, 
                  ribattezzò Rocinante2 
                  il camper costruito nel giardino di casa, partì in compagnia 
                  del suo barboncino Charley e percorse 10.000 miglia, attraverso 
                  l'America. Pubblicò le memorie di quel viaggio in un 
                  libro forse poco noto ma ricco di osservazioni argute.3 
                  Lungo la strada incontrò persone strane, curiose, solitarie. 
                  Vide con occhi inquieti lo sviluppo del dopoguerra, l'avanzare 
                  del consumismo, l'inaridirsi dei rapporti umani. Testimoniò 
                  il razzismo, onnipresente negli stati del sud, e raccontò 
                  di strana gente sradicata, che viveva in case mobili e si spostava 
                  di frequente a caccia di futuro, senza mai avere un indirizzo 
                  né un passato. 
                  Sono racconti che hanno la mia età, immagini che cerco 
                  di mettere a confronto con quel che incontro oggi negli stessi 
                  luoghi che anche lui percorse e mi viene da concludere che, 
                  forse, nel profondo, l'America non è troppo mutata da 
                  allora. Ma io non ho Rocinante e il ritmo delle mie incursioni 
                  è troppo spezzettato nel tempo. Gli appunti di viaggio 
                  ne soffrono, si mischiano, si sovrappongono. Lo scrittore osservava 
                  il suo paese, io lo guardo da straniero. Le note sui miei diari 
                  sono solo frammenti di un discorso, per un amore mai sbocciato. 
                  Non posso che restituire qualche fotogramma, neanche troppo 
                  nitido. 
                Se si parte dalla Grande Mela... 
		        “Ci sono sempre state almeno due Americhe, che non si 
                  parlano e non si amano”. Peter mi ha messo in guardia 
                  fin dalla prima volta che gli ho raccontato dei miei progetti 
                  on the road. Secondo lui il paese si divide fra chi vive 
                  sulle coste e chi all'interno: gli abitanti delle due sponde 
                  sarebbero più liberali, aperti, tolleranti, moderni, 
                  tutti gli altri sarebbero invece fermi al medioevo, conservatori, 
                  bigotti, arretrati. La guerra civile poi avrebbe lasciato una 
                  ferita che non si è più rimarginata. Peter è 
                  gay e in posti come l'Alabama e il Montana lui e il marito hanno 
                  avuto problemi, subito discriminazioni. Anche John e Mariel, 
                  lui bianco, lei nerissima, mi hanno raccontato dell'ostilità 
                  trovata come coppia “mista” in Louisiana. Secondo 
                  questi amici, dunque, non vale la pena esplorare e non c'è 
                  davvero niente da capire, perché l'America è sempre 
                  la stessa, con San Francisco e New York accoglienti, inclusive, 
                  multietniche; e un'infinita serie di altri luoghi dove ancora 
                  oggi prevalgono diffidenza, razzismo, gretto provincialismo. 
                   Per 
                  chi si muove per gli States partendo da New York, la sensazione 
                  più forte è che fuori dalla Grande Mela la storia 
                  si sia fermata. Si viaggia per cinquanta chilometri a nord di 
                  Manhattan e si passano paesini vecchi, tristi, decadenti, che 
                  paiono immobili nel tempo. Si arriva in Virginia e ci si ritrova 
                  subito in un'atmosfera da Via col vento, con le donne 
                  nere a servire nelle cucine dei ristoranti e nelle case dei 
                  bianchi mentre le bandiere sudiste sventolano dai pennoni. Si 
                  percorrono i campi coltivati del Missouri o i deserti del Nevada 
                  e ci si ritrova calati in un film americano, coi centri abitati 
                  deprimenti, lontani da tutto, i poveri che vivono ai margini, 
                  negli accampamenti di roulotte e caravan e i paesani che nella 
                  vita non hanno mai lasciato nemmeno la contea dove sono nati,4 
                  sono irrimediabilmente gretti e provinciali, nulla sanno del 
                  mondo e sono convinti che la loro esistenza, trascinata tra 
                  il supermercato e il pub, sia la sola possibile, l'unica degna 
                  di essere vissuta, quella cui tutti al mondo dovrebbero aspirare. 
                  Se guardano i notiziari vedono gli odiati pellerossa 
                  in tutti i popoli contro cui l'America combatte. 
