Arditi del Popolo/ 
				Ma la storiografia “ufficiale” ha cercato di cancellarli 
                Nel secondo dopoguerra i partiti, fattisi imprenditori politici 
                  della memoria, avevano di fatto prestabilito metodi e “luoghi” 
                  deputati alla ricerca contemporaneistica, avevano a lungo e 
                  con protervia presidiato le scienze storiche, quasi paventassero 
                  imminenti invasioni di alieni. Così l'opposizione armata 
                  al primo fascismo in Italia era stata, e per troppo tempo, una 
                  pagina volutamente dimenticata in quanto non conforme, episodio 
                  rimosso della storia internazionalista e proletaria, vittima 
                  del revisionismo storiografico sia di destra che di sinistra. 
                   Un 
                  bel tomo, ricco, assai documentato e dall'editing raffinato, 
                  ricapitola ora questa storia epica che, ormai, è il caso 
                  di sottolinearlo, non può più considerarsi come 
                  “dimenticata”. Persino nelle pagine austere dell'Enciclopedia 
                  Treccani – ha annotato con malcelata ironia il prefatore 
                  di questo volume – si possono ora leggere (alla voce Ardito) 
                  informazioni corrette sugli Arditi del Popolo. 
                  Questa nuova edizione (la prima è del 2002) dello studio 
                  di Luigi Balsamini (Gli Arditi del Popolo. Dalla guerra alla 
                  difesa proletaria contro il fascismo (1917-1922), prefazione 
                  di Marco Rossi, Casalvelino Scalo, Galzerano editore, 2018, 
                  pp. 448, € 20,00) non solo aggiornata e ampliata ma “completamente 
                  ripensata e riscritta, nella forma e nei contenuti” (p. 
                  11), ci fornisce l'esatta misura di un intenso e plurale percorso 
                  storiografico venuto a maturazione in questi ultimi due decenni. 
                  Periodo nel quale si è focalizzata, con sempre maggiore 
                  insistenza, l'attenzione degli storici sugli esiti di breve 
                  e lunga durata del primo conflitto mondiale quale “atto 
                  di nascita della guerra civile europea”. È lo sviluppo 
                  conseguente delle antiche suggestioni di Ernst Nolte e di Eric 
                  Hobsbawm, ma in specifico poi anche di quelle di Ferdinando 
                  Cordova su arditi e legionari dannunziani (che risalgono addirittura 
                  al 1969). 
                  Il volume, corredato da un'importante e sostanziosa appendice 
                  documentaria, oltre che da una suggestiva e significativa rassegna 
                  fotografica, è articolato in undici densi capitoli: Introduzione; 
                  L'arditismo di guerra; Lo “spirito ardito” sul fronte 
                  interno; dai Fasci di combattimento al partito dell'ordine; 
                  Nascita e sviluppo degli Arditi del Popolo; La parabola dell'arditismo 
                  popolare; Il Partito comunista e l'inquadramento militare; Gli 
                  Arditi rossi di Vittorio Ambrosini; Gli Arditi del popolo e 
                  l'antifascismo anarchico; Nessuna pacificazione; Sulle ultime 
                  barricate, estate 1922. 
                  Se all'epoca della sua prima edizione questa monografia di Balsamini, 
                  così come gli scritti di Marco Rossi e Eros Francescangeli, 
                  dovevano considerarsi studi pionieristici e controcorrente, 
                  esemplare esito euristico del superamento nei fatti di certe 
                  impostazioni ideologiche ancora in auge nella sinistra storiografica, 
                  oggi il volume s'inserisce a pieno titolo in una rinnovata feconda 
                  stagione di ricerche. La rimozione ed espulsione di fatto del 
                  fenomeno dell'arditismo popolare dalle vicende complessive del 
                  movimento operaio e dall'antifascismo non era stata, evidentemente, 
                  solo il frutto di meschini calcoli o magari di gretti pregiudizi, 
                  ma la semplice diretta conseguenza dell'applicazione di un “metodo” 
                  aprioristico, inaccettabile in sede storica. La “rottura 
                  del monopolio statale della violenza” (Claudio Pavone) 
                  messa in scena con il protagonismo adrenalinico di chi aveva 
                  vissuto la trincea, elemento determinante per i successivi sviluppi 
                  socio-politici; ed il concetto stesso di “guerra civile”, 
                  applicato al primo dopoguerra già nel ponderoso saggio 
                  di Fabio Fabbri (Utet 2009) sulle origini del fascismo, sono 
                  concetti base e chiavi interpretative che qui troviamo ben utilizzati. 
                  È un metodo questo che dovremmo sempre applicare. 
                  Non bisogna aver paura di fare i conti con la Storia, e in particolare 
                  con quella disturbante e “scomoda” all'apparenza, 
                  dove cioè più si insinuano le contraddizioni. 
