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			  	 interviste 
                  L'arte di vivere di arte 
                  intervista di Gerry Ferrara a Sergio Scognamiglio / foto Biagio Ippolito 
                  Un giovane. L'incontro con un maestro ceramista. La scoperta di un mondo. Con la sua storia, le sue regole, la creatività. Nel segno del Sud, solare. E della libertà. 
                 
                  “Quando fernesce 'a guerra 
                  e vene 'o sole, vurria turnare a cammenare pe' chella strada 
                  a me cchiù cara, addò lu viento accarezz''o mare...” 
                  Così cantava la NCCP nel brano omonimo all'interno dell'album 
                  Medina del 1992. 
                  Un'evocazione che ci permette di attraversare il confine, non 
                  solo metaforico, tra la terra e il mare, dove un uomo, in perenne 
                  simbiosi e, nell'atavico dualismo, in costante scissione tra 
                  terra e mare, ne diviene il confine stesso, luogo di passaggio, 
                  di approdo e di accoglienza. Siamo in costiera amalfitana, tra 
                  Vietri e Cetara, sulla strada al confine tra mito e contemporaneità, 
                  tra i Monti Lattari, le limonaie e la vecchia tonnara. 
                  Il luogo è, appunto, una sorta di “strada dove 
                  il vento accarezza il mare”, un anfratto del pensiero 
                  con le sembianze di un laboratorio artistico. “È 
                  chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa 
                  è muto come un pesce, anzi è un pesce e come pesce 
                  è difficile da bloccare, perché lo protegge il 
                  mare.” 
                  Nel laboratorio si “manipola” la ceramica per raccontare 
                  l'evoluzione di un'arte antica che guarda al passato con l'urgenza 
                  del presente. Il pensatore, poco muto e ciarliero quanto basta, 
                  che vive di terra ma in realtà è un mitologico 
                  anfibio, è Sergio Scognamiglio, portatore sano di storie 
                  che dalle radici dell'arte vietrese si ramifica nell'idea visionaria, 
                  e per questo profondamente umana, di una concezione e di un 
                  concepimento “dell'opera” che resti fuori dalle 
                  vetrine e lontano dai “battitori d'asta” per trafficanti 
                  di merci. 
                   
                  Gerry – Sergio, raccontaci che arte di vivere 
                  è, e come si vive d'arte dalle tue parti, tra la terra 
                  e il mare. 
                  Sergio – Vivere in un luogo dove la natura è 
                  così potente ti dà la possibilità di far 
                  uscire tutta la parte bella e artistica che è dentro 
                  di te. L'artista usa la materia, nel mio caso la ceramica, per 
                  tradurre fisicamente tutte le sensazioni assorbite per poi trasformarle 
                  nel suo immaginario. Vivere da artista in questi luoghi è 
                  anche questo. 
                
                Dalle tue origini che, quantomeno da un punto di 
                  vista anagrafico, risalgono alla Napoli delle periferie urbane 
                  e soprattutto umane, dal tuo passato di cestista (parliamo di 
                  basket e quindi di canestri e reti) al richiamo delle sirene 
                  vietresi che ti hanno fatto conoscere una parte della costa 
                  d'Amalfi non tratteggiata nelle cartoline, ma innestata nelle 
                  vicende umane corredate di storie nomadi e stanziali: la pesca, 
                  i pastori, le immortali limonaie e la fatica di uomini, donne 
                  e muli per il trasporto del prezioso agrume. 
                  Sono nato in un quartiere periferico appena fuori dal centro 
                  in una zona industriale. Abitavamo a pochi passi dalla fabbrica 
                  dove lavorava mio padre, il suono delle sirene di pausa e uscita 
                  degli operai scandiva le nostre giornate. La vita di quartiere 
                  era in simbiosi con il ritmo delle fabbriche che offrivano asili 
                  nido, teatri e vacanze per i figli degli operai. Ho dei bellissimi 
                  ricordi affettivi e di vita di quartiere; c'era una grande solidarietà. 
                  Ricordo momenti di tensione e di grande forza da parte degli 
                  operai che scioperavano per i loro diritti. Tutti insieme come 
                  “un esercito”: è così che, a quei 
                  tempi, nel mio immaginario vivevo quell'espressione di forza 
                  collettiva. Arrivano poi le prime crisi industriali, molte fabbriche 
                  chiudono, molti giovani emigrano e i quartieri non hanno più 
                  identità e la capacità di riconvertirsi, diventando, 
                  inevitabilmente, non luoghi. 
                  Fortunatamente mi avvicino al mondo del basket e per me fu subito 
                  una grande passione; dopo qualche parentesi in squadre provinciali 
                  approdai al Napoli basket. Fu per me e per il mio quartiere 
                  motivo di grande orgoglio entrare in una società di serie 
                  A. E fu anche un'occasione per conoscere nuovi ambienti e tenermi 
                  lontano da un quartiere sempre più pericoloso. 
                   
