La vita e il destino di una chitarra russa 
                Se una slavista intitolando una biografia usa appaiati i termini 
                  “vita e destino”, non lo fa a caso: Vita e destino 
                  di Vasilij Grossman è il più grande romanzo sovietico 
                  del Novecento dopo Il Maestro e Margherita e Il Dottor 
                  Živago, come quelli un caso letterario esploso più 
                  o meno casualmente dopo anni e anni di censura, più di 
                  quelli ha l'ambizione all'opera totale. Per una slavista usare 
                  appaiate le parole “vita e destino” è come 
                  usare “guerra e pace”, ovvero fare riferimento a 
                  qualcosa che comprenda almeno mezzo secolo di cose russe. Esce 
                  proprio in questi giorni Bulat Okudžava: vita e destino 
                  di un poeta con la chitarra di Giulia De Florio, edizione 
                  SquiLibri. Il libro è impreziosito da un CD di registrazioni 
                  inedite e costa 22 euro. 
                  Bulat Okudžava possiamo quasi dire che sia una “vecchia 
                  conoscenza” per i lettori di “A” che seguono 
                  questa mia rubrica, il primo articolo dedicato a lui lo pubblicai 
                  nel 2003 quando ancora collaboravo da pochi mesi, dunque lo 
                  consideravo già allora una delle massime espressioni 
                  della poesia cantata... in tanto tempo quest'impressione non 
                  ha fatto che consolidarsi (infatti di Okudžava ho parlato 
                  numerose altre volte). Non solo, devo a quel primo articolo 
                  su quest'autore l'interesse di Enrico de Angelis, all'epoca 
                  direttore artistico del Premio Tenco, che mi scrisse per complimentarsi 
                  e da allora prese a frequentarmi diventandomi amico: essendo 
                  poi diventato il “Tenco” luogo di incontro, confronto 
                  e avendo segnato una tappa fondamentale della ricezione del 
                  mio lavoro di cantante e appassionato della canzone, per me 
                  Okudžava (e la nostra rivista) sono un talismano. Ma anche 
                  per il Tenco Okudžava è un talismano, dal momento 
                  che con un immenso impegno organizzativo fu invitato a cantare 
                  e premiato alla Rassegna nel 1985 (questa vicenda è ben 
                  ricostruita sempre nel libro, in un'emozionante prefazione firmata 
                  da Sergio S. Sacchi attuale responsabile del Tenco). Dunque 
                  saluto come un evento questa pubblicazione che colma un vuoto 
                  enorme. Per onestà dico anche che io vi sono coinvolto, 
                  dal momento che firmo un'introduzione generale sulla canzone 
                  d'autore sovietica e curo gli apparati del libro (la guida all'ascolto 
                  del CD allegato). 
                La canzone russa e Bulat Okudžava 
		        La sola idea che si tratti di canzoni russe potrebbe spaventarci, 
                  chissà perché riteniamo astruso ascoltare canzoni 
                  in lingue che non siano quella inglese o quelle neoromanze. 
                   Questa 
                  cultura che sul piano letterario e teatrale riconosciamo come 
                  essenziale, ci sembra distante dal senso di leggerezza e di 
                  svago che diamo al Pop italiano, anglo-americano, francese o 
                  brasiliano. I nomi stessi - a volte difficili da pronunciare 
                  o da leggere anche in traslitterazione - ci ingenerano una certa 
                  ritrosia, ci chiamano subito alla mente le scene della “Corazzata 
                  Potemkin” genialmente parodiata da Paolo Villaggio come 
                  quintessenza dell'intellettualismo più indigeribile. 
                  Le canzoni russe invece, e quelle di Bulat Okudžava (a 
                  proposito, si legge: “Acuggiava”) in particolare 
                  sono quanto di più lontano si possa pensare da questo 
                  paradigma: sono canzoni semplici, all'apparenza quasi banali, 
                  ironicamente meste, o tristemente argute, sospese su un filo 
                  stilistico che non scivola mai nel tragico e non si compiace 
                  nel comico. L'elemento più carico di pathos è 
                  forse proprio la loro melodia: musiche trascinanti che si direbbero 
                  più appartenere al patrimonio folklorico che alla composizione 
                  a tavolino. Melodie profondamente toccanti già al primo 
                  ascolto. 
                  Bulat Okudžava negli anni Cinquanta fu il padre della canzone 
                  d'autore sovietica, il primo letterato che prese a cantare le 
                  sue poesie accompagnandosi con la chitarra. Il suo esempio fu 
                  seguito da un manipolo di coraggiosi e dopo 10 anni la canzone 
                  russa era già un fenomeno che incantava il popolo e preoccupava 
                  i leader di quello Stato Totalitario. Manco a dirlo queste canzoni 
                  furono osteggiate, nessun giornale faceva mai il nome dei loro 
                  autori, non venivano stampate nei dischi, e trovavano solo con 
                  molta difficoltà la strada della pubblica esecuzione. 
                  Per lo più si diffusero attraverso audizioni casalinghe 
                  e nastri non ufficiali duplicati di copia in copia, protagoniste 
                  di quel fenomeno culturale studiatissimo che è stato 
                  il “samizdat”. 
                  Bulat Okudžava era nato nel 1924 e morto nel 1997, e la 