                  In tal senso appare palese, nella vicenda degli Arditi del Popolo, 
                  una sorta di militarismo antimilitarista, per così dire, 
                  degli anarchici. Anarchici che furono fondamentale componente 
                  di questo movimento. Contrastare le squadre di Mussolini, fin 
                  da subito e manu militari, erano gli intenti generosi 
                  ereditati, certo in forma spuria, dal cameratismo di trincea. 
                  Nell'arditismo popolare si era in parte ricomposta la frattura 
                  della guerra con la convergenza strategica nelle formazioni 
                  militarizzate sia di ex interventisti divenuti anti-mussoliniani, 
                  sia di antimilitaristi libertari e anarchici. 
                  Sul piano di un'analisi di lungo periodo, pur tenendo in debita 
                  considerazione la componente tradizionale e antica del sovversivismo 
                  popolare, rimarrebbe – ad avviso del recensore – 
                  da ricollocare opportunamente il pur breve eterogeneo fenomeno 
                  nell'alveo tumultuoso di una dimensione tutta “italiana” 
                  della storia europea. Un filone politico ideale, culturale della 
                  “Sinistra” nel nostro paese, a partire dal Risorgimento 
                  ha mantenuto una sua precisa riconoscibile identità su 
                  alcuni fondamentali assi di pensiero. Laicismo, insurrezionalismo, 
                  pluralismo, volontarismo, autonomia del movimento operaio, federalismo...: 
                  è la cifra dei principi su cui si attesteranno poi scambio 
                  e confronto fra libertari e azionisti-repubblicani, fra libertari 
                  e liberalsocialisti. Questo particolare lascito post-risorgimentale 
                  manterrà tracce ideali in significative esperienze novecentesche: 
                  nelle trincee del 1915-1918, nell'arditismo popolare antifascista 
                  come nella guerra di Spagna; finanche nella elaborazione “revisionista” 
                  di Camillo Berneri per quanto concerne la strategia anarchica 
                  novecentesca nelle alleanze per la lotta antifascista. 
Giorgio Sacchetti 
                 
                      
                Noam Chomsky/ 
				Il suo pensiero (anche) anarchico 				
				«Il patrimonio delle idee anarchiche e delle grandiose 
                  lotte di chi ha cercato di liberarsi dall'oppressione e dal 
                  dominio, deve essere custodito e tesaurizzato, non come mezzo 
                  per congelare il pensiero in un nuovo paradigma, bensì 
                  come base da cui partire per comprendere la realtà sociale 
                  e lavorare indefessamente per modificarla. Non vi è ragione 
                  di credere che si sia giunti alla fine della Storia e che le 
                  attuali strutture autoritarie e di dominio siano incise nella 
                  pietra. Sarebbe d'altra parte un grave errore sottovalutare 
                  le forze sociali che lotteranno per conservare il potere e il 
                  privilegio», così scrive Noam Chomsky nella prefazione 
                  al suo libro ultimamente pubblicato: Anarchia, idee per l'umanità 
                  liberata (Ponte alle Grazie, Firenze 2018, pp. 390, € 
                  18,50). 
                   Mentre 
                  Barry Pateman, sempre nella prefazione, sottolinea: «Lo 
                  scopo di questo volume è presentare alcune idee e riflessioni 
                  di Noam Chomsky sull'anarchismo, che è di solito ritratto 
                  da media come autorevole anarchico/libertario/comunista/anarcosindacalista 
                  (scegliete a vostro piacimento). In realtà, è 
                  lui stesso a collocarsi in questo orizzonte politico. Abbiamo 
                  selezionato una serie di saggi con l'intento di far conoscere 
                  e apprezzare ai lettori non soltanto il contributo di Chomsky 
                  al pensiero anarchico ma anche l'importanza dell'anarchismo 
                  oggi, come strumento per interpretare e cambiare il mondo. Questo 
                  volume raccoglie alcune conferenze e interviste mai pubblicate 
                  che, insieme ad altri scritti ormai noti, confermano e approfondiscono 
                  la visione di Chomsky su ciò che potrebbe essere l'anarchismo». 
                  E dal capitolo settimo «Anarchia, marxismo e speranza 
                  per il futuro» riprendo alcuni passaggi interessanti. 
                  «Noam, da sempre sei un difensore del pensiero anarchico. 
                  Molti conoscono la tua introduzione del 1970 al libro di Daniel 
                  Guerin, L'anarchisme. Ma anche di recente, ad esempio 
                  nel film documentario La fabbrica del consenso, hai colto 
                  l'occasione per rimarcare la potenzialità dell'anarchia 
                  e del pensiero anarchico. Cosa ti attrae dell'anarchismo? 
                  Ero attratto dall'anarchismo già da ragazzo, da quando 
                  cominciai a riflettere sul mondo da una prospettiva meno angusta. 
                  In seguito, non avrei trovato valide ragioni per cambiare idea. 
