Fascismo/ 
				Un secolo fa, la nascita 
                Negli ultimi tempi, non solo per il successo del romanzo “M” 
                  di Antonio Scurati, si è tornati insistentemente a parlare 
                  del periodo dell'ascesa del fascismo. Sull'onda del centenario 
                  del 1919 (anno di fondazione dei Fasci di combattimento) anche 
                  Mimmo Franzinelli, noto e apprezzato storico del fascismo e 
                  dell'Italia repubblicana, è tornato in libreria con il 
                  consueto rigore storiografico che contraddistingue le sue ricerche. 
                  Fascismo anno zero. 1919: la nascita dei Fasci italiani di 
                  combattimento (Mondadori, Milano 2019, pp. 289, € 22,00) 
                  indaga proprio i primi passi del movimento mussoliniano, ancora 
                  incerti, ondeggianti, perfino contraddittori e non privi di 
                  cadute, purtroppo mai rovinose. 
                   Mentre 
                  i socialisti continuavano a predicare l'arrivo della Rivoluzione 
                  come se fosse stata una necessità della storia, da attendere 
                  a braccia aperte senza bisogno di prepararla, il 23 marzo 1919 
                  in piazza San Sepolcro a Milano nascono i Fasci di combattimento, 
                  diretti eredi dell'interventismo rivoluzionario, che nella formula 
                  dell'”antipartito” mescolano una tensione sovvertitrice 
                  delle istituzioni liberali al più urlato patriottismo 
                  e a un feroce antisocialismo. Si tratta di un movimento di tipo 
                  nuovo che fa della violenza il suo punto d'appoggio strutturale 
                  e che, con gli incendi, le bastonature e le uccisioni andrà 
                  togliendo nel corso dei mesi e degli anni successivi ogni spazio 
                  di agibilità politica agli avversari. 
                  L'adunata milanese è un evento chiave, troppo spesso 
                  “sottovalutato o banalizzato dagli antifascisti” 
                  (p. 6), ma che sul momento ha ben scarsa risonanza, snobbato 
                  da stampa e opinione pubblica. I presenti sono appena duecento, 
                  ben poco rispetto alle aspettative, e la riunione si scioglie 
                  per stanchezza dell'uditorio dopo una sequela di interventi 
                  irrilevanti. Ma Mussolini non si perde d'animo. È un 
                  buon giornalista, energico, salace, provocatorio, dotato di 
                  un bieco pragmatismo che gli consente di evitare, come diceva 
                  Angelo Tasca, “i tranelli mortali della coerenza” 
                  e di tenere insieme le contraddizioni interne a un confusionismo 
                  rivoluzionario pronto a qualunque deriva. Al suo fianco futuristi 
                  e arditi, con le loro intemperanze sempre più chiassose 
                  per le strade di Milano contro tutti i “nemici della patria”. 
                  È questo il clima del diciannovismo, che nonostante 
                  la propaganda contro i “pescicani” arricchiti non 
                  spaventa affatto la borghesia. Anzi, nella difficoltosa navigazione 
                  nelle acque del dopoguerra la “stella polare” di 
                  Mussolini resta l'antisocialismo, tradotto nel ripudio della 
                  lotta di classe per guardare alla collaborazione produttivista 
                  tra proletari e padroni, nell'interesse dell'economia nazionale. 
                  Per questo, Franzinelli lo rimarca con decisione e ricchezza 
                  di dettagli, i Fasci sono fin da subito ben sovvenzionati da 
                  industriali e commercianti milanesi, i cui denari risultano 
                  indispensabili alla sopravvivenza del movimento: “le sovvenzioni 
                  ripagano il supporto fornito alla borghesia sul fronte della 
                  guerra di classe” (p. 26). 
                  Il numero di sezioni fasciste effettivamente attive nel 1919 
                  rimane limitato, la loro esistenza è tormentata. La battaglia 
                  elettorale di novembre condotta in solitaria nella lista Thévenot 
                  (dal nome della bomba a mano in uso agli arditi) è una 
                  disfatta clamorosa. L'odiato PSI è il primo partito in 
                  Italia, mentre la lista fascista si presenta solo a Milano e 
                  si attesta su un umiliante 0,08% dei voti. Se Mussolini prende 
                  9.000 preferenze, Filippo Turati lo surclassa di oltre venti 
                  volte, con 190.000 voti. Un corteo socialista sfila sotto casa 
                  di Mussolini portando una bara col suo fantoccio. 
                  Ma Mussolini, ancora una volta, invece di leccarsi le ferite 
                  attacca e rilancia la guerra del fascismo contro il “nemico 
                  interno”; se giocare la carta del sovversivismo patriottico 
                  non ha dato buoni frutti, meglio rinsaldare i rapporti con i 
                  capitani d'industria e guardare decisamente a destra, anche 
                  se vuol dire perdere per strada qualche sansepolcrista di orientamento 
                  rivoluzionario. Una svolta a destra che in realtà, come 
                  sottolinea Franzinelli, non fa che inverare “dei presupposti 
                  d'ordine presenti fin dalla fondazione dei Fasci di combattimento” 
                  (p. 163) e che si concretizza nello squadrismo fascista, ovvero 
                  in un'offensiva militare che insanguina il Paese e annichilisce 
                  la forza numerica delle masse socialiste. 
