Un medico italiano in Chiapas/ 
				Mai completamente affidabile 
                Quando scese dal furgone, Cippi Martinelli si trovò 
                  circondato dalla notte e dalla nebbia. Non sapeva dove si trovasse 
                  esattamente, ma subito gli piacquero gli sguardi che intravedeva 
                  dietro i passamontagna. Presto scoprì di trovarsi ad 
                  Oventic, che alcuni anni dopo diventò uno dei 5 Caracoles 
                  zapatisti. 
                  Era il 1996 e il medico napoletano si era unito ad una brigata 
                  internazionalista in Chiapas. Da tempo era stanco del suo lavoro 
                  al Policlinico di Napoli e in territorio zapatista trovò 
                  quello che cercava: rebeldía e una relazione umana 
                  con i colleghi e i pazienti che in Italia non riusciva a trovare. 
                  In Chiapas, Cippi Martinelli ha imparato che bisogna capire 
                  chi è la persona e come la malattia la sta colpendo, 
                  che è necessario curare la malattia, non la persona. 
                  Nel corso del tempo e grazie al suo lavoro instancabile, Cippi 
                  si è guadagnato la fiducia (almeno in parte) degli zapatisti. 
                  Lavorava come medico nella clinica di Oventic, visitava pazienti 
                  in altre zone liberate dall'insurrezione indigena del 1994 e 
                  dava corsi di formazione ai giovani zapatisti scelti dalle loro 
                  comunità per studiare come “promotores de salud”. 
                   Un 
                  giorno la mayora Ana María, comandanta 
                  della zona Altos de Chiapas a cui aveva tolto una brutta ciste 
                  “senza neanche un bisbiglio”, chiese di parlargli. 
                  “Doc, potresti aiutarci a mettere giù un piano 
                  sanitario?”, gli chiese la giovane donna – jeans, 
                  maglietta e lunghi capelli neri, bassina e un po' grassottella 
                  – che presto divenne sua amica. Ovviamente Cippi accettò, 
                  attirato dal “fascino della costruzione dell'impossibile”. 
                  E grazie ai suoi consigli nacque il primo programma sanitario 
                  zapatista. Un sistema autonomo e ribelle che ha portato cure 
                  in comunità che non avevano mai visto un medico. Cliniche 
                  che forniscono un servizio spesso considerato superiore a quello 
                  degli ospedali pubblici, al punto che molti pazienti sono persone 
                  non zapatiste – Cippi racconta di aver curato anche un 
                  paramilitare che aveva attaccato i suoi compagni. 
                  Nei momenti in cui non c'era molto lavoro, Cippi scriveva un 
                  diario personale, che decise di far leggere al suo amico Claudio 
                  Albertani. “Ho letto il manoscritto di Martinelli tutto 
                  d'un fiato, senza poter staccare lo sguardo dallo schermo del 
                  computer, perché questo è, fra l'altro, un libro 
                  d'avventure, l'aggiornamento di un romanzo salgariano”, 
                  scrive Albertani nella prefazione. Per questo la Biblioteca 
                  Franco Serantini ha deciso di pubblicare alcune pagine del diario 
                  del medico napoletano (Cippi Martinelli, Eternamente straniero. 
                  Un medico napoletano nella Selva Lacandona, BFS Edizioni, 
                  Pisa 2018, pp. 104, € 12.00). 
                  Si tratta di un libro di testimonianza in cui troviamo le grandezze 
                  e limiti dello zapatismo, non a partire da un'analisi teorica 
                  ma dal suo vivere e lavorare sul campo. Cippi non è un 
                  uomo che si vanta della sua esperienza, non presume la sua conoscenza 
                  del mondo zapatista o i suoi contatti con la Comandancia 
                  General. Ma nel suo libro decide di raccontarsi e raccontare 
                  un mondo, una società ribelle, a cui ha deciso di dedicare 
                  buona parte della sua vita e che non per questo vede come una 
                  società perfetta; è forse impossibile idealizzare 
                  qualcosa che si conosce così da vicino. 
                  Cippi racconta le sue sensazioni, riflessioni e dei momenti, 
                  anche difficili, vissuti in territorio zapatista. Scrive di 
                  quando ha pensato di lasciare tutto, narra di tensioni tra membri 
                  dell'EZLN, dell'uscita di alcuni di loro dall'organizzazione, 
                  di un ammanco di 9 mila euro nelle casse della clinica. Parla 
                  delle riunioni interminabili e della difficoltà di traduzione 
                  dall'italiano e spagnolo alle lingue indigene. Spiega come si 
                  può organizzare un corso di formazione per giovani medici 
                  con tubi di gomma, bambole, lattine e buste di plastica, e di 
                  come un'operazione chirurgica si possa fare nella penombra e 
                  con pochi strumenti. 
                  Racconta di viaggi in camioneta per le strade sterrate 
                  del Chiapas, di lunghe camminate in sentieri pieni di fango, 
                  spesso al buio, con la paura di essere attaccati dall'esercito 
                  o dai gruppi paramilitari. Di quando gli hanno sparato contro 
                  e della tensione continua di vivere in un paese in cui gli stranieri 
                  non possono svolgere una militanza politica: della preoccupazione 
                  di essere fermato dalla polizia ed espulso dal Messico, o ancor 
                  peggio ucciso, o fatto sparire. Cippi Martinelli racconta dei 
                  suoi incontri con altri stranieri, anche italiani, che militavano 
                  nella parte militare o civile dell'organizzazione, come educatori 
                  nelle scuole autonome o volontari nelle cliniche. Parla della 
                  sua relazione con zapatisti e zapatiste, dell'amicizia, delle 
                  risate e degli scherzi, dei momenti di incomprensione. 
                  Scrive della pioggia insistente – che protegge dagli attacchi 
                  militari per via del fango che rende le strade impraticabili 
                  –, del sole inclemente e dell'afa della Selva Lacandona, 
                  del freddo e della nebbia della regione Altos de Chiapas, del 
                  caffè bollente ma a volte un po' scialbo e dei tamales 
                  preparati con il mais fresco. 
                  Verrebbe da dire che quello di Cippi è un libro scritto 
                  da una persona interna all'organizzazione, ma lui racconta che 
                  non è così. “Quello che mi è sempre 
                  pesato, e continua a pesarmi era ed è essere considerato 
                  eternamente uno straniero dai compagni zapatisti”, scrive 
                  Cippi Martinelli. “Nonostante tutto il tempo passato qui, 
                  nonostante tutte le situazioni vissute insieme, i rischi della 
                  guerra, i momenti buoni e quelli difficili, io ero sempre, in 
                  fin dei conti, uno straniero, e come tale mai completamente 
                  affidabile, salvo rare occasioni e sempre comunque da pochissime 
                  persone”. 
Orsetta Bellani 
                 