                  Penso che l'unica cosa sensata sia identificare e contrapporsi 
                  alle strutture autoritarie, gerarchiche e di dominio in ogni 
                  campo della vita: a meno che non si trovi una giustificazione 
                  per la loro esistenza, esse vanno considerate illegittime e 
                  dunque smantellate per estendere la sfera della libertà 
                  umana. Ciò vale per il potere politico, per la proprietà 
                  e la sua gestione, ma interessa anche i rapporti fra uomini 
                  e donne, fra genitori e figli, la responsabilità riguardo 
                  al destino delle prossime generazioni (che, a mio giudizio, 
                  dovrebbe essere l'imperativo categorico del movimento ambientalista) 
                  e così via. Ovviamente ciò significa sfidare le 
                  gigantesche istituzioni della coercizione e del controllo: lo 
                  Stato, le tirannie provate che dirigono irresponsabilmente gran 
                  parte dell'economia nazionale e internazionale, eccetera. Ma 
                  non solo. 
                  Ho sempre pensato che l'essenza dell'anarchismo sia l'idea che 
                  qualsiasi autorità che non riesce a farsi carico dell'onere 
                  della prova vada abolita. A volte è possibile.» 
                  E, a conclusione, l'indice di questo volume: 1. Obiettività 
                  e cultura liberale, 2. Linguaggio e libertà, 3. Note 
                  sull'anarchismo, 4. L'importanza dell'anarco-sindacalismo, 5. 
                  Prefazione ad Antologija anarhizma, 6. Contenere la minaccia 
                  della democrazia, 7. Anarchia, marxismo e speranza per il futuro, 
                  8. Obiettivi e visioni, 9 L'anarchismo, gli intellettuali e 
                  lo Stato, 10 Intervista con Barry Pateman, 11 Intervista con 
                  Ziga Vodonik. 
Luciano Lanza 
                 
                      
                Donne contro/ 
				Nella Resistenza (e non solo) 				
				La lunga lotta delle donne svolta a Roma, come in Italia, nell'800 
                  e nel corso del secolo scorso per l'autonomia e l'emancipazione, 
                  per i diritti e la propria libertà, ha trasformato in 
                  modo determinante la società patriarcale italiana, sotto 
                  l'aspetto antropologico, sociale e politico. Sebbene oggi la 
                  specificità di genere si sia imposta in diversi tipi 
                  di normative esistenti, da quelli relativi alla rappresentanza 
                  politica a quelli concernenti la tutela della salute e le pari 
                  opportunità, soltanto per citarne alcuni, tuttavia non 
                  si può affermare che la violenza sulle donne nel nostro 
                  Paese sia un ricordo di altri tempi. 
                   A 
                  ricordarci quanto ancora la violenza contro le donne sia presente 
                  nella società italiana, radicata con fitte radici, è 
                  la cronaca quotidiana delle aggressioni e dei femminicidi, nonché 
                  i dati forniti dal Telefono Rosa che, in un libro appena uscito, 
                  relativo alla sua attività trentennale, indica che in 
                  tale periodo ha assistito 700.000 donne. 
                  Pasquale Grella, in sintonia con la percezione di questa realtà, 
                  con il suo libro Sovversive ad honorem (L'Incisiva Edizioni, 
                  Roma 2018, € 10,00, pp. 104), ci ricorda quanto sia importante 
                  conservare e accrescere ciò che, a Roma, le donne (anarchiche 
                  e non) hanno conquistato nello scorso secolo. Questo libro cita 
                  donne di assai rilevante statura come Anna Kulisciof, Maria 
                  Montessori, Eleonora Fonseca Pimental, Cristina Trivulzio di 
                  Belgiojoso, Luigia Minguzzi, Giuditta Tavani e dà voce 
                  a donne perlopiù sconosciute, che hanno contribuito a 
                  creare la base della democrazia. 
                  Grella, con sensibilità partecipe, ci descrive anche 
                  gli enormi sacrifici affrontati dalle donne che si opposero 
                  alla violenza dello squadrismo e allo strapotere fascista e 
                  che, dopo l'8 settembre del '43, lottarono nella Resistenza. 
                  A questo proposito l'autore riporta fatti di inumana ferocia 
                  che videro le donne pagare le proprie idee di libertà 
                  con torture fisiche e morali e con la morte. 
                  L'autore descrive come, nel secondo dopoguerra, i due partiti 
                  egemoni intesero riportare le donne resistenti nelle mura di 
                  casa e come ciò avvenne con contrasti tra queste e i 
                  dirigenti comunisti. 
                  Dal libro emerge soprattutto una profonda differenza tra l'attività 
                  intrapresa prima e durante il fascismo. Fin dai primi del '900, 
                  quest'attività fu aperta e diffusa, intrapresa dalle 
                  donne anarchiche in gruppi “di genere” e in gruppi 
                  “misti” contro la povertà, la miseria, le 
                  abitazioni malsane, la mortalità infantile il militarismo; 
                  attività che, durante il fascismo, divenne limitata e 
                  spiata in ogni modo dal regime totalitario, sottoposta al ricatto 
                  di vedersi togliere i figli per eccessiva opposizione sociale 
                  e politica. 