                  Poi, per circa un decennio, il rivoluzionarismo sansepolcrista 
                  viene relegato nell'ombra: lo impone il rafforzamento dell'alleanza 
                  con monarchia, Chiesa e industriali. Ma una volta consolidata 
                  la dittatura e schiacciati gli oppositori è tempo di 
                  edificare il proprio mito delle origini. In particolare nel 
                  1929, decimo anniversario di fondazione, prende avvio la consacrazione 
                  dell'epopea nata in piazza San Sepolcro, con la trasfigurazione 
                  di quell'adunata in atto fondante dell'Italia littoria. 
                  Franzinelli dedica particolare attenzione alla costruzione di 
                  questo mito, che il regime ha più volte riscritto a seconda 
                  delle convenienze del momento: eliminando dall'elenco della 
                  prima leva fascista nomi divenuti col tempo scomodi (il repubblicano 
                  Pietro Nenni, il filosofo Giuseppe Rensi, il sindacalista rivoluzionario 
                  Alceste De Ambris, il maestro Artuto Toscanini, il giurista 
                  Silvio Trentin, solo per fare qualche esempio) e aggiungendo 
                  i favoriti (Leandro Arpinati, Arnaldo Mussolini e molti altri). 
                  Fino a che, nel 1932, “attraverso complesse strategie 
                  d'inserimenti e cancellazioni” (p. 165) viene stilato 
                  un elenco di 147 nominativi (ulteriori aggiunte si avranno negli 
                  anni successivi) a cui è concesso il “brevetto 
                  sansepolcrista”. La seconda parte del volume contiene 
                  circa 200 dettagliate schede biografiche di sansepolcristi e 
                  presunti, ancorché certificati, tali, compilate utilizzando 
                  anche documentazione tratta dalle schede personali inedite conservate 
                  presso l'Archivio centrale dello Stato. 
                  Insomma, “Fascismo anno zero” è un buon libro, 
                  utile a comprendere meglio il 1919 e gli uomini – meno 
                  presenti sulla scena pubblica, invece, le donne – che 
                  hanno attraversato “una pagina di storia complessa, contraddittoria 
                  e ambigua, diversa da come ci è stata raccontata, affollata 
                  di attori destinati a rivestire nuove parti nel dramma italiano” 
                  (p. 6). 
Luigi Balsamini 
                 
                      
                Anarchici marchigiani/ 
				Un romanzo di fede, speranza e anarchia 				
				“Era il 1897: Lupo nasceva alle soglie del secolo nuovo, 
                  nell'anno in cui Errico Malatesta veniva braccato ad Ancona 
                  mentre scriveva sulle pagine di L'Agitazione”. È 
                  questo il registro di Un giorno verrà, romanzo 
                  di Giulia Caminito (Bompiani, Milano 2019, pp. 239, € 16,00) 
                  uscito lo scorso febbraio e che sarebbe bello incontrasse molti 
                  lettori. 
                   Una 
                  storia intensa, di fratellanza e d'anarchia, un racconto di 
                  Storia e microstoria mirabilmente congiunte, tra realismo crudo 
                  a tratti magico e memoria commovente. Giulia Caminito s'è 
                  fatta guidare dall'idea di voler scrivere “un libro sugli 
                  anarchici marchigiani, un libro su Nicola Ugolini e su quelli 
                  che come lui ci avevano creduto, superando i pregiudizi dell'anarchia 
                  bombarola, dei violenti e insensati gesti, dei briganti e dei 
                  semina guai”, come l'autrice scrive nella nota finale. 
                  Un romanzo storico, dove il bisnonno anarchico dell'autrice 
                  rivive nel vecchio Giuseppe Ceresa – cospiratore mazziniano 
                  e anarchico con Malatesta nel Matese – ma anche nel giovane 
                  Lupo suo nipote, forte e irruente, che prende coscienza della 
                  sua condizione e si fa agitatore contadino, tra i mezzadri di 
                  Serra de' Conti e dei colli del Misa e dell'Esino – “vendemmiatori, 
                  armati di falcinella, che dovevano dividere grappoli e trecce, 
                  decidere se c'erano acini troppo belli per venir calpestati 
                  che andavano messi da parte per la tavola dei padroni” 
                  – e poi infiammato rivoluzionario nella Settimana Rossa 
                  ad Ancona; ma pure in Nicola, “bambino di mollica”, 
                  che supera ancestrali debolezze e intime disperazioni dentro 
                  le atrocità della guerra in cui, poco più che 
                  ragazzo, viene catapultato. Nel libro c'è la Storia descritta 
                  attraverso storie, racconti, narrazioni, che ricreano memoria 
                  e la recuperano a una conoscenza che, se lasciata alla sola 
                  storiografia, rischierebbe seriamente di perdersi. 
