Il gioco delle liste 
                Prendo spunto per queste riflessioni da alcuni post di fine 
                  anno su blog di amici e conoscenti che seguo volentieri, anche 
                  se a intermittenza. Ci sono certe discussioni a cui spesso mi 
                  si invita a partecipare: io tendo a dire di no, non mi va di 
                  farmi prendere in mezzo perché riesco a “comprenderle” 
                  solo fino a un certo punto. Sono le discussioni a proposito 
                  dei dischi e dei libri preferiti: quelli che hanno “segnato 
                  la vita”, quelli più importanti da portare con 
                  sé nell'isola deserta - metti che so un naufragio, o 
                  che un giorno uno decide di ritirarsi dal mondo portando con 
                  sé solo una valigia piccola stipata di letture e musiche 
                  e ricordi buoni. Vi dirò, liste così mi lasciano 
                  un po' perplesso, trovo sia difficoltoso stilarle, innanzitutto 
                  perché sono convinto che la vita e noi parlando in generale 
                  cambiamo di continuo. I nostri gusti e orientamenti, il numero 
                  degli ascolti e delle letture cambiano costantemente, cambiano 
                  con la vita e come la vita. Una lista di preferenze, una specie 
                  di bilancio diciamo, secondo me può coprire come si conviene 
                  forse solo un segmento breve dell'esistenza (servirebbero più 
                  liste, da riscrivere costantemente).  
                  E poi, penso che nelle scelte si rimanga influenzati più 
                  pesantemente dalle esperienze d'ascolto e di lettura giovanili: 
                  con l'età mi accorgo si diventa progressivamente più 
                  esigenti e critici, ogni cosa nuova ci sembra meno nuova. L'accumulo 
                  di esperienze può portarci ad essere più sospettosi 
                  e coriacei e problematici e spigolosi, sempre più difficili 
                  da conquistare, sempre più propensi al rovistare nell'archivio 
                  personale (tipo: questo mi ricorda proprio/assomiglia a) e quindi 
                  sempre più refrattari al potere della suggestione. Inoltre, 
                  penso che scegliere - cosa mettiamo dentro, cosa no - comporta 
                  inevitabilmente che qualcosa di valido, di interessante, magari 
                  di importante rimanga fuori dal mucchio. Metti che sul momento 
                  non mi viene in mente qualcuno, metti che proprio mi vado a 
                  scordare di qualcosa, può succedere e come. A me le esclusioni 
                  innescano ripensamenti, dubbi, tentennamenti, se mi ci metto 
                  d'impegno e prendo la cosa troppo sul serio addirittura dei 
                  rimorsi.  
                  Ma se è solo per gioco, allora dai, facciamolo. Dovessi 
                  scrivere una lista, questa sarebbe lunga. Oh sì, mi piacerebbe 
                  metterci dentro tutti quei musicisti che mi sono venuti ad abitare 
                  dentro, anche se solo per qualche tempo. Mi viene in mente a 
                  proposito quell'intervista 
                  di Lalli pubblicata su queste pagine (“A” 396), 
                  dove lei racconta cosa succede però proprio dal punto 
                  di vista diametralmente opposto al mio: “...[i ragazzi 
                  e le ragazze] mi parlano come se fossi entrata in casa loro, 
                  sapessi cosa stanno passando, vivendo. Si mettono l'iPod e sei 
                  nelle loro orecchie, nella loro testa. E non sai dove sei capitata. 
                  Non sai con la musica dove puoi arrivare. Lettere intense esprimono 
                  il bene che sembra tu abbia fatto loro. Invece hai solo scritto 
                  una canzone...”. Andate a rileggerla, Lalli dice sempre 
                  cose che viaggiano su sentieri diversi - uno resta nascosto, 
                  è tracciato in profondità: seguitelo.  
                  Con la scusa della musica, dentro in testa e nel cuore mi sono 
                  venute ad abitare persone che nella vita reale mi sarebbe davvero 
                  piaciuto incontrare: non per chiedergli chissà cosa ma 
                  anche solo per toccarli, per mangiare e bere qualcosa insieme 
                  e vedere come mangiano e bevono, per vedere il respiro che gli 
                  muove i vestiti, per vedere come muovono le mani mentre parlano 
                  e mentre scrivono, per sentirne la voce a distanza ravvicinata 
                  e farmene un'idea più completa e migliore, per riuscire 
                  a leggere dei segnali dal loro sguardo così da aggiungere 
                  informazioni utili a ciò che imparo leggendo e ascoltando 
                  e fantasticando. Non gli avrei neanche chiesto, che so, un autografo, 
                  neanche di farci una foto insieme - chissenefrega dai, mica 
                  sono queste le cose che contano. Sogni, solo sogni - direte 
                  e dico anch'io - ma basta poco per tornare con i piedi per terra 
                  nel mondo di qui.  
                