                  La sopraddetta attività svolta fino all'avvento del fascismo 
                  è contestualizzata nella storia sociale e politica della 
                  città di Roma, quando l'orientamento democratico del 
                  sindaco Nathan nella gestione della edificazione di case popolari 
                  e nello sviluppo dei servizi pubblici della città, venne 
                  sopraffatto dagli interessi dei grandi proprietari terrieri. 
                  Il periodo giolittiano vede il movimento anarchico romano ben 
                  radicato in città e nella campagna romana, partito tra 
                  gli altri partiti. Grella ricorda la lotta del movimento per 
                  un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, come 
                  ad esempio per l'utilizzo del chinino contro la malaria e per 
                  la salute nelle campagne malsane. La lotta si riallacciava alla 
                  propaganda e all'azione costruttrice di Errico Malatesta: Grella 
                  scrive che “gli anarchici, sotto le direttive di Bakunin 
                  e dei primi internazionalisti, muovono i loro primi passi proprio 
                  verso questa direzione che ha come parola d'ordine la scolarizzazione 
                  di massa, la creazione delle stazioni sanitarie in tutti i rioni, 
                  e nelle sezioni di campagna, avviando una durissima battaglia 
                  contro il caporalato. Si muovono con il fine di far riconoscere 
                  ai maestri anche il ruolo di registrazione delle nascite. Su 
                  tutti il documento Fra i contadini, scritto da Errico 
                  Malatesta, il più diffuso documento politico anarchico 
                  che spinge la partecipazione nelle scuole di campagna, nella 
                  costituzione di biblioteche popolari e di rione, nei centri 
                  sanitari pubblici”. 
                  Nel libro vengono tracciati alcuni profili di donne anarchiche 
                  nate o abitanti a Roma, fra i quali quello di Annamaria Pietroni 
                  che “nel 1965 entra a far parte della nuova redazione 
                  di Umanità Nova raccogliendo attorno a sé 
                  un nuovo e agguerrito gruppo di giovani anarchici con i quali 
                  guiderà la controinformazione militante all'indomani 
                  della strage di Stato del dicembre del 1969”. 
                  La Bibliografia e un racconto molto commovente sulla memoria 
                  di una Roma sparita, concludono un grande libro. 
                  Il libro, oltre a essere un'esperienza di conoscenza di fatti, 
                  idee e generose militanze – condensati in un testo rigoroso, 
                  sintetico e completo – è anche un'esperienza emotiva. 
                  A rappresentare il valore e il messaggio del libro, basta il 
                  commiato dell'autore: “Forse questo è il segreto 
                  della memoria, le parole e i sogni che rimangono dentro le persone 
                  che ascoltano, e se è così allora mi sento sicuro 
                  perché non sono solo.” 
Enrico Calandri 
                 
                      
                Psichiatria e infanzia/ 
				Contro la medicalizzazione della libertà 				
				 Se 
                  si può dire che il tipo di malattia/disagio siano sempre 
                  stati specchio della società in cui si sviluppano, possiamo 
                  anche dire che il disagio e le malattie dei nostri giorni sono 
                  conseguenti alla paura. Paura di perdere il controllo, ansia 
                  di non farcela, stress per riuscire a mantenere il ritmo della 
                  corsa. E la cosa peggiore di tutto è che questo sta coinvolgendo 
                  fasce di età sempre più giovani, entrando in ambienti 
                  come la scuola il cui scopo dovrebbe essere lontano mille miglia 
                  da qualsiasi ansia di prestazione o competitività. Ma 
                  quando a bambini di una dozzina d'anni viene dato un “cartellino 
                  da timbrare” – lo chiamano badge (distintivo) 
                  in inglese – che va usato all'ingresso di scuola, così 
                  da sapere sempre chi c'è e chi non c'è ed evitare 
                  di perdere tempo con l'appello, il segnale è pessimo, 
                  indica qualcosa che velocemente sta trasformando la scuola pubblica 
                  in un luogo di addestramento piuttosto che di educazione, un 
                  posto dove essere bambini non si può. 
                  Divieto d'infanzia. Psichiatria, controllo, profitto, 
                  a cura di Chiara Gazzola e Sebastiano Ortu (Pisa 2018, pp. 94, 
                  € 10,00) e ristampato nel 2018 da quelli della casa editrice 
                  BFS, è un libro uscito in prima edizione dieci anni fa, 
                  creando un certo allarme, in quanto denunciava come sofferenze 
                  psicologiche causate da problematiche sociali venissero “risolte” 
                  prescrivendo farmaci in grado di controllare i sintomi. Oggi 
                  che l'assunzione di psicofarmaci, regolarmente prescritti, è 
                  in continuo aumento da parte di tutta la popolazione mondiale, 
                  si è resa necessaria una ristampa che aggiornasse soprattutto 
                  sulle diagnosi riguardanti infanzia e adolescenza. 