                      
                Xenofemminismo/ 
				Liberazione o aberrazione? 				
				L'uscita del volume Xenofemminismo (di Helen Hester, 
                  Nero, Roma 2018, pp. 164, € 15,00) sembra collocarsi in 
                  un quadro tanto nuovo quanto fortemente problematico. Le proposte 
                  avanzate nel testo si possono inscrivere all'interno del movimento 
                  culturale transumanista che considera indesiderati alcuni aspetti 
                  del corpo naturale e da ciò ne fa derivare una prospettiva 
                  di trasformazione post umana. 
                   Ci 
                  tengo a precisare che se fino ad alcuni anni fa questo tipo 
                  di proposte erano considerate, per lo più, stravaganze 
                  di un piccolo nucleo di teoriche e teorici accademici, oggi 
                  sembrano, invece, ottenere un consenso sempre più diffuso. 
                  Mi sembra, infatti, che queste prospettive inizino a influenzare 
                  non solo l'area postfemminista e transfemminista, ma perfino 
                  alcune aree interne al movimento anarchico come il queer-movement 
                  e il giornale Umanità Nova (dove possono essere letti 
                  alcuni articoli in favore dell'orizzonte transumanista). È 
                  un aspetto inedito, che a mio avviso non si dovrebbe sottovalutare. 
                  Come ha ben sottolineato anche Alex B., uno degli autori più 
                  apprezzati nell'arcipelago LGBTQIA1: 
                  “Alcuni degli articoli, delle riviste o dei libri che 
                  sostengono tesi transumaniste o post-umaniste in chiave femminista/queer 
                  cominciano a trovare spazio e legittimità anche in luoghi 
                  e situazioni di attivismo e di critica al sistema.2” 
                  Lo xenofemminismo si dichiara in forte disaccordo con le componenti 
                  essenzialiste, ecofemministe, primitiviste e più in generale 
                  con l'arcipelago ecologista. Si definisce: “una forma 
                  di femminismo tecnomaterialista, antinaturalista e abolizionista 
                  del genere3”. Può 
                  essere considerato un tentativo d'interpretazione e integrazione 
                  del cyberfemminismo e in particolare delle opere di Shulamith 
                  Firestone e Donna Haraway che più volte vengono citate 
                  nel testo. Queste teoriche avevano ravvisato nell'innovazione 
                  tecnologica il perno tramite il quale contrastare le condizioni 
                  sociobiologiche oppressive. Spingendosi oltre, lo xenofemminismo 
                  rivendica una “Politica per l'Alienazione4” 
                  intesa come trasformazione della natura esterna e interna: “Il 
                  nostro destino è legato alla tecnoscienza, dove nulla 
                  è tanto sacro da non poter essere riprogettato e trasformato 
                  in modo da allargare la nostra prospettiva di libertà5”. 
                  Questa proposta ritiene che l'aspetto centrale per la liberazione 
                  femminile consista nella modifica della natura stessa del corpo 
                  della donna tramite l'utilizzo delle tecnologie. Hester si concentra 
                  in particolare su due proposte. 
                  La prima è quella di contrastare il ciclo mestruale tramite 
                  lo sviluppo dello strumento Del-Em (un dispositivo che permette 
                  l'aspirazione del mestruo per mezzo di cannule e siringhe) al 
                  fine di limitare lo stato di differenziazione biologica che 
                  a suo parere incide sui ritmi vitali. 
                  La seconda è quella di contrastare e superare la gravidanza 
                  considerata, riprendendo la definizione di Firestone, “la 
                  deformazione dell'individuo nell'interesse della specie6”. 
                  Per questa motivazione è fortemente sostenuta l'ectogenesi 
                  ossia la riproduzione che non avviene all'interno dei corpi 
                  delle donne, ma in un ambiente artificiale. Lo xenofemminismo 
                  è infatti convinto che “i sistemi socio-tecnici 
                  si prestano più chiaramente a una politica antinaturalista7” 
                  e dunque “considerare il corpo come un potenziale luogo 
                  di intervento tecnopolitico femminista può essere uno 
                  strumento per rifiutare l'inevitabilità della sofferenza8”. 
                  Questo tipo di lettura trova un'eco anche nelle proposte di 
                  Carlo Flamigni, figura di primo piano dell'associazione Luca 
                  Coscioni legata al Partito Radicale, il quale da tempo sostiene 
                  che i modelli di ectogenesi “consentiranno alle donne 
                  di sottrarsi alla schiavitù delle gravidanze9”. 
                   