                  Come nasce la passione per la ceramica e in che modo 
                  hai “lavorato al tornio la tua mente e il tuo pensiero”, 
                  affinché la tua creatività si affrancasse dalla 
                  tradizione classica e si evolvesse in una concezione moderna, 
                  oserei dire “popolare”? 
                  Il mio approccio alla ceramica è stato puramente casuale. 
                  Nel 1992 ero un giocatore professionista e venni acquistato 
                  dal basket Salerno; la società mi chiese in quale zona 
                  di Salerno volevo abitare gli risposi che preferivo Cetara che 
                  sta in costiera Amalfitana a 7km da Salerno. L'idea di vivere 
                  in costiera mi piaceva molto e in pochi giorni mi trasferii 
                  a Cetara. Nella mia squadra ci stavano due giovani del settore 
                  giovanile che si allenavano con noi, erano i figli di Ugo Marano, 
                  maestro di ceramica. La sera, dopo gli allenamenti, li accompagnavo 
                  e incontravo Ugo che mi invitava ad andarlo a trovare. E da 
                  quel momento siamo entrati in contatto. Fu un incontro bellissimo, 
                  avevo la sensazione che fossimo due persone che venivano da 
                  due mondi diversi, ma che avevano in comune l'arte; nello sport, 
                  in particolare nei movimenti fisici del basket, vedo una forma 
                  di danza e movimento del corpo come forma artistica.  
                  Da quel momento andavo quasi tutti i giorni a casa sua, mi allenavo 
                  la sera e la mattina ero libero di trascorrere tempo con lui. 
                  Si definiva un artista radical concettuale utopico, mi 
                  faceva vedere tutti i suoi lavori, mi parlava dei suoi progetti. 
                  Devo dire con molta sincerità che all'inizio quelle teorie 
                  sull'arte concettuale per me risultavano incomprensibili, poi 
                  col tempo tutto divenne più chiaro.  
                  Aveva una casa-laboratorio; mentre lavorava la ceramica, materia 
                  che lui adorava, io ero un fiume in piena di curiosità 
                  e lui mi chiese se volevo imparare a fare un vaso. Rimasi impietrito 
                  e un po' sbalordito, mi diede un pezzo di creta e fu subito 
                  un grande amore. Casa mia divenne subito un laboratorio, tornavo 
                  dall'allenamento la sera tardi e restavo a lavorare fino all'alba. 
                   
                  “La ceramica è stata la vera madre tollerante 
                  dell'uomo. L'ha accompagnato nei suoi gesti importanti, d'avanguardia. 
                  È stata sua compagna dall'inizio, dal principio. Ha modellato 
                  la sua mente, rendendola plastica e amorosa.” Sono parole 
                  del maestro Ugo Marano, tu lo hai conosciuto e inevitabilmente 
                  il suo pensiero si è fatto strada in te come un virus. 
                  Sì, è vero, il suo pensiero è diventato 
                  mio inevitabilmente. Con il tempo ho avuto la sensazione che 
                  era predestinato l'incontro con Ugo. Stare a contatto con lui 
                  mi ha dato la possibilità di vedere la vita con occhi 
                  nuovi e soprattutto avere un concetto diverso sulle forme d'arte. 
                   
                  Ricordo con grande gioia quando mi donò il primo pezzo 
                  di creta, chiedendomi poi di trasformare le mie idee in materia. 
                  La creta è stata un mezzo per entrare in contatto con 
                  questo mondo; mi ricordo le tante ore passate insieme a parlare 
                  di arte e anche di sport, di basket, lui era affascinato da 
                  questo mondo di giganti che, in qualche modo, “danzavano”. 
                  Io restavo impressionato dal suo modo di esprimersi, dai suoi 
                  concetti visionari. Con il passare del tempo mi rendevo conto 
                  che parlavo con le sue parole e questo mi condizionava nelle 
                  scelte, avevo bisogno di fare un mio percorso per poi metabolizzare 
                  e trasformare, non solo nell'arte, tutto quello che mi aveva 
                  insegnato e trasmesso Ugo.  
                  Metaforicamente parlando, bisognava “uccidere il propio 
                  maestro” per evolversi in una crescita personale. 
                