                  “Nicola era il bambino delle ombre e come ombra sarebbe 
                  voluto sparire. [...] Lupo era animale notturno, era segno di 
                  maledizione, ti avrebbe seguito in sogno, con te sarebbe sceso 
                  sottoterra.” Lupo e Nicola vivono in simbiosi, in una 
                  solidarietà fraterna che li fa essere una vita sola, 
                  “non si erano tolti l'abitudine, nonostante tutto, di 
                  dormire nello stesso letto come da bambini, anche se Lupo forse 
                  bambino non era mai stato e ora si sentiva grande abbastanza 
                  da fare la rivoluzione. [...] Loro vivevano in un mondo di gente 
                  che lavorava, e chi lavora sa di doversi fare male, con una 
                  falce, con un vecchio ferro, cadendo da un fienile, schiacciato 
                  da un carro, battuto da uno zoccolo, trascinato troppo al largo 
                  da un peschereccio, bruciato da una pala del pane bollente, 
                  piegato tra incudine e martello, il loro era un corpo che doveva 
                  ferirsi. Di ciò bisognava farsene una ragione, restare 
                  attenti, vigili con gli strumenti e con le persone, con le bestie 
                  e le tempeste, ma pensarsi forti abbastanza da non venire soffiati 
                  via.” 
                  Il linguaggio di Caminito è scorrevolissimo, originale 
                  e coinvolgente, quasi un narrato in presa diretta che, leggendo, 
                  ti pare ascoltare dalla viva voce dei protagonisti nel mentre 
                  gli eventi svolgono il loro corso. “La prima volta che 
                  Gaspare gli aveva parlato d'anarchia erano seduti a mangiare 
                  dell'uva davanti alla vigna dei Garelli. Dopo aver sputato un 
                  paio di semi, aveva raccontato: Ho sentito uno ad Ancona, diceva 
                  delle cose che mi sono piaciute. Diceva che non dobbiamo votare 
                  anche se adesso potremmo, che sperare nel governo è come 
                  aspettare che la luna cada sul mare, diceva che non dovrebbero 
                  esistere differenze, non dovrebbero esserci ingiustizie, non 
                  dovremmo lavorare per altri ma solo per noi stessi, non dovrebbero 
                  starci padroni o proprietari, non dovrebbero esistere chiese 
                  o preti, né leggi né obblighi né divieti, 
                  se non quelli per stare bene, da decidere per convivere, per 
                  collaborare, essere tutti uguali, e che sta a noi lottare.” 
                  Benvenuto allora questo bel libro, dolcissimo e duro, epico 
                  e popolare, che narra storie vere intrecciate ad altre verosimili, 
                  preziosissimo soprattutto in quest'era di postmemoria, 
                  in cui è forse proprio attraverso il racconto che si 
                  possono trasmettere al meglio le esperienze degli eventi storici. 
                  “Lupo non era mai stato bravo a parlare, preferiva ascoltare 
                  e decidere, e quando Malatesta parlava lui ascoltava, le sue 
                  parole erano medicina, erano soccorso, le sue parole davano 
                  ordine ai suoi pensieri, alle sue rabbie, alle incomprensioni”. 
                  A Villa Rossa, dopo il comizio di Malatesta e la polizia che 
                  sbarra i cancelli per non farli manifestare per le vie di Ancona, 
                  Lupo e gli altri alzano i pugni e le voci e provano a sfondare 
                  i cordoni, perché “era giusto non andare in guerra, 
                  era giusto che loro avessero la paga che gli spettava, era giusto 
                  poter mandare Nicola a scuola, era giusto che Gaspare avesse 
                  la metà di quello che coltivava, era giusto non crepare 
                  mentre rubavi una mela, era giusto che le terre tolte ai preti 
                  venissero date a loro, a chi ci viveva, a chi le lavorava, a 
                  chi le amava, poi la polizia iniziò a sparare. Lupo si 
                  voltò a un grido e vide Nello cadere. Avrebbe letto sui 
                  giornali e sui manifesti il nome di Nello Budini, il giorno 
                  dopo e molti giorni a venire”. 
                  Il racconto si fa anche qui modalità del pensiero, e 
                  la narrazione storica non è solo resoconto e sintesi 
                  di indagini, ma anche strumento della stessa ricerca. “Lupo 
                  ci aveva davvero creduto, dopo i fatti di Villa Rossa, che potesse 
                  scoppiare la Rivoluzione, per una settimana Ancona era stata 
                  loro, le bandiere nere e rosse erano state appese sui campanili 
                  delle chiese e i pali della luce, dalla Romagna arrivavano notizie 
                  di vittoria, il Re era stato messo in fuga, dicevano, tutta 
                  l'Italia si è ribellata, stanno proclamando la Repubblica, 
                  la gente cantava la Marsigliese nelle strade, i ferrovieri avevano 
                  scioperato compatti, Malatesta aveva organizzato posti di blocco 
                  in tutta la città, avevano saccheggiato granai e requisito 
                  armi, avevano fatto capire che avrebbero potuto prenderla a 
                  calci questa loro Italia bigotta, borghese, piccola.” 