                  Un crescente malessere interiore 
                  Mi sembra, però, che la tematica più interessante 
                  su cui riflettere sia quella relativa alla causa di una forte 
                  e diffusa espansione di queste idee antinaturaliste. Probabilmente, 
                  la cultura dominante e la fede nel progresso tecnologico illimitato, 
                  unite a uno stato di malessere interiore sempre più diffuso, 
                  stanno creando a queste proposte un terreno fertilissimo. Mi 
                  appare tangibile il fatto che un modello sociale, come quello 
                  diffuso nelle società occidentali, che abitua a un non 
                  equilibrato rapporto con il proprio corpo, a un'alienazione 
                  costante da questo, finisca poi per indebolire il rapporto con 
                  la nostra natura umana. A tal proposito, la comparazione tra 
                  le difficoltà che vivono nel parto le donne occidentali 
                  con quelle che si riscontrano in società non capitalistiche 
                  evidenzia quanto forte sia l'incidenza del modello alienante 
                  e oppressivo capitalistico. 
                  In questo contesto di crescente malessere interiore, per molte 
                  donne occidentali il ciclo e la gravidanza arrivano ad essere 
                  vissuti non solo come degli eventi faticosi ma in molti casi 
                  estremamente spaventosi. Le proposte xenofemministe si diffondono, 
                  infatti, e non potrebbe essere altrimenti, proprio all'interno 
                  di quelle società in cui sempre più donne hanno 
                  difficoltà a rapportarsi con il proprio ciclo e sono 
                  sempre più diffuse problematiche legate al parto quali 
                  depressione post-partum, baby blues, birth 
                  trauma etc. 
                  Le difficoltà vengono associate alla donna mentre questa 
                  condizione è generata direttamente dalla società 
                  capitalistica. È per questo che la crescita di queste 
                  nuove problematiche all'interno di una società sempre 
                  più alienata e tecnologizzata favorisce una disarmonia 
                  interiore e abitua a livelli di malessere tali da incoraggiare 
                  a sua volta quelle soluzioni che alimentano questi processi 
                  invece di ridurli, paradossalmente in una spirale senza fine. 
                  In continuità con il contesto dominante, lo xenofemminismo 
                  fornisce delle risposte a quegli aspetti che vengono vissuti 
                  come sempre più avversi, proponendo una libertà 
                  individuale associata ad un'alienazione dal proprio sé 
                  (poiché sono gli strumenti che si sostituiscono al processo 
                  naturale). 
                  L'autrice non ha dubbi: la libertà e una supposta autonomia 
                  possono essere raggiunte solo tramite la separazione da alcune 
                  parti del proprio corpo. È proprio la delega alla macchina 
                  che dovrebbe rendere più libere poiché da un lato 
                  le donne sarebbero meno vincolate al genere maschile, dall'altro 
                  aggirerebbero le difficoltà dovute alla natura umana. 
                   