                   
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                    |   Donna gravida con delfino, 2003  | 
                   
                 
                Quali sono i temi, le immagini, le riflessioni che 
                  maggiormente ti suggeriscono “la forma”? 
                  Le forme che realizzo sono la parte più istintiva e viscerale 
                  che porto dentro di me, sono voce del mio inconscio; mi è 
                  capitato di realizzare forme che facevo fatica a comprendere 
                  e diventava anche un'occasione per “analizzarsi” 
                  attraverso la forma. Questo mio modo di lavorare diventava un 
                  momento divertente e affascinante per capire e tirare fuori 
                  la parte più vera, quasi inconsapevole, quella non progettata 
                  e più istintiva della creatività.  
                  La sensibilità dell'artista è soprattutto quella 
                  di guardare tutto ciò che lo circonda in maniera attenta, 
                  fissare con attenzione e silenzio tutte le forme che la natura 
                  gli offre nelle più svariate forme e articolazioni; poi, 
                  successivamente, con l'uso di simboli e metafore, il pensiero 
                  e la poesia diventano arte e l'arte poesia. 
                   
                  Hai un rapporto costante e fervido con il circostante 
                  e con il territorio che vivi. Condividi esperienze scambi che 
                  sono terra fertile per creare. Il tuo laboratorio è un 
                  luogo di incontro, un ragionamento per disincrostare il pensiero 
                  massificato, un'oasi di umanità per mettersi al riparo 
                  dagli affanni e dagli inganni del presente.  
                  È vero! Non è solo un laboratorio ma una finestra 
                  sul mondo, rispecchia il mio modo di essere, aperto agli altri, 
                  in una prospettiva dove ci si nutre a vicenda, e diventa occasione 
                  di incontri inaspettati che diventano vere e proprie fonti di 
                  creatività, dove l'uomo è al centro. 
                   
                  Benedette anche le porte aperte del tuo spazio anche 
                  quando tu sei altrove, con amici che si sentono custodi del 
                  tuo “tempio”... una riabilitazione del naturale 
                  vivere comune, una pratica “violenta” per le fobie 
                  securitarie in corso. Un'esperienza che ho conosciuto in Sardegna, 
                  nella casamuseo del Maestro Pinuccio Sciola. Un'esortazione 
                  che ho ritrovato nel genio Bruno Bozzetto che di recente ha 
                  affermato che “il futuro è nelle porte aperte delle 
                  nostre case...” 
                  Mi capita spesso di lasciare aperto il mio laboratorio senza 
                  la mia presenza e senza paura di essere derubato, trovo interessante 
                  che qualcuno osservi i miei lavori senza essere influenzato 
                  dalla mia presenza. Questo mi permette di avere un atteggiamento 
                  di apertura verso gli altri e di misurarmi con i miei limiti 
                  e con le miserie umane. Un tema molto attuale, visti gli atteggiamenti 
                  di chiusura verso tutto ciò che è diverso da noi. 
                  Caro Gerardo è solo una questione di tempo poi si capirà 
                  quanto sia importante l'integrazione con altre culture, in una 
                  Europa sempre più vecchia e arroccata nelle proprie sterili 
                  e ingannevoli sicurezze. 
                   
                  Da dove deriva e cosa racconta IOS, il nome col quale 
                  firmi il tuo progetto artistico? 
                  Il termine greco IOS significa pietra, gli ho dato questo nome 
                  come buon auspicio per una lunga durata del progetto. Sono un 
                  amante della Grecia, ogni volta che vado sento questa appartenenza 
                  mistica con il luogo. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Naufraghi e migranti, 2016  | 
                   