                Soste brevi, partenze frettolose 
		        Per ogni dove negli States s'incontra uno strano altrove, dove 
                  essere armati è norma che non si discute, le caffetterie 
                  hanno le pistole nelle bacheche e si comprano i fucili per tempo, 
                  da regalare ai figli ormai adolescenti nella notte di Betlemme. 
                  “Ama i nemici ma tieni sempre ben oliato il fucile”, 
                  è la targa blasfema che ho visto attaccata su più 
                  di una porta girando per il sud degli Stati Uniti: sii sempre 
                  pronto a uccidere il viandante che bussa alla tua porta. Sembra 
                  riassumere la filosofia di un paese congelato nei suoi miti, 
                  dove la religione è fatta a misura della presunzione 
                  americana di essere la nuova terra promessa da Dio all'uomo 
                  occidentale. 
                  Ovunque infatti le chiese di tutte le possibili denominazioni 
                  punteggiano di bianco i paesi dalle strade deserte e si riempiono 
                  di fedeli alla domenica. Qui la scrittura la si legge ancora 
                  con enfasi profetica, i sermoni apocalittici sono il pane quotidiano 
                  e dai pulpiti si condanna volentieri al fuoco eterno. Ma subito 
                  fuori da ogni tempio la salvezza si impregna di strana cultura 
                  americana, quasi fosse un bene da comprare al supermercato, 
                  e nelle bacheche sistemate a beneficio dei passanti davanti 
                  alle chiese si possono leggere frasi sorprendenti, da Jesus 
                  paid it all a God bless the US Army.5 
                  Le mie soste sono brevi e le partenze frettolose. La borsa non 
                  è mai disfatta. Se mi fermassi più di tanto in 
                  uno di questi paesini la malinconia finirebbe per appiccicarsi 
                  alla pelle. L'urgenza di scappare allora mi assale, la voglia 
                  di andare lontano per salvarmi dalla tristezza e dissolvere 
                  la bruma che sento formarsi dentro al petto. 
                  Ma nei lunghi spostamenti ho dovuto spesso capitolare di fronte 
                  al dominio incontrastato delle grandi catene di fast food, dove 
                  per forza devi fermarti se non vuoi morire di fame lungo il 
                  tragitto o avventurarti per le campagne in cerca di un'improbabile 
                  alternativa. In quelle aree di sosta si può comprare 
                  e consumare senza nemmeno scendere dall'automobile. Solo i bisogni 
                  fisiologici costringono i viaggiatori ad abbandonare l'abitacolo, 
                  con la pressante urgenza di chi ha bevuto litri di bevande gassate 
                  e caffè annacquato. Le file silenziose agli orinatoi, 
                  col ronzio dei ventilatori, restano l'unica vicinanza umana 
                  che mi spetta in queste migrazioni. 
                  In giro per il paese si rende testimonianza stupefatta di un 
                  consumismo esasperato, becero e sprecone, di un mangiare smodato 
                  a tutte le ore e di una sconcertante obesità. Restano 
                  tracce evidenti nei cumuli osceni di contenitori di polistirolo 
                  e bicchieri di plastica, l'atto di accusa ad ogni pasto consumato. 
                  Steinbeck aveva annotato con preoccupazione come il paese stesse 
                  riempiendosi anzitempo di rifiuti. Aveva compreso già 
                  allora la portata di quel fenomeno. Non arrivò a immaginare 
                  che gli Stati Uniti sarebbero diventati una minaccia per la 
                  sopravvivenza stessa del pianeta inquinando il mondo, procapite, 
                  più di ogni altro popolo, ma aveva intuito le conseguenze 
                  estetiche della cultura di massa che stava prendendo piede allora, 
                  del capitalismo indifferente alle sorti dell'ambiente. In Francia 
                  e in Italia lo scrittore aveva ammirato l'antica sapienza dei 
                  cuochi, la passione che mettevano nel lavoro. Tornato nel suo 
                  paese, aveva osservato come qui i processi industriali stessero 
                  sostituendo le mani e il cuore. Aveva constatato come, persino 
                  nelle zone rurali, i suoi concittadini, corrotti dalla pubblicità, 
                  preferissero ormai cibi già pronti, liofilizzati rinvenuti, 
                  mescolati, riscaldati e distribuiti da tristi macchinette. Lo 
                  aveva sconcertato la nuova abitudine di far uso di contenitori 
                  usa e getta che, a milioni, stavano riempiendo il paese. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Stato 
                        del Delaware (USA), magliette in vendita in 
                        un negozio: “Come si inginocchiano gli americani”  | 
                   
                 
                Allarme nativi 
		        Ovunque oggi si ha l'impressione che, da allora, più 
                  nessuno si sia più posto il problema. Ad ogni pasto i 
                  tavolini sembrano il campo di battaglia di una guerra infinita 
                  contro l'ambiente. Milioni e milioni di onesti individui ogni 
                  giorno non sembrano preoccuparsi di dove tutto questo materiale 
                  vada a finire. Dalla colazione del mattino il senso di colpa 
                  del viaggiatore inquinante non mi lascia mai. Quando guardo 
                  attorno a me i miseri resti, abbandonati al loro destino da 
                  questi emuli Gargantua, mi chiedo come possa essere che qualcuno 
                  ancora ammiri l'insostenibile e poco desiderabile modello di 
                  vita statunitense, questo sogno americano naufragato in un mare 
                  di rifiuti, cibo malsano, appetiti smodati, alienazioni, solitudini, 
                  povertà, indifferenza, razzismo e televisione spazzatura. 