                   
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                    |   Unknow 
                        pleasures dei Joy Division  | 
                   
                 
                Eccoci. Lasciando adesso da parte i libri (magari ci tornerò 
                  su più avanti), in un'ipotetica lista dei dischi più 
                  importanti ci ficcherei senz'altro un disco che mi ha sorpreso 
                  e fatto stare bene, che mi abbia divertito e magari abbia spalancato 
                  le finestre della mia testa per cambiare un po' l'aria. Ma ci 
                  metterei anche uno che mi abbia scatenato dentro tempeste e 
                  lacerato l'anima, un disco di cui mi porto dentro dei brandelli, 
                  dei pezzi (anche pesanti, anche taglienti, anche difficili da 
                  trasportare) ovunque vada. Metterei nella lista anche ogni disco 
                  che mi abbia acceso fuochi dentro in testa, che mi abbia messo 
                  in allarme, che mi abbia fatto capire. Parole e musiche che 
                  mi hanno preso d'assalto, oppure ecco: che mi abbiano trovato 
                  impreparato, tutto preso a fare cose che ripensandoci forse 
                  era meglio lasciar stare. Ci metterei tutte quelle canzoni che 
                  mi hanno messo in crisi, e credetemi sono davvero tante. 
                
                “Il peso del mondo è amore. Sotto il fardello di 
                  solitudine, sotto il fardello dell'insoddisfazione, il peso. 
                  Il peso che portiamo è amore...” (Allen Ginsberg, 
                  “Canzone”) 
                  Nella mia lista ci ficcherei dentro senz'altro “Unknown 
                  pleasures” dei Joy Division. Quando era uscito, estate 
                  del 1979, avevo 21 anni e nessun altro disco prima mi aveva 
                  sbattuto in faccia in maniera così precisa, determinata 
                  e violenta tutto quello che non andava tra me e il resto del 
                  mondo. Era la descrizione perfetta del mio disordine interiore: 
                  quel sapersi mal sintonizzati, quel continuo sentirsi con la 
                  testa piena di cose sbagliate, nel posto sbagliato al momento 
                  sbagliato e non poterci fare niente. C'era proprio tutto lì 
                  dentro: sembrava che ogni canzone di quel disco me l'avessero 
                  strappata di dosso, come se l'avessero scritta mettendoci dentro 
                  dei pezzi della mia testa, del mio stomaco, dei miei ragionamenti, 
                  dei battiti del mio cuore, del mio malessere e del mio casino. 
                  Alla fine di quell'estate ho ascoltato per la prima volta i 
                  Crass - beh, se leggete queste pagine il resto già lo 
                  sapete. 
                  E nella lista, dei Joy Division ci metterei senz'altro anche 
                  l'album successivo “Closer”, uscito l'estate del 
                  1980, che in questi quasi quarant'anni ho ascoltato con sempre 
                  rinnovata angoscia. “Ecco i giovani, il peso è 
                  sulle loro spalle”: la canzone sembrava raccontare di 
                  qualcuno che stava tornando da una qualche guerra, mi chiedevo 
                  e mi chiedo, o parlava piuttosto di noi, di noi ragazzi, dei 
                  nostri vent'anni, del nostro disorientamento, del peso e della 
                  fatica non dico di invecchiare ma di crescere, di trovare il 
                  nostro posto nel mondo? Come mai quei ragazzi di Manchester, 
                  mille chilometri e passa da casa mia, miei coetanei, erano riusciti 
                  a spalancare gli occhi ed arrivare così lontano oltre 
                  l'orizzonte? Come mai io e i miei compagni eravamo invece così 
                  ciechi, tutti lì a brancolare nel nostro buio familiare 
                  umido e tiepido, così miseri a crogiolarci nella nostra 
                  solitudine, nelle nostre stanze senza uscite, così persi 
                  e disperati nelle nostre periferie - grigie come piombo, e grigie 
                  come le loro? Allora i dischi noi li si ascoltava spesso in 
                  branco, a casa di qualcuno: mezz'ore intere seduti zitti a rimuginare 
                  tenendo gli occhi bassi, come concentrati in meditazione, un 
                  respiro profondo e un'occhiata veloce in giro a incontrare altri 
                  sguardi giusto il tempo di girare il vinile dall'altra parte 
                  poi un'altra mezz'ora di apnea. “Closer” lo ascoltavo 
                  partendo dal lato B: per me l'album inizia con “Heart 
                  and soul” e finisce con “A means to an end”, 
                  ascoltare la sequenza corretta su CD mi mette ancora oggi a 
                  disagio, come se fosse venuto qualcuno a spostarmi le cose in 
                  casa mentre io ero via. 
                Di passaggio su questo orizzonte, ancora 
		        Su “A” 
                  421 vi raccontavo di un viaggio fatto con Dethector allo 
                  Spazio Loup a Mori, vicino a Trento: con la scusa di presentare 
                  la nostra non-etichetta discografica abbiamo finito per raccontare 
                  invece qualcosa di noi - sapete, quel mio chiodo fisso di essere 
                  sassi ficcati in mezzo alla corrente fredda di un torrente, 
                  quel bisogno innato di mettersi di traverso e resistere fin 
                  che si può, la necessità di stringere forte il 
                  collo al destino senza rassegnarsi a lasciarsi spegnere. Da 
                  quell'incontro sono passati quasi due anni, e non nascondo che 
                  ricevere nel frattempo da Spazio Loup addirittura due pacchi 
                  con due lavori interessantissimi mi ha messo addosso sì 
                  piacere e sorpresa, ma soprattutto mi ha fatto sentire meno 
                  solo. Nei pacchi due dischi realizzati da Antonio Bertoni, che 
                  potrei descrivere grossolanamente come un paio d'ore di sole 
                  in un pomeriggio degli inverni di qui, così generosi 
                  di nebbia umidità e malstare. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Terre 
                        occidentali di Antonio Bertoni  | 
                   