                  Siamo parte di una società che offre precarietà 
                  in cambio di efficienza e concorrenzialità, che costantemente 
                  crea senso di inadeguatezza, dove gli eventi naturali che segnano 
                  le tappe cruciali nell'esistenza di un individuo – quei 
                  periodi della vita in cui è necessario prendersi tutto 
                  il tempo che serve, aiutarsi reciprocamente, essere attenti 
                  – vengono medicalizzati come se niente fosse, così 
                  che gravidanza, nascita, pubertà, andro/menopausa, sono 
                  trattati alla stregua di malattie dove chi paga lo scotto maggiore 
                  sono soprattutto le donne e i bambini ai quali non vengono più 
                  lasciati spazi e tempi liberi per organizzarsi autonomamente 
                  nel gioco, per i quali tutto è già predisposto 
                  in modo tale che fantasia, creatività e anche, perché 
                  no, della sana noia, non esistano più. 
                  Per quelli che meno si adattano e manifestano insofferenza, 
                  si può sempre fare una diagnosi medica che prescriva 
                  qualche farmaco tranquillizzante. 
                  Ovviamente gli americani in queste cose ci sanno fare e sono 
                  sempre all'avanguardia, ma noi andiamo a ruota cercando di non 
                  essere da meno. Quindi il disagio comportamentale invece 
                  di essere valutato come un campanello d'allarme, la dichiarazione 
                  di qualcosa che non funziona all'interno della relazione adulto-bambino, 
                  viene incasellato come difetto/malattia, il genitore (o l'adulto 
                  facente funzione educativa) è deresponsabilizzato, non 
                  deve mettere in discussione se stesso e può delegare 
                  “il problema” a un esperto che lo affronterà 
                  dal punto di vista della salute mentale. 
                  Tutti gli atteggiamenti infantili e/o adolescenziali non riconducibili 
                  dentro una norma (ogni cultura ha le sue norme, i modi di fare 
                  “giusti” nei luoghi appropriati) vengono così 
                  contenuti chimicamente e il potenziale di libertà che, 
                  attraverso fantasie, desideri, aspirazioni e anche comportamenti 
                  trasgressivi, dovrebbe portare al formarsi di un'idea personale 
                  dell'esistenza, viene eliminato risolvendo tutti i problemi. 
                  Se poi si pensa che è considerato problema anche la timidezza, 
                  possiamo farci un'idea di quanto possano essere arbitrarie tutte 
                  le “spiegazioni scientifiche” volte a giustificare 
                  la prescrizione massiva di psicofarmaci. Non vi sono dubbi, 
                  quello in atto sembra proprio il tentativo di attuare un controllo 
                  sociale preventivo, affinché il comportamento infantile 
                  si adegui alla “normalità”. Che si abituino, 
                  da subito! 
                  «Ma se la normalità viene sempre più racchiusa 
                  in un concetto di produttività, le “anormalità” 
                  si moltiplicheranno e si cureranno con un sicuro vantaggio per 
                  le multinazionali del farmaco e per chi è delegato ad 
                  agire sul controllo e per il profitto (...) quando poi il termine 
                  “diversità” può essere sostituito 
                  da “inferiorità”, si concretizza una discriminazione; 
                  non a caso tra gli utenti psichiatrici sono in aumento le persone 
                  che vivono in un paese a loro straniero.» 
                  È un libretto agile e chiaro, poco più di 90 pagine 
                  che forniscono importanti riflessioni su infanzia, educazione, 
                  malattia mentale e psichiatria, allarmanti dati su come funziona 
                  la diagnosi, e conseguente terapia, per quello che è 
                  stato chiamato disturbo da deficit attentivo sia negli 
                  Stati uniti che in Italia. Possiamo leggere anche il questionario 
                  che viene somministrato per formulare una diagnosi, l'aggiornamento 
                  al 2013 del più diffuso manuale diagnostico e così 
                  via a comporre un testo che tutt*, non solo genitori, insegnanti 
                  o educatori, dovrebbero leggere. 
                  Un invito rivolto a tutta la comunità adulta, affinché 
                  prenda coscienza della situazione in corso, si informi e divenga 
                  consapevole del dovere che abbiamo di difendere le nuove generazioni 
                  perché fantasia, creatività e libertà di 
                  scelta continuino a essere le loro caratteristiche peculiari. 
Silvia Papi 
                 
                      
                Franco Serantini/ 
				Perché ringraziare Corrado Stajano 				
				È appena arrivata sugli scaffali delle librerie la nuova 
                  edizione, in una bella veste grafica, de Il Sovversivo 
                  di Corrado Stajano (Il Saggiatore, Milano 2019, pp. 207, € 
                  21,00), accompagnata da una nuova introduzione dello stesso 
                  autore e arricchita da una collezione di disegni inediti dell'artista 
                  Costantino Nivola (1911-1988). 