                  sua vita fu proprio quella di un figlio della rivoluzione russa 
                  - forse per questo l'autrice del libro l'ha appaiata a un “destino” 
                  - i suoi genitori (il padre georgiano, la madre armena) erano 
                  entrambi accesi bolscevichi, dunque la sua famiglia era pienamente 
                  calata nel processo rivoluzionario socialista. Suo padre però, 
                  durante le purghe del 37, fu fucilato come traditore e sua 
                  madre imprigionata nel gulag per oltre un quindicennio, entrambi 
                  sarebbero stati riconosciuti in seguito innocenti. Questa tragedia 
                  sta alla base della sua poetica e spinse Bulat a partire volontario 
                  in guerra a soli 17 anni per “riscattare” il nome 
                  dei genitori. Questa sarebbe una storia fin troppo scontata 
                  per un russo di quella generazione, se non fosse che Bulat aveva 
                  un talento di narratore e soprattutto di poeta, e che dal 1956 
                  (anno per nulla casuale, quello in cui Krusciov fece sperare 
                  in un reale cambiamento) queste poesie dall'aria così 
                  dimessa e familiare, cominciò a cantarle «quando 
                  Okudžava in casa di amici ha cantato le sue prima canzoni 
                  è stato uno shock, sono stata proprio tra il suo pubblico 
                  delle prime volte nelle case private, e dunque un redattore 
                  della “Gazzetta letteraria” di Mosca che prende 
                  la chitarra e canta quello che gli pare e piace era una rivoluzione. 
                  Gli hanno dato addosso, durante i suoi primi “concerti” 
                  è stato massacrato dai critici ufficiali» ricorda 
                  la sua amica Julija Dobrovolskaja. 
                Un libro, una vita, un canto 
		        Conosco bene la genesi di questo libro. Proprio in virtù delle poche cose che avevo potuto scrivere su Bulat (senza conoscere il russo) fui contattato da una giovane e appassionata slavista - appunto Giulia De Florio - e iniziai con lei una felicissima collaborazione che mi ha permesso di conoscere da vicino la cultura e l'animo russo. È così che abbiamo messo insieme nel periodo limitato di un paio d'anni una quindicina di brani tradotti da cantare in italiano. Ci mettemmo alla ricerca di un'etichetta discografica e trovammo in Domenico Ferraro di SquiLibri un complice così interessato da proporci di fare - in parallelo - sia il mio CD sia il libro di Giulia. In effetti lo spessore dell'autore era tale che non si potesse apprezzare appieno un'antologia della sua opera, senza conoscerne la vita e, appunto, il destino, ovvero quel crogiolo di passioni, letture, esperienze dal quale distillava la sua poesia. D'altro canto non è certo un autore o un tema “di cassetta”, per cui bisogna rendere merito all'editore e al Premio Tenco che ha riconosciuto la ricerca valida al punto da dare il suo patrocinio culturale all'operazione (che esce in una collana appunto di “Libri del Club Tenco”). 
                  Giulia ha affrontato il campo minato della biografia con passione 
                  e rispetto, senza mai travalicare nell'aneddotica (che pure 
                  si spreca) tenendo nel labirinto del tempo il filo del discorso: 
                  la vita del poeta è come l'ombra che getta quotidianamente 
                  il sole della sua poesia. Se dunque l'occhio del biografo doveva 
                  allargarsi alla generazione, alla politica, alla guerra, e poi 
                  restringersi sul carattere, sulle scelte, sugli incidenti, l'equilibrio 
                  è stato sempre rispettato: in questo libro Bulat, dopo 
                  quell'infanzia e quell'adolescenza così tragica, appare 
                  in relazione al controverso mondo culturale degli anni Settanta 
                  sospeso tra il sommerso e l'ufficiale, tra il verso e la prosa, 
                  tra la storia e il presente. Un punto di estremo interesse per 
                  chi voglia conoscere cosa veramente pensavano i russi nel trentennio 
                  60-’80 è questo: questi cantautori dell'epoca 
                  sovietica (tranne Galich alla fine della sua vita) non furono 
                  mai dei dissidenti, degli oppositori, dei tribuni. A noi piacerebbe 
                  vedere le cose manicheisticamente in bianco e nero, ma la realtà 
                  non si lascia ridurre a una formula comoda: i cantautori non 
                  erano élite intellettuale, erano l'espressione del sentimento 
                  popolare, anelavano a un cambiamento non alla fuga, nessuno 
                  di loro si rifiutò mai di rientrare dopo un viaggio, 
                  benché lo stesso Okudžava ne avesse l'opportunità. 
                  Il rapporto col proprio popolo era la zolla da cui traevano 
                  la linfa. Nel caso specifico di Bulat ciò deriva anche 
                  da una questione di indole: la sua morale è solidissima 
                  ma egli non è un moralista, sa che la verità sta 
                  nelle pieghe sussurrate più che nei propositi sbandierati. 
                  Anche però da una questione più sottilmente esistenziale: 
                  i genitori e la sua stessa vita erano stati divorati dal socialismo 
                  sovietico, ma il Socialismo era stata la ragione stessa della 
                  loro esistenza, dunque non si poteva buttare via il bambino 
                  con l'acqua sporca a rischio di mozzare le proprie radici. 
                Alessio Lega 
                     