                  In armonia con la natura 
                  Un altro aspetto dello xenofemminismo rispetto al quale mi trovo 
                  in totale contrapposizione riguarda la natura del tipo di strumenti 
                  che questo rivendica: strumenti che presuppongono un forte apparato 
                  tecnologico prerogativa dei soli luoghi occidentali e che tanto 
                  contribuisce alla distruzione della natura. Infatti, se da una 
                  parte il modello proposto da Hester sembra escludere le popolazioni 
                  fuori dai contesti capitalistici, dall'altro si mostra in continuità 
                  con le logiche sviluppiste del capitalismo ben “descritte” 
                  dalle sproporzionate impronte ecologiche e dai continui disastri 
                  ambientali. 
                  Questo limite è particolarmente evidente nel capitolo 
                  Futurità xenofemministe, che presenta una forte 
                  critica ai movimenti ecologisti colpevoli di concentrarsi eccessivamente 
                  sulla figura del “Bambino” inteso come il beneficiario 
                  privilegiato dell'intervento politico. Intervento che restringerebbe 
                  le libertà degli adulti a causa della costante minaccia 
                  di limiti legali volti a tutelare proprio il “Bambino”. 
                  La contrapposizione tout-court supportata da Hester tra 
                  la sfera della libertà individuale e quella relativa 
                  alla preoccupazione per la vita dei futuri esseri umani, rischia, 
                  inoltre, di non cogliere il legame esistente tra la dimensione 
                  sociale e la sfera personale. Vivere rispettando gli equilibri 
                  naturali e in armonia con la natura non è uguale a trascorrere 
                  la propria esistenza assistendo allo svilimento del contesto 
                  naturale e al crescente malessere della propria specie in nome 
                  di... una supposta libertà personale. 
                   
                  E lo scambio emotivo tra madre e feto? 
                  Un ulteriore aspetto fortemente problematico che emerge nelle 
                  proposte avanzate da Hester riguarda la sfera della psiche del 
                  “Bambino”. Nello specifico della riproduzione affidata 
                  ad una macchina, in cui dovrebbe avvenire la formazione e lo 
                  sviluppo del feto, i problemi di carattere psicologico che si 
                  verificherebbero sono quantomeno allarmanti. 
                  Gli studi sulla psicologia prenatale (ad esempio, Emerson 1993,1994; 
                  Laing 1976) hanno ben messo in evidenza l'importanza di un positivo 
                  scambio emotivo tra madre e feto (positivo, è bene sottolinearlo, 
                  anche per la madre) e le ricerche degli ultimi anni confermano 
                  che le esperienze prenatali hanno un forte impatto sulla futura 
                  vita del feto stesso. Al contrario, se la gestazione avverrà 
                  all'interno di un macchinario, i futuri esseri umani che così 
                  si formeranno avranno problematiche interiori talmente profonde 
                  da non essere probabilmente nemmeno intuite da chi, invece, 
                  non ha sperimentato l'ectogenesi e la sostituzione di una macchina 
                  alla propria madre. 
                  Infine, un'ultima osservazione riguarda il legame esistente 
                  tra le proposte avanzate nel libro e il possibile sviluppo delle 
                  società capitalistiche. La crisi di prospettive di queste 
                  ultime, legata ad un'accettazione inerziale dei suoi valori, 
                  richiede con sempre maggiore urgenza dei cambiamenti. E così 
                  vengono presentate come emancipatorie soluzioni che al contrario 
                  amplificano il livello d'oppressione: “Bambini” 
                  la cui gestazione avviene all'interno di una macchina, donne 
                  che eliminano il mestruo con strumenti tecnologici, società 
                  modellate sulla tecnopolitica xenofemminista. Semplici aberrazioni 
                  o obiettivi strategici della società ipercapitalistica? 
Marco Piracci 
                
- Lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex, asessuax.
                
 - Alex B., Trans non è transhuman, 2018. Disponibile 
                  online: https://roundrobin.info/wp-content/uploads/2018/10/Trans-non-è-transhuman.pdf (URL consultato il 16/1/2019). 
                
 - Cfr. Helen Hester, Xenofemminismo, Nero, Roma 2018, p. 15.
                  
 - Cfr. Laboria Cuboniks, Xenofemminismo. Una politica per 
                    l'Alienazione, 2015. Disponibile on-line: www.laboriacuboniks.net/it/index.html 
                    (URL consultato il 3/1/2019). 
                  
 - Ibidem.
 - Cfr. Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi: autoritarismo maschile e società tardo-capitalistica, Guaraldi 1971, p. 207.
 - Cfr. Helen Hester, Xenofemminismo, op. cit., p. 26.
 - Ibidem, p. 26.
                
 - Cfr. Carlo Flamigni, “Fecondazione assistita, non c'è 
                  alcun vuoto”, L'Unità, 11 Luglio 2014. Disponibile 
                  online: https://www.radicali.it/20140711/fecondazione-assistita-non-c-alcun-vuoto/ (URL consultato il 17/1/2019).
  