                  Pisa, 7 maggio 1972, ore 9.45. Franco Serantini, vent'anni, 
                  studente/lavoratore, anarchico muore nel carcere Don Bosco dopo 
                  essere stato trattenuto e interrogato per due notti e un giorno, 
                  senza ricevere le cure di cui ha un evidente bisogno. 
                  Nel tardo pomeriggio di due giorni prima, nel centro della città 
                  presidiata da un incredibile dispiegamento di forze dell'ordine, 
                  una manifestazione antifascista indetta contro il comizio del 
                  deputato Giuseppe Niccolai del MSI-DN, viene dispersa dalle 
                  cariche della polizia con scontri violentissimi tra poche centinaia 
                  di manifestanti e i poliziotti. In Lungarno Gambacorti, nei 
                  pressi dell'angolo con via Mazzini, Franco viene accerchiato 
                  e aggredito da una decina di poliziotti, per lo più suoi 
                  coetanei, tempestato di calci, pugni e manganellate con una 
                  ferocia che non risparmia alcun lembo del suo corpo. 
                  Fino ad allora, quella di Franco Serantini è stata un'esistenza 
                  trascorsa con difficoltà affettive legate all'assenza 
                  di una famiglia, alla povertà e all'emarginazione coattiva 
                  negli istituti minorili voluta da uno Stato ottuso e arrogante. 
                  La sua storia è quella di un orfano che ha perso anche 
                  la madre e il padre adottivi, costretto a passare da un brefotrofio 
                  a un istituto, fino a ritrovarsi in riformatorio a Pisa anche 
                  se non ha commesso alcun reato. Proprio qui, alla fine degli 
                  anni Sessanta, nella città che gli appare come un bellissimo 
                  teatro, perso fra tanti altri ragazzi che affollano le vie e 
                  le piazze, Franco vive i suoi anni più felici. Gli ultimi. 
                   Sembra 
                  la trama di un romanzo ottocentesco, ma nel Sovversivo 
                  l'indagine sulla morte dell'anarchico Serantini è condotta 
                  attraverso un coro di voci reali, un'attenta lettura dei documenti 
                  della burocrazia giuridica e dei giornali dell'epoca, componendo 
                  una narrazione civile di limpido rigore e grande partecipazione 
                  emotiva. Un libro che ha avuto il merito di proiettare la figura 
                  di Franco all'attenzione della coscienza civile nazionale. 
                  Un libro che è stato ampiamente letto sia dalla generazione 
                  dei giovani che come Franco riempivano le piazze di allora, 
                  sia quelle successive che hanno raccolto e custodito gelosamente 
                  la sua memoria. Ne sono testimonianza non solo le tre fortunate 
                  edizioni pubblicate dall'Einaudi nel 1975, 1976 e 1979 in migliaia 
                  di copie, che ebbe anche una traduzione in lingua tedesca – 
                  Der staatsfeind: leben und tod des anarchisten Serantini, 
                  Berlin, Klaus Wagenbach, 1976 –, ma anche quelle degli 
                  anni Novanta, la prima sempre dell'Einaudi in coppia con un 
                  altro lavoro di Stajano, L'Italia nichilista (1992) e 
                  la seconda a cura del giornale «L'Unità» 
                  (1994); infine come non ricordare in anni più recenti 
                  le nuove edizioni curate dalla BFS, casa editrice della Biblioteca 
                  dedicata a Franco, quella del 2002 e poi quella del 2008, in 
                  coedizione con “A” rivista anarchica con in allegato 
                  il DVD S'era tutti sovversivi di Giacomo Verde. 
                  Come spesso accade nelle opere di Corrado Stajano, la vicenda 
                  di un solo individuo svela il male di un paese intero, e nel 
                  corpo di un ragazzo si rintracciano i segni di un tempo spietato, 
                  lacerato dai conflitti politici e sociali e da una “giustizia” 
                  di Stato che semina ingiustizie. 
                  Rileggere le pagine dedicate a Serantini, qui proposte con i 
                  bellissimi ed efficaci disegni di Costantino Nivola, significa 
                  riportare alla memoria, come accennato nella nuova introduzione 
                  al libro dello stesso Stajano, anche i volti di Carlo Giuliani, 
                  Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi e di tante altre vittime 
                  innocenti. Storie di oggi: soprusi delle forze di polizia, depistaggi 
                  giudiziari, giovani vite finite che mettono sotto accusa uno 
                  Stato incapace di processare se stesso, e raccontano la notte 
                  di una democrazia che abdica violentemente alle proprie regole. 