                
                   
                    Le 
                        canzoni di Bulat Okudžava 
                       
                        Se è con un certo imbarazzo che vi ho parlato del 
                        libro di Giulia De Florio - “imbarazzo” in 
                        quanto coinvolto nell'operazione - è con uno ancora 
                        maggiore che vi presento il “prodotto gemello”, 
                        ovvero un CD interamente dedicato alle canzoni, sempre 
                        di Bulat Okudžava, tradotte e cantate in italiano. 
                        “Chi si loda si imbroda” è l'adagio 
                        popolare, e questo vale anche se si citano dei pareri 
                        entusiastici, per quanto provenienti da “luminari” 
                        della materia (sia Gian Piero Piretto che Claudia Zonghetti 
                        si sono espressi con fervore quasi imbarazzante su questo 
                        mio umile lavoro di adattatore). 
                        Allora proverò solo a darvi le coordinate essenziali 
                        e sottoporvi in anteprima qualcuno dei testi che ho cantato 
                        in italiano in questo disco. 
                        Nella corte dell'Arbat (Squilibri Editore 2018, € 
                        15,00, formato 14x14, pp. 48, con 16 immagini a colori 
                        e in b/n) è un CD in cui ho registrato 16 canzoni 
                        di Okudžava con un piccolo ensemble musicale. Mi 
                        potrò dichiarare contento se chi lo ascolta sarà 
                        incuriosito da questo straordinario autore-cantore timido 
                        e coraggioso. 
                          
                        Lënka Korolëv 
                        (1957) 
                        Nella corte dell'Arbat una radio certe sere 
                        accompagnava al ballo la città 
                        c'era Lënka Korolëv tra gli amici del quartiere 
                        un nome che vuol dire “sua maestà” 
                        Era un re che come i re delle favole passate 
                        aveva ogni sorta di virtù 
                        se un amico si perdeva per le strade complicate 
                        lui lo aiutava dandogli del “tu” 
                        Come corvi le sirene ci chiamarono sul fronte 
                        partimmo tutti... e pure il nostro re 
                        io lo vidi che calcava la corona sulla fronte 
                        come un berretto sulle ventitré 
                        Nel cortile silenzioso una nuova radiolina 
                        che non sa nulla di chi non tornò 
                        Lënka non ha fatto in tempo a trovarsi una regina 
                        qualcuna che per lui piangesse un po' 
                        Oggi che vado di fretta per le strade della vita 
                        a me se a caso passo di laggiù 
                        sembra sempre di sentire una radio di sfuggita 
                        rivedo il ballo della gioventù 
                        Perché i buchi delle bombe sono tombe a cielo aperto 
                        e Lënka odiava quell'umidità 
                        perché Mosca non è Mosca, questa mia città 
                        è un deserto 
                        senza amici, senza re, senza pietà 
                         
                        Canzone dei ragazzi dell'Arbat 
                        (1957) 
                        E tu padre mio fucilato che cosa hai pensato di me 
                        che con la chitarra ero andato, ma vivo e non chiedo il 
                        perché 
                        come nella notte di Mosca scendendo nell'intimità 
                        quasi che poi ci si conosca noi vecchi figli dell'Arbat 
                        E so che poi tutto è stupendo e non c'è 
                        tristezza che tiene 
                        ma stanno marciando e marciando con un commissario che 
                        viene 
                        e no, non ci sono caduti tra i vecchi figli dell'Arbat 
                        alcuni si sono perduti, per altri è rimasta l'età 
                        E poi la memoria è lontana nei vecchi figli dell'Arbat 
                        ma Mosca è una vecchia sovrana e ride di ogni pietà 
                         
                        L'ultimo bus (1957) 
                        Se il cuore si angoscia e non ce la fa più 
                        la notte trabocca dal vaso 
                        io prendo la corsa dell'ultimo bus 
                        a caso, a caso... 
                        Quell'ultimo bus che attraverserà 
                        circumnavigando il selciato 
                        raccoglie nel mare di questa città 
                        chi è naufragato 
                        Spalanca le porte ed accoglimi ormai 
                        dal freddo e dal buio percorso 
                        che i tuoi passeggeri, i tuoi marinai 
                        mi danno soccorso 
                        Con loro ho fuggito sull'ultimo bus 
                        fra tanto dolore crescente 
                        la nuca si appoggia alla spalla di un tuo 
                        fratello silente 
                        Per Mosca ora naviga l'ultimo bus 
                        finché un po' d'aurora riempie 
                        la morsa del male abbandona così 
                        le tempie, le tempie. 
                       
                        Nota: l'Arbat è un quartiere del Centro Storico di Mosca, per Okudžava simbolo di tutto ciò che si è perduto nel tempo, nella guerra, nella violenza. 
                       
                        Alessio Lega  | 
                   
                 
                
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