                  E ancora, per descrivere il dramma di un passaggio cruciale, 
                  ecco un incontro tra due vecchi amici che di lì a poco 
                  si sarebbero riscoperti irriducibili avversari: “Hai scordato 
                  l'abisso, aveva detto l'uomo alto e il vento si era spostato 
                  su Piazza del Duomo. L'abisso morale e politico che ci divide 
                  da chi vuole dominare. Abbiamo dei doveri verso i giovani, quelli 
                  che abbiamo trascinato nell'antimilitarismo e oggi non possiamo 
                  ributtare in pasto al nemico. [...] L'uomo basso si era messo 
                  a inveire, gonfiando le vene del collo, con le mani aveva disegnato 
                  cerchi in aria parlando di vacuità dell'internazionalismo 
                  [...]. Così Armando Borghi aveva detto addio a Benito 
                  Mussolini.” 
                  E poi c'è lei, “la Moretta” suor Clara, Abbadessa 
                  sudanese del monastero di Serra che tutti aiuta, e che i serrani 
                  difendono perfino con una storica sassaiola contro le 
                  carrozze del Vescovo, quando vuole portargliela via. È 
                  lei che evoca la speranza di giustizia del titolo: “un 
                  giorno verrà”, lei che pure intende “il giudizio 
                  di Dio”, rivolta al prete che ha abusato di una giovane 
                  del paese. “Voi mi fate paura, Sorella, disse Lupo prima 
                  che lei scomparisse. E come mai? Chiese suor Clara fermandosi 
                  sulla soglia. Perché credete davvero nelle menzogne che 
                  dite, spiegò Lupo. Non è forse quello che fai 
                  anche tu? Credere in qualcosa che per gli altri è menzogna? 
                  Domandò la suora. Lupo fece per rispondere ma poi rimase 
                  in silenzio”. Forse, allora, è una fede pulita 
                  declinata in atti solidali che può accomunare, una coscienza 
                  dell'universalità del senso di giustizia, quella stessa 
                  per cui “la Marca era il suo luogo, l'angolo di mondo 
                  per cui lottare e da difendere, ma l'anarchia era l'umanità, 
                  non voleva campanilismi, non voleva confini e nazioni, si stendeva 
                  come mare e toccava ogni costa, superava alte barriere e creava 
                  ponti sopra il corso dei fiumi più burrascosi.” 
Massimo Lanzavecchia 
                 
                      
                Contro l'istituzione (scolastica)/ 
				La normalità della dissociazione 				
				Mettere in discussione il principio dell'unicità e omogeneità 
                  dell'io come indice di sanità ed equilibrio mentale, 
                  e di contro mostrare la normalità e i vantaggi dell'esistenza 
                  di identità multiple, è il fine di un volumetto 
                  che raccoglie gli scritti di tre studiosi francesi, Patrick 
                  Boumard, George Lapassade e Michel Lobrot e che ha per titolo 
                  Il mito dell'Identità. Apologia della dissociazione 
                  (Sensibili alle foglie, Roma 2018, pp. 136, € 14,00). 
                   A 
                  lungo ritenuta sintomo patologico, addirittura di tipo schizofrenico, 
                  la dissociazione psicologica viene ricondotta, dai tre autori, 
                  ad un momento del tutto normale e ordinario della vita di ogni 
                  individuo, portato spesso ad assumere vesti e azioni di un immaginario 
                  altro da sé: la sua dissociazione è un'evasione, 
                  una fuga, una fantasticheria creativa e fantasiosa, utile per 
                  rompere, sfuggire, aggirare le norme e le rigide regole dei 
                  ruoli, imposti dalla società e dalle istituzioni e dai 
                  poteri che le reggono e le modellano, dettando le condotte e 
                  i convincimenti che devono essere di tutti. 
                  Dissociato è, per esempio, l'alunno 'svogliato' - come 
                  ampiamente documenta e spiega Boumard nel primo degli scritti 
                  del volume - che fa baccano, che si distrae, magari perché 
                  non assimila e riproduce il modus operandi dell'alunno 
                  che l'Istituzione scolastica vorrebbe che fosse: obbediente, 
                  nella costrizione della classe e diligente, nel rispetto dei 
                  ritmi e dei contenuti di un insegnamento che non lascia spazio 
                  al bambino, al ragazzino o all'adolescente che frequenta la 
                  scuola, d'essere libero di inseguire i suoi sogni e desideri 
                  e di inventarsi personaggi altri da sé e mondi altri 
                  dal proprio. E della dissociazione a scuola, parla a lungo Boumard, 
                  poiché quella scolastica è un'Istituzione che 
                  più di altre è visibile e riconoscibile da tutti, 
                  e nella quale il livello della dissociazione psicologica degli 
                  allievi di ogni ordine e grado, prende sempre più corpo 
                  in un insieme variegato di forme (dal semplice e diffuso chiacchiericcio 
                  alle più ostinate forme di vero e proprio rifiuto dello 
                  studio, come nel caso classico dell'allievo 'scaldabanco'), 
                  segnalando la grave crisi dei metodi attuali di insegnamento 
                  e il fallimento delle pedagogie 'storiche' e dei metodi che 
                  a queste ancora continuano ad ispirarsi. 