                 
                Hai realizzato lungo la strada un muro di calce dove 
                  collochi i tuoi “pisce gruosse e piccirille”, i 
                  tuoi banchi fuori al branco... spesso mi capita di raccontare 
                  questa immagine nelle mie sortite di narrazioni sonore: “il 
                  mitologico Scognamiglio (che ha nel cognome la fibra del predestinato) 
                  mette in salvo i pesci dall'estinzione su muri di calce, i migranti 
                  in fondo al mare fingendosi morti stanno ripulendo i nostri 
                  fondali dalla nostra monnezza, dai residui chimico-bellici, 
                  dalla nostra merda, dunque! Quando avranno finito quest'odissea 
                  differenziata potranno finalmente decidere su quale terra vivere 
                  dignitosamente, i pesci di Sergio torneranno in mare, e i pescatori 
                  potranno ritornare in mare e ricalare le reti...” 
                  Metafora amarissima del nuovo medioevo che stiamo vivendo. 
                  In fondo, caro Sergio, il problema non è chiudere i porti, 
                  il dramma è che abbiamo chiuso i nostri cuori e soprattutto 
                  i nostri cervelli... cosa ne pensi? 
                  Questa parete di pesci ormai è diventato punto di riferimento 
                  per i turisti e i viandanti che vengono in costiera amalfitana, 
                  suggella i tanti anni di ricerca di come interpretare e poeticizzare 
                  i banchi di pesci. Sono là, in attesa di capire dove 
                  l'essere umano vuole arrivare con il suo atteggiamento di autodistruzione 
                  per poi decidere se migrare in un altro luogo, in un altro mare. 
                  Sono lì tutti insieme, pesci gruossi e piccirilli, 
                  forti, uniti con quel senso di collettività che ormai 
                  sembra essere l'unica direzione possibile. 
                   
                  “Frattanto i pesci, dai quali discendiamo tutti, 
                  assistettero curiosi, al dramma collettivo di questo mondo che 
                  a loro indubbiamente doveva sembrare cattivo e cominciarono 
                  a pensare, nel loro grande mare, come è profondo il mare.” 
                  Dalla aveva previsto tutto, ti sei ispirato anche ai suoi versi 
                  per indagare gli abissi umani? 
                  Si è vero, assisteranno curiosi, dal profondo del mare, 
                  dove gli abissi umani sembra che non finiscano mai, per poi 
                  chiedersi il senso di questa cultura del prevalere sui più 
                  deboli, questa sete di potere e di ricchezza, che non fa altro 
                  che creare isolamenti e disperazione. A volte immagino i ricchi 
                  e i potenti immobilizzati nelle loro fortezza, che stanno per 
                  essere divorati da tutto quello che loro stessi hanno creato. 
                  L'unica via di salvezza resta la ridistribuzione della ricchezza 
                  e la continua e salvifica opportunità dello scambio. 
                   
                   
                  “Se prendo il pesce d'oro ve la farò 
                  vedere, se prendo il pesce d'oro mi sposerò all'altare”... 
                  anche Faber, come te, attingeva alla tradizione popolare per 
                  essere cantore contemporaneo tra poesia e impegno civile. E 
                  proprio partendo dal brano Le acciughe fanno il pallone 
                  hai realizzato, all'interno di un festival sui temi deandreiani, 
                  un'opera destinata a Emergency e nello specifico al ricordo 
                  e alla figura di Teresa Sarti. 
                  Io vengo da una forte influenza della tradizione popolare, guardo 
                  il contemporaneo con i piedi radicati nel passato, mi viene 
                  naturale impegnarmi nel sociale. 
                  Ho realizzato delle opere per Emergency nel festival da te ideato. 
                  Le acciughe fanno il pallone, questo brano meraviglioso 
                  di De André, questa “fortuna che viene dall'oriente 
                  che tutti l'hanno vista e nessuno la prende” è 
                  diventata una metafora di amore e di vita ispirata alla figura 
                  di Teresa Sarti. 
                   
                  Quale storia anarchica andresti a “cesellare” 
                  sulla tua ceramica. 
                  Io andrei a “cesellare” il mio progetto di vita 
                  artistica come forma anarchica. Non avendo mai frequentato scuole 
                  artistiche, accademie, e non avendo nessuna tradizione familiare, 
                  il mio approccio con l'arte non è stato influenzato da 
                  nessun tipo di formazione, anche per mia natura ho sempre preso 
                  le distanze da tutto ciò che mi circondava in modo massificante 
                  e mi influenzava, ho sempre guardato avanti per trovare il nuovo 
                  e il contemporaneo che si sgretola da IOS e dalla sua millenaria, 
                  immutevole e silenziosa forma. Forma d'arte, mentale, atavicamente 
                  anarchica. 
                   
                  Sergio è “Comm'a viento de lu mare, 
                  vene pe' te fa' sunnare, tras'arinto e nun te lassa cchiù.” 
                   
                  Contatti: 
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