                  Un modello di vita che ha portato all'obesità come drammatica 
                  questione sociale ed emergenza medica nazionale che appare al 
                  viandante come un'epidemia inarrestabile. 
                  L'incipit di un articolo specialistico sulla questione scopiazza 
                  volutamente i titoli dei film di fantascienza degli anni cinquanta: 
                  “L'invasione dei cibi ultra-processati”.6 
                  Tutti i medici e gli specialisti con cui ho parlato confermano 
                  l'allarme sociale, l'emergenza sanitaria permanente in cui vive 
                  il paese in conseguenza della cattiva alimentazione. Ma i profitti 
                  dell'industria hanno la precedenza sui moniti degli scienziati 
                  e poi, in fondo, anche la sanità qui non è che 
                  un business e le conseguenze di quest'epidemia sono un affare 
                  per le compagnie assicurative. Intanto, chi odia l'America, 
                  non ha che da attendere: i suoi figli si stanno uccidendo da 
                  soli, tossicomani di zuccheri, sali e ormoni di cui sono avvelenati 
                  i loro cibi. L'ecatombe dei ricchi che si suicidano di calorie, 
                  mentre altrove si muore di fame autentica, sembra una strana 
                  parabola moderna. Fuggire di villaggio in villaggio non serve, 
                  ovunque s'incontrano i misteriosi, enormi alieni, che si aggirano 
                  sudati fra i locali a caccia di cibo. Un incubo da cui è 
                  impossibile svegliarsi. 
                  Girando per gli States mi sono anche imbattuto, inevitabilmente, 
                  in quel che resta dei nativi: hopi, navajo, sioux, cheyenne. 
                  Il battesimo è stato in una cittadina della Virginia, 
                  ai margini di una piccola riserva Cherokee. Mi ha colpito trovare, 
                  arrivando, il Bureau degli Affari Indiani.7 
                  Sapevo dell'esistenza di questo ente governativo dai fumetti 
                  che leggevo da ragazzo, ma immaginavo fosse una vestigia del 
                  passato. Invece la burocrazia bianca gestisce ancora le vite 
                  dei nativi. 
                  In realtà, in quella zona, di indiani ce ne sono ben 
                  pochi: verso la metà dell'800 furono quasi tutti sterminati 
                  e i reduci deportati, costretti a una lunga marcia in condizioni 
                  terrificanti, per raggiungere i territori loro assegnati in 
                  Arkansas. In quattromila morirono di stenti e freddo lungo il 
                  cammino, in maggioranza vecchi e bambini. Ancora oggi quella 
                  pulizia etnica è ricordata dai nativi come il “sentiero 
                  delle lacrime”. Nella riserva sopravvivono oggi i pronipoti 
                  di una sessantina di famiglie che resistettero alla cacciata 
                  rifugiandosi sulle montagne circostanti. 