                  La normalità della dissociazione - negata e combattuta 
                  a scuola come devianza e patologia invece d'essere vista come 
                  reazione di rifiuto e resistenza - viene rafforzata, nel secondo 
                  contributo del libro, da Lapassade che ben segnala come questa 
                  sia da tempi immemorabili presente nelle più diverse 
                  culture e tradizioni umane. E Lapassade, in particolare, esamina 
                  e spiega i meccanismi e le funzioni della dissociazione nelle 
                  pratiche sciamaniche, delle quali ha parlato nei suoi noti libri 
                  Carlos Castaneda; e Lobrot chiude gli scritti del libro con 
                  un intervento che approfondisce il discorso sulla trance 
                  sciamanica allargandolo a tutte le forme di Modificazione degli 
                  Stati di Coscienza, attraverso rituali magico-religiosi, sedute 
                  meditative e assunzione di droghe psichedeliche. 
                  Nel complesso dei diversi studi di Bourmand, Lapassade e Lobrot, 
                  la pratica e la manifestazione della dissociazione non viene 
                  più negativizzata e stigmatizzata come turba psichica 
                  ma viene compresa come risorsa attivata per sopravvivere in 
                  ambienti e situazioni ostili e opprimenti e legittimata come 
                  affermazione della libera espressione di sé nella multiforme 
                  varietà dei piani e dei modi in cui l'identità 
                  di ciascuno può fluttuare: creativa e diversa, contro 
                  e oltre la vincolatività della Norma, omogenea e unica. 
Silvestro Livolsi 
                 
                      
                Nairobi, Kenia/ 
				Lo slum disegnato e raccontato 				
				 Dieci 
                  giorni in uno “slum” di Nairobi degli scrittori 
                  e sceneggiatori Danilo Deninotti, Giorgio Fontana e del disegnatore 
                  e fumettista Lucio Ruvidotti, che raccontano (Lamiere – 
                  storia di uno slum di Nairobi, Feltrinelli 2019, Milano 
                  2018, pgg. 144, € 16,00) la loro esperienza personale in 
                  visita alla baraccopoli “Deep Sea”, accompagnando 
                  una missione di medici di una piccola onlus italiana Rainbow 
                  for Africa e accolti dal frate Ettore Marangi. I tre raccontano 
                  la loro esperienza in prima persona con uno stile della narrazione 
                  molto semplice e scorrevole e un utilizzo del colore incredibilmente 
                  affascinante. 
                  Che cos'è uno slum? Mai sentito nominare prima? Pensi 
                  che in Kenya ci siano solo savane sconfinate con leoni che rincorrono 
                  gazzelle? Queste pagine riflettono esattamente la sensazione 
                  d'ignoranza per chi questo qualcosa non lo conosce, e sicuramente 
                  forniscono un primo sguardo critico su un altro tipo di realtà. 
                  Sia l'uso del colore sia lo stile del disegno sono capaci di 
                  trasportarti direttamente in una metropoli come Nairobi, al 
                  centro del continente africano, alternando colori forti e soleggiati 
                  di umanità e speranza, a contrasti emozionali che riflettono 
                  il sentimento di chi racconta, a tonalità di grigi e 
                  marroni tipici delle strade fangose mano a mano che ci si addentra 
                  nello slum, mostrando la ruvidità del contesto senza 
                  scadere nello scioccante iperrealismo delle immagini. 
                  Proprio per questo adoro i reportage disegnati, perché 
                  possono raccontare dandoti il tempo di addentrarti nel contesto, 
                  di ascoltare, di riflettere e soprattutto di stimolare a saperne 
                  di più invece che scioccarti e cambiare pagina. Un interessante 
                  reportage a fumetti mixato con un diario di viaggio, che si 
                  legge velocemente, intervallato da schede grafiche chiare e 
                  sintetiche che danno un po' di numeri e aiutano a mettere in 
                  luce alcuni punti critici introducendo il contesto sociopolitico 
                  del Kenya. 
                  Il testo lancia non poche riflessioni su giustizia sociale, 
                  legalità, circolarità della povertà (difficile 
                  uscire da uno slum, la maggior parte delle volte ci si resta 
                  “inchiodati”, “schiavi della povertà”), 
                  uguaglianza di genere, abitare globale, sostenibilità 
                  degli interventi delle onlus e delle organizzazioni non governative 
                  che agiscono in questi contesti; alle volte si cade nel cliché, 
                  ma non sempre, o forse può sembrare così per chi 
                  in contesti simili ci lavora. I tre in viaggio danno bagliori 
                  di luce alle storie delle persone che incontrano, molto brevi 
                  ma intense, e le riflessioni a volte partono da li, ma forse 
                  troppo spesso la lettura del contesto parte dai protagonisti 
                  occidentali con anche un pizzico di spirito “missionario”. 