                 
                Cosa c'entra lo Spazio Loup coi Joy Division? Forse molto. 
                  Forse poco, forse niente. Io ve ne parlo perché anche 
                  questi lavori di Antonio Bertoni, pure se in maniera diversa 
                  da quel suo “½ h(our) drama” di cui vi ho 
                  raccontato su “A”421 (“un contrabbasso che 
                  prende una voce non sua come di insetto e d'uccello nero, e 
                  anche restando a basso volume riesce a scavare buchi in testa 
                  e ficcarci dentro lingua artigli e saliva e semi” - tanto 
                  per citarsi addosso) ti entrano in casa così senza bussare 
                  (pure questo l'avevo già scritto allora, ma la sensazione 
                  proprio non è cambiata).  
                  “Terre occidentali” è uscito lo scorso anno 
                  e contiene cinque movimenti che si dibattono, si contorcono 
                  e sfuggono: musiche che non sono affatto collaborative anzi 
                  che non sono affatto disposte a lasciarsi analizzare. Dentro 
                  ci sono un violoncello che Alberto ha reso irriconoscibile e 
                  molta elettronica usata per cambiare la fisionomia dei suoni, 
                  per inventare panorami e ritmi come si fosse alle prese con 
                  la colonna sonora di un sogno da cui non ci si vorrebbe svegliare. 
                 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Exuvia, 
                        di Ongon (alias Antonio Bertoni)  | 
                   
                 
                Il più recente dei due dischi si chiama “Exuvia”, 
                  in copertina e nel foglio di presentazione Alberto si traveste 
                  mettendosi addosso il nome Ongon ma si capisce presto che c'è 
                  lui sotto la maschera. Detta in fretta, Ongon è lo spirito 
                  dello sciamano che lascia la vita terrena, a cui viene consacrato 
                  un idolo casalingo (ma queste cose potete approfondirle su Wikipedia 
                  e gironzolando in rete). Cose tipiche della Mongolia, che nel 
                  disco direi viene trasformata da riferimento geografico in una 
                  zona della mente, i confini appena appena tratteggiati. Difficile 
                  piazzare queste musiche (fatte per grande parte utilizzando 
                  un guimbri, strumento a corde maghrebino, ed altri strumenti 
                  autocostruiti), oltre che in un posto fisico - Mongolia? Nordafrica? 
                  -, in un qualche tempo: certe increspature elettroniche le incastrano 
                  senz'altro in questi ultimi quarant'anni, ma sarebbe come volere 
                  per forza attribuire età e provenienza ad una roccia, 
                  ad una foto trovata in fondo ad un cassetto, ad una nuvola. 
                  Queste musiche accadono. Accadono e basta, e si piazzano lì 
                  a respirarti addosso a due dita dal viso, come spettri che ti 
                  fissano: non se ne andranno via finché non avranno preso 
                  da te quello che vogliono.  
                Marco Pandin 
                  stella_nera@tin.it 
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