                  Scrive Stajano che «quasi mezzo secolo dopo l'altra Italia 
                  non è ancora riuscita a ascoltare la lezione di dignità 
                  umana dettata dalla legge e dalla Costituzione della Repubblica 
                  (art. 2; art. 3; art. 13)». Il giornalista ricorda però 
                  anche l'impegno delle madri e delle sorelle delle vittime della 
                  violenza dello Stato, come degli amici e compagni di Serantini, 
                  e della loro energia positiva nel ricercare costantemente la 
                  verità e la giustizia, speranza per il futuro di un Italia 
                  diversa e migliore. 
                  Ma oggi, anche se non abbiamo una “verità giuridica” 
                  sul caso della morte di Serantini – rispetto ad altri 
                  casi più recenti dove la “giustizia” ha svelato 
                  le responsabilità con nomi e cognomi di efferati delitti 
                  di Stato – della storia dell'anarchico ventenne abbiamo 
                  però la verità storica tenuta in vita grazie alle 
                  tante testimonianze che negli anni hanno permesso di non dimenticare 
                  questa tragica vicenda: come quelle dei volti anonimi di cittadini 
                  che ogni anno nella ricorrenza depositano fiori sulla tomba 
                  o al monumento in Piazza S. Silvestro (che la gente chiama comunemente 
                  Piazza Serantini); o dei suoi compagni di idee e di molti altri, 
                  tra cui molti artisti e poeti che hanno dedicato opere di valore 
                  alla memoria di Serantini. 
                  Un esempio illustre, segnalato anche dalle pagine di questa 
                  rivista e ricordata anche da Stajano nella sua nuova introduzione, 
                  è stata l'opera del musicista pisano, Francesco Filidei, 
                  un'impresa prestigiosa e ardita dal punto di vista della tecnica 
                  musicale; oggi poi si aggiunge questa ulteriore testimonianza 
                  artistica di Nivola che, emigrato negli USA ancora giovane, 
                  lavorò nello studio di Le Corbusier, fu vicino stilisticamente 
                  a Saul Steinberg, insegnò alla Columbia University, alle 
                  università di Harvard e di Berkeley. A Orani, nel suo 
                  paese natale in Sardegna, il Museo Nivola ospita un'importante 
                  collezione delle sue opere. 
                  Questo artista si appassionò alla storia di Serantini 
                  e una sera in casa di Stajano disegnò nella pagine bianche 
                  del libro della prima edizione, come incipit all'inizio dei 
                  capitoli e ai margini delle pagine, la vita e la morte del giovane 
                  anarchico, facendo sì che quell'esemplare del libro divenisse 
                  un «unicum editoriale» che oggi vede la luce. 
                  Dunque, per Stajano, la vicenda di Serantini si conserva grazie 
                  alla memoria di molti, con un continuo ma necessario rito civile, 
                  perché non se ne dimentichi la figura, ed è anche 
                  per questo che nell'introduzione ricorda l'esistenza della stessa 
                  Biblioteca che da 40 anni continua coraggiosamente nel suo lavoro 
                  di raccolta di testimonianze e a custodire la memoria dell'anarchico 
                  Franco Serantini. 
Franco Bertolucci 
Voglio aggiungere il mio personale (e redazionale) ringraziamento a Corrado Stajano, l'unica persona cui ho scritto in questi anni, privatamente, chiamandolo “Maestro”. Nessuna piaggeria, solo l'intima convinzione che anche prendendo in considerazione solo questo suo libro, il suo ruolo nella vicenda Serantini sia stato fondamentale. E Maestro, a mio avviso inarrivabile, nello stile di scrittura, nella scorrevolezza del racconto, nell'uso di quei termini in quel punto preciso. Una scrittura godibile e rispettosa. Rara. 
Quel ragazzo dagli occhiali spessi, spessissimi, che Aurora e io conoscemmo a varie riunioni degli anarchici toscani all'inizio degli anni '70, nella vecchia sede degli anarchici pisani, sopra la Pubblica Assistenza in via San Martino, sarebbe rimasto uno dei tanti, nella lunga lista delle vittime della violenza poliziesca. È stato quel libro, è stata la profonda, appassionata e rigorosa ricerca di Stajano a strapparlo dall'anonimato e renderlo pubblico, conosciuto, rispettato.  
Stajano ha ora i suoi 89 anni, 21 più di me. Ero ancora un ragazzo quando intorno al 1973 lo accompagnai a Carrara, sulla sua auto, in compagnia di sua moglie, per metterlo in contatto con alcuni compagni carraresi. 
Lo conoscevo già come un giornalista democratico, impegnato, con uno stile sempre rigoroso, mai urlato, determinato e sereno. Era al nostro fianco nella mobilitazione per Pinelli, Valpreda, la strage di stato. Ci è stato al fianco in questi decenni, con simpatia e rispetto: con la sua attività i suoi numerosi libri, gli innumerevoli articoli, sempre ispirati alla sua concezione di un vivere democratico, caratterizzato da un rigore morale che non è mai stato bigottismo.  