                  Ad ogni modo la realtà è inevitabilmente più 
                  complicata e complessa di quanto si possa pensare di capire 
                  in meno di due settimane di viaggio, e per questo è da 
                  apprezzare la conclusione ”una storia come questa ha 
                  senso solo se è il primo passo”. 
                  
                 Questa lettura può darci un primo piccolo spunto di 
                  riflessione sul ritrovarsi chiusi, quasi schiavi, a vivere in 
                  uno dei quartieri più sovraffollati di Nairobi, uno slum 
                  appunto, sulla sopravvivenza di una popolazione sommersa, sulle 
                  resistenze e la volontà dell'uomo ma soprattutto della 
                  donna, sul “non ci sono poteri buoni”. Ci può 
                  aprire alla curiosità d'interrogarsi sull'immensa diversità 
                  e complessità africana e invogliare a documentarsi, leggere 
                  e provare ad avere più elementi per costruire il proprio 
                  pensiero, magari anche ad andarci oppure parlarne con qualche 
                  keniota che vive in Italia. 
Valeria De Paoli 
                 
                      
                Mary Gauthier/ 
				Il blues o lo zip-a-dee-doo-dah? 				
				“Ci sono solo due tipi di musica: il blues e lo zip-a-dee-doo-dah”. 
                  Così c'è scritto su un quadro che campeggia in 
                  casa di Mary Gauthier. Ogni vero artista oggi, soprattutto oggi, 
                  è chiamato ad una scelta di campo: l'impegno o l'evasione. 
                  Mary Gauthier è una cantautrice statunitense, una vera 
                  artista, e ha scelto l'impegno. Rifles and Rosary Beads 
                  (Fucili e grani di rosario, Etichetta Thirty Tigers / 
                  Appaloosa, distribuito in Italia in edizione con traduzione 
                  a fronte da IRD, International Records Distribution), il suo 
                  ultimo album, è costituito da undici delle tante canzoni 
                  che la Gauthier ha scritto con soldati americani reduci da vari 
                  conflitti, soprattutto Iraq e Afghanistan, nell'arco di quattro 
                  anni. Assistiti da psicologi, soldati e soldatesse hanno affrontato, 
                  attraverso le canzoni, un percorso di restituzione e di confronto 
                  con il trauma della guerra. Mary ha saputo ascoltare e farsi 
                  carico di questo dolore e sono nate canzoni che guariscono, 
                  canzoni-medicine. 
                  Non vi racconto per sentito dire, ma perché sono stato 
                  testimone e ho partecipato alla realizzazione di questo progetto: 
                  da tanti anni collaboro con Mary Gauthier in concerto, la accompagno 
                  con il mio violino e altri strumenti. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Londra, Auditorium King's Place, 10 maggio 2018 
                        foto di Debora Locci  | 
                   
                 
                 Da subito lei mi parlò di questo progetto, da subito 
                  cominciammo a suonare queste canzoni dal vivo, mano a mano che 
                  venivano scritte. Ho conosciuto questi uomini e donne: tanti 
                  di loro, giovanissimi, potrebbero essere miei figli. Le canzoni 
                  di Rifles and Rosary Beads aggiornano la canzone contro 
                  la guerra: non più inneggiare o implorare la pace, ma 
                  mostrare i disastri della guerra nel cuore, nella mente e nel 
                  corpo di queste persone. È terribilmente più efficace. 
                  È una preghiera per la pace che mostra l'orrore della 
                  guerra dall'interno. È anche e forse soprattutto un album 
                  di denuncia che dice l'indicibile su ciò che avviene 
                  nell'esercito americano: ad esempio una canzone è stata 
                  scritta con una donna che racconta che il suo nemico non è 
                  stato l'Iraq, ma gli uomini con cui era in missione che, con 
                  sistematica spietatezza, hanno abusato di lei. 
                  Lavorare a questo album ci ha spinti a rivedere i nostri stereotipi. 
                  Pensavo, onestamente, che un soldato, capace di montare un'arma 
                  in pochi secondi, avesse ben poco da condividere con me che 
                  non ho fatto il servizio militare e non ho mai maneggiato un'arma. 
                  Invece questi uomini e donne mi hanno insegnato la pace. 
                  Paradossale insegnamento da parte di un soldato. Dovremmo già 
                  saperlo, in realtà: già Ungaretti dovrebbe avere 
                  insegnato a noi italiani che non sono certo i soldati ad amare 
                  la guerra. Interessante, poi, scoprire che tante sono le ragioni 
                  che spingono un ragazzo a fare il soldato, in America. Innanzitutto 
                  le ragioni sono di carattere economico: spesso è l'unico 
                  modo per chi appartiene ad una classe sociale disagiata per 
                  accedere ad una istruzione superiore. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Londra, Auditorium King's Place, 10 maggio 2018 - 
                        Da sinistra: Michele Gazich e Mary Gauthier 
                        foto di Debora Locci  | 
                   
                 
                 Quattro anni per scrivere queste canzoni; quattro giorni per 
                  registrarle, nel 2017 a Nashville, poi è cominciato il 
                  tour, che è durato più di un anno: dal gennaio 
                  2018 al marzo 2019 più di duecento concerti in USA e 
                  in Europa; nell'ottobre 2018 abbiamo toccato anche l'Italia. 