                 
                      
                Giuseppe Pinelli/ 
				Il 1969, l'USI e l'impegno sindacale 				
				Che dire ancora di Giuseppe Pinelli, anarchico e partigiano, 
                  che con la sua coerenza e tenacia ha saputo dare un grande contributo 
                  all'attivismo anarchico e nonviolento del secolo scorso? Con 
                  il libro Il ferroviere di San Siro. Giuseppe Pinelli e la 
                  ripresa dell'Unione Sindacale Italiana a Milano (coedizione 
                  Associazione Culturale “Pietro Gori” Milano e Unione 
                  Sindacale Italiana USI-CIT, Milano 2018, pp. 86, € 10,00), 
                  il curatore Franco Schirone è riuscito a far emergere 
                  aspetti dell'impegno di Pinelli che poco sono stati sviluppati, 
                  pur se menzionati nei numerosissimi testi su Pinelli e su Piazza 
                  Fontana pubblicati in quasi cinquant'anni da quella strage di 
                  Stato perpetrata da criminali fascisti manovrati da organi dello 
                  Stato e da militari. 
                   L'opera 
                  viene introdotta da una intervista realizzata da Laura Tussi 
                  alla figlia Claudia Pinelli, dove emergono parole e significati 
                  trasmessi da una famiglia che ha subito una gravissima ingiustizia, 
                  un assassinio, ma che al contempo ha saputo trasformare la vicenda 
                  in una grande lotta di verità e giustizia. Claudia scrive 
                  di “come un partigiano anarchico, un ferroviere, sia riuscito 
                  a inceppare la macchina dello Stato e a smuovere una coscienza 
                  civile”. 
                  L'esperienza dell'USI (Unione Sindacale Italiana) a Milano abbraccia 
                  quel periodo di forte pulsione sociale e di grandi rivendicazioni 
                  del mondo del lavoro, sempre più deluso dall'azione dei 
                  sindacati confederali. Giuseppe Pinelli è tra i principali 
                  promotori, responsabile della sezione USI-Bovisa; lo ricorda 
                  in un'interessante intervista Ivan Guarnieri, compagno di Pino, 
                  che ne racconta l'attività. 
                  Enrico Moroni, nella sua testimonianza, parla della seconda 
                  sezione, l'USI-Centro, con sede in una piazza molto particolare... 
                  appunto Piazza Fontana, in uno stabile occupato, l'ex-hotel 
                  Commercio, in disuso da diversi anni, trasformato in Casa dello 
                  Studente e del Lavoratore da studenti e lavoratori che non potevano 
                  permettersi di pagare un affitto. L'ex-Hotel Commercio rappresenta 
                  anche la lotta contro le carovane dello sfruttamento dei lavoratori. 
                  Viene fatta anche un'approfondita analisi della lotta alla Fiat 
                  di Milano per rivendicare un salario dignitoso e maggiori tutele 
                  e diritti. Il testo, inoltre, è ben documentato da immagini, 
                  volantini e articoli di quel periodo storico di grandi lotte 
                  sociali: il 1969. 
                  Negli anni, molte sono state le iniziative a ricordo di Giuseppe 
                  Pinelli. Sono ricordate in particolare quelle allo spazio occupato 
                  Micene, considerato il luogo della memoria, a poca distanza 
                  da quella che all'epoca del suo assassinio era l'abitazione 
                  di Giuseppe Pinelli e della sua famiglia. 
                  Un toccante pensiero di Claudia Pinelli, “A mio padre”, 
                  fa capire al lettore quelle vibrazioni e sensazioni che attraversano 
                  la vita di suo padre: “il freddo è intenso”, 
                  “eravate belli”, “quanto impegno nella tua 
                  vita” e altre parole e frasi che colpiscono il lettore. 
                  A chiudere l'opera, l'ultima lettera di Giuseppe Pinelli, scritta 
                  nel pomeriggio del 12 dicembre 1969, poche ora prima del suo 
                  fermo, indirizzata a Paolo Faccioli (un anarchico allora detenuto) 
                  nella quale Pinelli descrive l'essenza dell'anarchismo che “non 
                  è violenza. La rigettiamo, ma non vogliamo nemmeno subirla: 
                  l'anarchia è ragionamento e responsabilità”. 
                  Ammetto che la lettura di questo libro trasmette un pezzo di 
                  storia e di valori che adesso sento ancora più miei. 
                  Un invito alla lettura affinché la violenza del potere 
                  sia annullata dalla forza della verità. 
Fabrizio Cracolici 
                 