                  In considerazione di questa tristissima e crudele storia, colpisce 
                  constatare che la cittadina, oggi, vive dei proventi di un'industria 
                  del turismo, gestita dai bianchi, che sfrutta gli stereotipi 
                  sui nativi imposti dai film western. Impazzano i negozi di souvenir, 
                  arredati con finti totem e corna di bufalo, che espongono paccottiglia 
                  per turisti, dai mocassini ai copricapo piumati che, peraltro, 
                  sono patrimonio di altre culture e che i Cherokee non usarono 
                  mai. Pub e ristoranti hanno arredamenti in stile e nomi esotici 
                  come PowWow, TeePee, Kacinah e Calumet. Si può persino 
                  visitare un villaggio “tradizionale”, con veri indiani 
                  pagati dall'assistenza pubblica per recitare la parte di finti 
                  indiani. Tutta la scenografia di quel paese mi ha riempito di 
                  amarezza. Nelle capigliature posticce in vendita mi sembrava 
                  fossero rimasti intrappolati tutti i sogni di libertà 
                  di questo paese. Mi sono presto lasciato alle spalle le ultime 
                  vestigia di quel popolo e ho ripreso la strada di casa. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   “Patriota 
                        americano, proprietario di una pistola”, 
                        “Questa famiglia protegge la mia famiglia”  | 
                   
                   
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                Ma molte culture precolombiane... 
		        Durante quel viaggio, alla sera, rileggevo alcune pagine di Eduardo Galeano, lo scrittore uruguayano che, negli anni settanta, mi aveva aperto gli occhi su colonialismo e imperialismo, raccontati dalla parte degli sfruttati. Per una strana coincidenza, Galeano lasciò questo mondo proprio il giorno in cui rimisi piede a New York. La tristezza mi avvolse, il fatto mi turbò. Mi sembrò un presagio, che non sapevo come interpretare. 
Nella sua monumentale “Memoria del fuoco”,8 basata su anni di studio delle culture amerindie, Galeano sosteneva che, per superare il capitalismo e costruire un modello di società più appagante, sarebbe stato necessario recuperare molti aspetti della vita e filosofia di alcuni dei popoli indigeni annientati dal genocidio. Dalle sue ricerche concludeva che molte culture precolombiane praticavano modelli di vita comunitaria molto avanzati, erano egalitarie, ponevano le donne sullo stesso piano degli uomini, lavoravano solo quel tanto che basta per vivere, non perseguitavano gli omosessuali, non davano importanza alla verginità ed erano sessualmente libere e disinibite, davano spazio al gioco e avevano una profonda spiritualità, legata al culto della terra madre e nutrice. 
Tornando a New York decisi di onorare il ricordo di Galeano studiando a fondo quell'opera, per combattere la tristezza che avevo incontrato per le strade del sud. Ma New York ti cattura, consuma il tempo e la voglia e quando percorri il piccolo inferno di Times Square, fendendo la folla che vaga senza meta, coi grattacieli trasformati in mega schermi che brillano giorno e notte e i turisti incantati a guardare sorridenti e felici quelle luci fantastiche e inutili, capisci che questa civiltà ha seppellito l'altra per sempre. La madre terra è stata strappata agli antichi abitanti da troppo tempo e quelle culture sono solo ombre, appena un accenno nella luce accecante dell'impero. Il sogno di Galeano è perso, le Memorie del fuoco sono rimaste a impolverarsi sullo scaffale. Ma anche il sogno americano è stato seppellito sotto un'immensa montagna di contenitori usa e getta e le rime di Oh! Susanna restano un inganno, totalmente prive di senso. 
                Santo Barezini 
                
- “Niggers” nel testo originale. In omaggio al politicamente corretto il termine scompare nelle versioni moderne. Un esempio di nonsense nella strofa di apertura: “il giorno che sono partito ha piovuto per tutta la notte / il tempo era così asciutto / il sole così caldo / che quasi sono morto congelato”. Sorprendentemente, Foster è considerato oggi il padre della musica americana.
 - Il nome del cavallo di Don Chisciotte, tradotto con Ronzinante nella versione italiana dell'opera.
 - Travels with Charley in search for America, 1960.
 - Oltre il 60% dei cittadini USA non hai mai avuto un passaporto.
 - “Gesù ha pagato tutto” e “Dio benedica l'esercito degli Stati Uniti”.
 - Beth Fontenot, medico, marzo 2016. Nel prologo si legge: “I cibi ultra-processati non sono nemmeno veri cibi, ma un ammasso di emulsionanti, sali, zuccheri aggiunti e calorie e sono i migliori amici dell'obesità”. Il film “L'invasione degli ultracorpi” è del 1956.
 - Il Bureau of Indian Affairs è un'agenzia federale alle dipendenze del Ministero dell'Interno. Amministra 225.000 Kmq di territorio destinato a riserva per 567 nazioni indiane.
 - Memorias del fuego, trilogia pubblicata fra il 1982 e il 1986 per l'editore Del Chanchito.
  
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