                  Sapevamo di avere una missione, nel portare in giro queste canzoni-medicine 
                  spirituali, scritte per ricordare che dietro l'odio da qualche 
                  parte l'amore sopravvive. Queste canzoni possono cambiare la 
                  vita: certamente hanno cambiato la mia. 
                  L'album era ed è così necessario che è 
                  stato ascoltato e premiato in giro per il mondo, ha ricevuto 
                  addirittura una inaspettatissima nomination ai Grammy 
                  Award 2019, dimostrandoci che se il messaggio è chiaro 
                  e forte riesce a infilarsi anche in una qualche crepa dei centri 
                  commerciali. Anche se il regime / i regimi degli stati del nostro 
                  devastato occidente non vogliono nulla di tutto ciò, 
                  ogni tanto qualcosa riesce a trapelare anche per radio o ciò 
                  che resta di esse, a disturbare la musica di regime (che è 
                  oggi sempre e solo evasione), a disturbare, almeno per un attimo, 
                  gli importanti flussi monetari. 
                  Quest'album è stato fondamentale per me anche nello specifico: 
                  ho identificato un metodo di lavoro che mi sono trovato tra 
                  le mani e ho poi utilizzato per la costruzione delle canzoni 
                  del mio album Temuto come grido, atteso come canto (recensione 
                  di Alessio Lega su “A” 431, febbraio 2019). 
                  Mi spiego: Mary Gauthier ha scritto con un soldato o soldatessa 
                  ogni canzone: ogni canzone dà una prospettiva diversa 
                  sulla guerra, ognuna veicola una storia, ognuna parla di uno 
                  specifico essere umano. Ognuna delle mie canzoni fa la stessa 
                  cosa, dialogando con i pazienti ebrei deportati nel 1944 dal 
                  manicomio di San Servolo (Venezia), attraverso le informazioni 
                  che ho trovato nelle loro cartelle cliniche: ogni canzone una 
                  storia, ogni canzone un incontro. 
Michele Gazich  
Nota: La massima scritta sul quadro a olio in casa di Mary Gauthier è di Townes Van Zandt (1944-1997), che è uno dei più significativi e introspettivi cantautori americani del Novecento. Per chi non lo conoscesse, giunga qui un mio caloroso invito all'ascolto anche delle sue canzoni. 
                 
                      
                Il caso Restelli/ 
				Una brutta pagina per gli anarchici italiani 				
				Partiamo dall'epilogo, tragico. 
                  Tardo pomeriggio del 5 settembre 1933. Al confine italiano con 
                  la Svizzera, in località Albero di Sella a 900 metri 
                  s.l.m., i finanzieri di servizio allertano due militi della 
                  Confinaria in pattugliamento. Rumori sospetti provenienti dalla 
                  boscaglia fanno supporre la presenza di malintenzionati in procinto 
                  di espatriare illegalmente. E infatti, poco dopo, “...la 
                  Camicia Nera Antonio Marchesini grida il Chi va là 
                  fermi o sparo!, poi tira tre colpi di moschetto in aria. 
                  All'improvviso un uomo esce da un cespuglio tra la prima e la 
                  seconda curva della strada militare e si mette a correre in 
                  direzione del primo milite: non più di trenta metri li 
                  separano. Altri due uomini dalla strada militare si infilano 
                  nel bosco, a valle. L'uomo uscito allo scoperto continua a correre 
                  in discesa, verso il milite [...] Il milite prende la mira ed 
                  apre il fuoco, uccidendolo. Poi rivolge l'arma verso gli altri 
                  due, che stanno fuggendo a valle. Spara loro alle spalle, colpendone 
                  uno; l'altro salta un piccolo burrone e riesce a dileguarsi...” 
                  (p. 91). Le vittime sono due anarchici: Mario Avellini e Carlo 
                  Restelli detto Cialli (Charlie). La ricostruzione ufficiale 
                  di questo fatto, evidentemente lacunosa (con il comportamento 
                  fin troppo formale dei militi, con la strana sequenza) presenta 
                  “troppe zone d'ombra, che potrebbero far pensare ad un 
                  agguato o ad un'esecuzione in piena regola” (p. 92). 
                   L'autore 
                  di queste pagine, Alessandro Pellegatta (Infinita tristezza. 
                  Vita e morte di uno scalpellino anarchico, Zingonia - Bg 
                  2018, pagine marxiste, pp. 120, € 8,00) è un recidivo 
                  e competente narratore di avvincenti storie proletarie otto-novecentesche. 