                      
                Il caso Camenish/ 
				Contro un sistema sempre più totalizzante 				
				Marco Camenisch resta uno dei più antichi militanti 
                  antinucleari. Uno dei tanti giovani ecologisti che dall'inizio 
                  degli anni Settanta, soprattutto negli Stati Uniti e nell'Europa 
                  di lingua tedesca, hanno saputo sviluppare una critica all'atomo 
                  e alle conseguenti devastazioni ambientali, mettendo per la 
                  prima volta in discussione le logiche - non solo economiche 
                  - della modernità industriale. 
                   Marco 
                  nasce in un paesino delle Alpi Retiche, nel Canton Grigioni 
                  (svizzera sud-orientale) e crescendo vive lo scempio delle montagne 
                  e del territorio con estrema sofferenza. Ed è il pericolo 
                  atomico, sdoganato ad uso civile e pacifico, la molla che fece 
                  scattare in lui la ribellione contro le aziende elettronucleari 
                  ben cosciente, da anarchico, che l'ecologismo radicale ha senso 
                  nella generale critica antiautoritaria al consolidato sistema 
                  di dominio tecno-industriale. 
                  Con la dura e spropositata condanna a 10 anni per dei sabotaggi 
                  esclusivamente materiali, le autorità di Coira vollero 
                  dare a suo tempo una punizione esemplare a Marco e un chiaro 
                  segnale alle varie “teste calde” che nelle montagne 
                  grigionesi, sull'onda contadina ecologista, stavano iniziando 
                  a creare seri problemi di ordine pubblico in un tranquillo angolo 
                  della Svizzera con Davos e St. Moritz, fiore all'occhiello dei 
                  VIP di mezzo mondo; aspetto questo non secondario nel calare 
                  la mannaia giudiziaria, contribuendo così a radicalizzare 
                  in Marco quel senso di rivolta senza vie di ritorno. 
                  Tutto il resto è stata conseguenza: l'evasione da Regensdorf, 
                  undici anni di latitanza, la cattura in Toscana, 25 anni di 
                  carcere tra Italia e Svizzera, il vasto e variegato circuito 
                  internazionale di solidarietà creatosi nel corso degli 
                  anni e dei decenni. 
                  La grande sfortuna di Marco resta l'essersi trovato clandestinamente 
                  in Val Poschiavo a visitare madre, fratello e la tomba del padre 
                  nei giorni in cui fu ucciso il doganiere Kurt Ploser. Una responsabilità 
                  da cui si è sempre dichiarato estraneo. 
                  Non la pensarono così i giudici di Zurigo che lo condannarono 
                  per l'omicidio o, ancor più grave, il Consiglio Federale 
                  che nel rapporto sull'estremismo in Svizzera del 1992 parlò 
                  di Camenisch quale autore materiale dell'omicidio in questione 
                  senza che alcun tribunale si fosse ancora espresso in merito. 
                  Del resto solo incastrandolo per omicidio era possibile tenerlo 
                  “legittimamente” in galera per un quarto di secolo; 
                  con continue vessazioni, ad iniziare da quelle della giudice 
                  inquirente Claudia Wiederkehr, (guarda caso figlia del direttore 
                  della NOK, cioè l'azienda elettrica sabotata da Marco 
                  nei 1979); blocco di corrispondenza e colloqui, trasferimenti 
                  improvvisi, carcere duro e istigazione al suicidio con l'isolamento 
                  totale nella fortezza di Thorberg. 
                  Da questa odissea si è sviluppato l'interesse del giovane 
                  autore, Norman Lipari (nato nel 1989, anno della caduta del 
                  muro di Berlino e dell'Impero sovietico), che con il libro L'affare 
                  Camenish (La Baronata, Lugano 2017, pp. 176, € 15,00) 
                  ha messo in campo un'interessante ricerca, agile, scorrevole 
                  e ben documentata. Un libro da considerarsi, a tutti gli effetti, 
                  un prezioso lavoro di storia contemporanea scritto - direi - 
                  con precisione svizzera. 
                  L'autore cerca infatti di analizzare situazioni e dinamiche 
                  che hanno fatto dell'anarchico Camenisch il grigionese più 
                  conosciuto e apprezzato nel resto del mondo. È certo 
                  incredibile pensare all'indifferenziato movimento cresciuto 
                  in sua solidarietà nel corso di due decenni e mezzo di 
                  carcere, con una costellazione di contatti solidali, corrispondenze 
                  continue e infinite traduzioni con l'idea di fare da ponte tra 
                  piccole e grandi realtà di lotte ecologiste, rivoluzionarie 
                  e tendenzialmente antiautoritarie. 
                  La miriade di azioni in sua solidarietà hanno avuto un 
                  effetto domino tanto da diffondersi in ben tre continenti, coagulando 
                  anarchici, ecologisti radicali, comunisti rivoluzionari, indigeni 
                  Mapuche, Pémon e zapatisti dell'America Latina, cristiani 
                  del dissenso e una discreta moltitudine di giovani e persone 
                  comuni indignate per la sistematica distruzione dell'ecosistema. 
                  Oltre a una forte resistenza alla prigionia Marco Camenisch 
                  è riuscito a dialogare con questa umanità eterogenea, 
                  facilitando spesso dei contatti nel ricercare una comunanza 
                  su questioni concrete, per essere contro un sistema sempre più 
                  totalizzante e crudele senza per questo perdere la dimensione 
                  solare nel gusto della vita e nel piacere della libertà. 
Piero Tognoli 
                 