Con Stajano feci anche un paio di interventi pubblici a Pisa e a Livorno sulla vicenda Serantini. Un onore per me. E ricordo bene che durante una cena, presente Franco Bertolucci, Corrado ebbe modo di criticare con fermezza certe posizioni assunte da “A” in relazione ad alcuni episodi di violenza politica. Mi mise in crisi subito, mi fece riflettere e a distanza di anni riconosco che aveva ragione lui. La sua riflessione, il suo equilibrio, la sua onestà sapevano cogliere ben oltre le apparenze. È persona gentile, ma non meno determinata e ragionante (“Ma Paolo, come potete...?”): lo ricordo bene e con gratitudine. 
Gli auguriamo buona salute, che possa continuare a scrivere – lui democratico e antifascista – cose che hanno fatto e fanno pensare milioni di persone. 
Da queste colonne gli mandiamo un caro saluto, ben sapendo che nella differenza di opinioni su tante cose, sempre lo ritroveremo tra le persone che rispettano il nostro pensiero e il nostro movimento. La cui storia, in alcune sue pagine significative (non solo la vicenda di Serantini), lui ha contribuito a indagare, ricostruire, far conoscere meglio di quanto noi avremmo e abbiamo saputo fare. Non è poca cosa.  
Grazie Corrado. 
Paolo Finzi 
                 
                      
                Beppe Chierici/ 
				Viaggio nell'arte e nell'umanità 				
				 Se 
                  Fabrizio De André e Nanni Svampa sono i nomi più 
                  illustri che hanno cantato e ci hanno fatto conoscere “il 
                  francese di Marsico Nuovo”, Georges Brassens, a Beppe 
                  Chierici si deve attestare un immane e meticoloso lavoro di 
                  traduzione e incisione dei non sempre facili testi dell'imperatore 
                  degli chansonnier. E, in una lettera inviata nel novembre 
                  del 1976, fu lo stesso Brassens a riconoscerlo: “Mio caro 
                  Beppe, sono stato molto felice delle tue traduzioni che sono 
                  a parer mio le migliori e le più fedeli che mi siano 
                  state fatte in questa bella lingua italiana”. 
                  Fino ad oggi il cantastorie e attore cuneese, sempre cercando 
                  di muoversi lungo una traiettoria di fedelissima aderenza linguistica, 
                  ha tradotto e registrato esattamente cento testi del cantautore 
                  francese dalle origini lucane, gli ultimi tredici (tra cui gli 
                  incantevoli “La route aux quatre chansons”, “Le 
                  bistrol” e “Les philistins”) fanno parte di 
                  “Cento volte W Brassens”. L'album è allegato 
                  a Un Ulisse da taschino (edizioni Cenacolo di Ares, 2017, 
                  pp. 282, € 18,00), un libro-intervista realizzato con il 
                  fumettista romano Dario Faggella, il quale aveva già 
                  illustrato con un incedere naif il precedente libro-cd 
                  di Chierici La cattiva erba. 
                  Sottoposto a un fuoco di fila di domande da Faggella, Chierici 
                  ricorda gli indimenticabili incontri parigini con Brassens, 
                  il cui verbo e canto poetico sono riusciti a dare alla sua esistenza 
                  un senso straordinario. “Cantare Brassens è stato 
                  per me un inno alla vita, un'ode al rispetto degli altri, un 
                  sentirmi vicino alle cattive erbe, ai gatti randagi, agli emarginati, 
                  ai diseredati”. 
                  L'intervista-conversazione con Faggetta, naturalmente, è 
                  anche una veloce traversata nella vita ribelle e scanzonata 
                  di Chierici che, per dar sfogo ai demoni interni dell'artista 
                  e dell'impenitente avventuriero, dalla povera e piccola provincia 
                  piemontese è andato per il mondo, passando per la Svizzera, 
                  Roma, l'Africa, la Francia fino ad approdare al suo attuale 
                  “buen retiro” umbro a Pesciano di Todi. Nel libro, 
                  Chierici - irrequieto e libertario qual é - rievoca le 
                  prime esperienze con la scuola teatrale Dimitri in Svizzera 
                  e il teatro di strada di Gian Maria Volontè, il sodalizio 
                  con la prima compagna e cantastorie Daisy Lumini, quindi la 
                  collaborazione a Parigi con il regista teatrale Jean Louis Martinelli, 
                  le partecipazioni alle fiction televisive e nel cinema (nel 
                  riuscito, ma sfortunato film “Le sabbie mobili” 
                  girato nel 1996 da Paul Carpita fu anche tra i protagonisti). 
                  Quello di Chierici è stato un lungo e affascinante viaggio 
                  nell'arte e tra l'umanità; oggi, nonostante l'età 
                  (ottantuno anni), continua instancabilmente a far splendere 
                  il canto umanista e generoso di Brassens, nonché a incidere 
                  mirabili canzoni per bambini con la compagna Mireille Safa. 
Mimmo Mastrangelo 
                
                
                   
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                        Chierici e Georges Brassens  | 
                   
                 
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