                  Il tema trattato è il tradimento, ovvero il sospetto 
                  ingiusto e infondato di tradimento. Il titolo del libro (che 
                  riecheggia un vecchio successo del musicista franco-spagnolo 
                  Manu Chao) potrebbe apparire, di per sé, poco attraente. 
                  Eppure raffigura, con efficacia purtroppo, lo stato d'animo 
                  e l'amarezza che pervadono il lettore una volta giunto all'ultima 
                  riga. Scritto con sentimento e partecipazione, basato su un 
                  uso rigoroso delle fonti, il saggio racconta la movimentata 
                  vita di Restelli Cialli, proprio uno dei “fucilati” 
                  in quell'episodio oscuro del 1933. 
                  Scalpellino anarchico, nato nel 1880 negli Stati Uniti da una 
                  famiglia di emigrati dalla provincia di Varese. Si forma politicamente 
                  negli ambienti “galleanisti” del Vermont dove la 
                  comunità italiana è divisa in fazioni contrapposte, 
                  causa anche la contemporanea presenza in loco di due leader 
                  importanti, il socialista Giacinto Menotti Serrati e, appunto, 
                  l'anarchico Luigi Galleani. Colpito da provvedimento di espulsione, 
                  Restelli rientra in Italia nel 1906, partecipa all'esperienza 
                  coinvolgente della Scuola Moderna di Clivio. È in contatto 
                  con gli esponenti più conosciuti del movimento (fra cui 
                  Luigi Bertoni, Ugo Fedeli). Per varie vicissitudini personali 
                  si trova anche a scontare due anni di carcere a seguito di una 
                  condanna per furto. È richiamato alle armi in concomitanza 
                  della guerra europea ma decide, dopo pochi mesi, di disertare 
                  riparando in Svizzera. Qui, insieme ad altri connazionali ed 
                  esuli anarchici è coinvolto – ma poi prosciolto 
                  – nell'affaire delle bombe di Zurigo (accusato cioè 
                  di attentati a seguito del ritrovamento di esplosivi lungo la 
                  linea ferroviaria). Dopo l'amnistia del 1919 si stabilisce a 
                  Milano dove, insieme ad altri due compagni, Antonio Pietropaolo 
                  e Eugenio Macchi, impianta un'officina. 
                  È attivo militante e frequenta il vivace ambiente anarchico 
                  cittadino dove – come ha ben analizzato Antonio Senta 
                  – “un individualismo filosofico, letterario ed esistenziale 
                  va di pari passo con uno strettamente operaio” (p. 53). 
                  Dopo il gravissimo episodio del teatro Diana del marzo 1921 
                  è denunciato per correità nella strage, ossia 
                  per aver “ospitato” nel suo luogo di lavoro le riunioni 
                  preparatorie degli attentatori. Assolto in istruttoria, è 
                  qui che incomincia il suo vero calvario, insieme alla sua vita 
                  ancora più grama. Eh sì, perché “Come 
                  sempre avviene, – scriverà di lui il «Risveglio 
                  anarchico» (21 ottobre 1933) – per il fatto che 
                  si era miracolosamente salvato, certuni propalarono dei sospetti 
                  su di lui, contro i quali insorgemmo vigorosamente” (pp. 
                  94-95). 
                  Dopo le bombe del Diana l'esperienza della Scuola di Clivio 
                  si avvia alla chiusura; mentre rimane in piedi una difficile 
                  attività di soccorso ai perseguitati dal fascismo, di 
                  supporto logistico agli espatri clandestini. Cialli Restelli 
                  è intanto fatto oggetto di gravissime e non provate calunnie, 
                  accusato da uno dei suoi ex-compagni, Eugenio Macchi comproprietario 
                  dell'officina, di essere una spia della polizia. Le accuse sono 
                  pubblicate nel foglio newyorkese «L'Adunata dei Refrattari» 
                  e riprese dalla stampa comunista. Ancora vent'anni dopo la “fucilazione” 
                  continuerà, nei ranghi del movimento, il chiacchiericcio 
                  inconsulto a danno del povero Restelli, replicato in modo acritico 
                  e, soprattutto, senza alcun supporto documentario. 
                  Il lavoro di ricerca di Pellegatta, svolto con grande acribia 
                  e onestà intellettuale, ci richiama – fermo restando 
                  che, in storiografia come nel diritto, la responsabilità 
                  resta personale (e che non tutti gli anarchici si occupano di 
                  storia, mentre non tutti gli storici dell'anarchismo sono anarchici) 
                  – ad un'importante riflessione collettiva. Scrive in proposito 
                  l'autore nelle sue considerazioni finali: “Quell'umanesimo 
                  che gli anarchici rivendicano nella storica polemica contro 
                  noi marxisti freddi, autoritari, accentratori, è stato 
                  negato ad uno dei più umili militanti proletari del loro 
                  movimento, per di più ammazzato dai fascisti” (p. 
                  107). 
Giorgio Sacchetti 
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