                      
                Risorgimento “altro”/ 
				Contro la retorica nazionalista e militarista 				
				Sulle note patriottiche de La bella Gigogin, quest'avvincente 
                  “antistoria” (Luciano Bianciardi, Antistoria 
                  del Risorgimento. Daghela avanti un passo!, Minimum fax, 
                  Roma 2018, pp. 256, € 16,00), ennesima riedizione di un 
                  noto testo bianciardiano uscito per la prima volta nel 1969 
                  (ed. Bietti), racconta – con la giusta dose di ironia 
                  e sarcasmo – un altro Risorgimento o, per meglio dire, 
                  un Risorgimento “altro”. Sesto libro pubblicato 
                  da Bianciardi, scritto apposta per un pubblico di ragazzi e 
                  dedicato a Marcellino, il figlio avuto dalla nuova compagna, 
                  la scrittrice e poetessa Maria Jatosti, Daghela avanti un 
                  passo! è un romanzo di passioni dedicato all'epopea 
                  dell'unità nazionale italiana. 
                   È 
                  il proseguimento del filone garibaldino già inaugurato 
                  con Da Quarto a Torino (1960) e con il romanzo sperimentale 
                  La battaglia soda (1964). Non avrà poi molta fortuna 
                  l'idea di farne un libro da adottare nelle scuole e, ben presto, 
                  l'iniziale prefazione rivolta Al ragazzo che legge sarà 
                  sostituita con una nuova prefazione intitolata stavolta Prefazione 
                  al lettore adulto. 
                  Lo scrittore toscano reinterpreta alla sua maniera l'immaginario 
                  collettivo e le narrazioni ormai consolidate, inficiate prima 
                  dal fascismo e quindi dal regime democristiano in perfetta continuità, 
                  con una frattura notevole nei confronti di quella retorica nazionalista 
                  e militarista fino ad allora davvero pervasiva nell'acculturazione 
                  scolastica. Chi, ancora tra gli anni Cinquanta e Sessanta del 
                  secolo scorso, avesse frequentato le classi elementari e le 
                  scuole medie italiane, capirà molto bene di cosa stiamo 
                  parlando. 
                  Anarchico, bastian contrario e volutamente provinciale, prototipo 
                  dell'anti-intellettuale, allergico ai grattacieli di Milano 
                  e a quell'ambiente neo-impiegatizio moderno eppure così 
                  falso, – con i ragionieri tutti precisini e le segretarie 
                  che sculettano –, Luciano Bianciardi (1922-1971) ama profondamente 
                  i minatori e la gente della sua Maremma. Così la “diseducazione 
                  sentimentale”, che accompagna i nuovi orizzonti mentali 
                  dell'epoca del boom economico in salsa meneghina, merita in 
                  pieno la sua scrittura graffiante e i suoi strali. L'interpretazione 
                  gramsciana sul Risorgimento quale “rivoluzione mancata” 
                  certo non è del tutto estranea all'argomentare del nostro. 
                  Ma lasciamo da parte, almeno per questa volta, la storiografia. 
                  Bianciardi, in quegli anni così convulsi, proprio perché 
                  innamorato dell'epopea risorgimentale, saga autenticamente popolare 
                  sacrificata alla ragion di Stato, ci rivela che il re è 
                  nudo. E cioè, per fare un esempio, che le quattro icone 
                  per antonomasia dell'unità nazionale (Vittorio Emanuele 
                  II, Cavour, Mazzini e Garibaldi) – quelle che, tutte insieme 
                  appassionatamente, hanno fatto da sempre capolino dai sussidiari 
                  di 5^ – ebbene, proprio quelle raffiguravano in realtà 
                  soggetti protagonisti in perfetto disaccordo fra di loro, fake 
                  news si direbbe oggi. Il modo di raccontare è didascalico, 
                  didattico e divulgativo, più simile a un saggio che a 
                  un romanzo e il testo è proprio quello che ci sarebbe 
                  piaciuto avere alle medie. 
                  “La verità – argomenta in conclusione l'autore 
                  (p. 238) – è che fra questi uomini spesso non vi 
                  fu concordia, ma avversione e odio, discrepanza e irresolutezza. 
                  La verità è che il Risorgimento fece l'Italia 
                  quale poi ce la siam trovata noi italiani, lacerata e divisa. 
                  Divisa fra italiani ricchi e italiani poveri. Fra italiani del 
                  Nord e italiani del Sud. Fra italiani dotti e italiani analfabeti...” 
                  Nella postfazione Pino Corrias (pp. 239-244) annota le ragioni 
                  profonde della narrazione bianciardiana, tutta emozionale, nata 
                  dalle nostalgie dell'infanzia e dalla memoria dei racconti del 
                  babbo ascoltati “nella piccola penombra della casa di 
                  Grosseto”, ma anche frutto di una “tremenda incazzatura”, 
                  covata all'osteria e meditata seduto sui gradini del Duomo, 
                  in quella ormai per lui inestricabile “giungla merdosa”, 
                  rappresentata dal mondo dell'editoria e dalle chiese democristiana 
                  e comunista. “Ultimo bohémien” nella definizione 
                  di Giovanni Arpino, lo scrittore maremmano ha interpretato, 
                  nel suo sentire, la purezza degli ideali dei ragazzi in camicia 
                  rossa, prima che diventassero “bottino” dei piemontesi 
                  opportunisti in procinto di dispensare tasse e colpi di baionetta 
                  ai nuovi sudditi. 
                  Ai temi risorgimentali lo scrittore maremmano dedica complessivamente 
                  ben cinque lavori. Oltre a quelli citati e al presente, ci sono: 
                  Aprire il fuoco (1969) e il postumo Garibaldi 
                  (1972). 
                  “Adopera la tecnica dell'anacronismo deliberato, trasporta 
                  nell'Ottocento i suoi disincanti, sposta di un secolo avanti 
                  le Cinque Giornate. Ma non è uno scherzo. Si sente davvero 
                  un ex garibaldino deluso da tutto, l'ultima camicia rossa della 
                  storia. E, come aveva già fatto l'eroe della sua infanzia, 
                  anche lui si consegna all'esilio...” (p. 13). 
                  Quell'epopea, per l'autore de La vita agra, marca un 
                  incredibile corto circuito passato/presente, un ripiegamento, 
                  appunto, verso l'auto-esilio: segnale di fuga esistenziale e 
                  fallimento. E infatti, la produzione risorgimentale di Bianciardi 
                  collima con gli anni più cupi della sua vita. 
                  Dalle Cinque Giornate a Bezzecca e a Mentana, passando per Calatafimi 
                  e l'Aspromonte: il testo, seguito dalla postfazione di Corrias, 
                  è articolato in sedici capitoli e in un epilogo, preceduti 
                  da un accurato profilo bio-bibliografico sull'autore. 
Giorgio Sacchetti 
                 
                      
                Carlo Tresca/ 
				Contro il fascismo, lo stalinismo e la mafia 				
				Tra gli strumenti a disposizione nella lotta per una vita degna 
                  di essere vissuta e compresa, la letteratura, nel genere storico 
                  romanzesco, da sempre ha assunto un ruolo fondamentale, per 
                  ricordare, interpretare gli avvenimenti e forse suonare l'allarme 
                  concernente il rischio di un pessimo futuro. Appartiene a questa 
                  tipologia letteraria il libro di Enrico Deaglio La zia Irene 
                  e l'anarchico Tresca (Sellerio editore, Palermo 2018, pp. 
                  288, € 14,00). 
                   L'autore 
                  con fluida capacità narrativa, facendo succedere un episodio 
                  ad un altro ed intrecciando i diversi episodi fra di loro, senza 
                  smarrire il filo conduttore del racconto, mi ricorda Nuova 
                  York, il romanzo del grande scrittore nordamericano del 
                  mondo del lavoro John Dos Passos, difensore fra l'altro di Sacco 
                  e Vanzetti. Anche in questo caso, come nel libro dello scrittore 
                  americano, gli episodi si intrecciano e molti di questi sono 
                  resi con tecnica che rimanda all'immediatezza cinematografica. 
                  Un importante corredo iconografico rende ancora più intensa 
                  e dinamica la narrazione. Il centro nodale della narrazione 
                  è rappresentato dalla leggendaria figura di Carlo Tresca, 
                  stroncato in un agguato da diversi colpi di pistola con esecutori 
                  conosciuti e mandanti non particolarmente cercati, ma eloquentemente 
                  indicati nel romanzo, dei quali si è ampiamente dibattuto 
                  nella ricerca storica pregressa. 
                  La realtà antidemocratica della prima metà del 
                  900, fatta di guerre e rivoluzioni, della micidiale guerra 
                  per il potere nel movimento operaio combattuta dal comunismo 
                  mondiale principalmente contro gli anarchici, lo shock fra le 
                  file democratiche filocomuniste a causa del patto Hitler-Stalin 
                  e dell'alleanza tra i due totalitarismi, balzano fuori con chiarezza 
                  dalle pagine del libro. È un libro, quasi un promemoria, 
                  molto documentato su tutte le nefandezze che i comunismi di 
                  obbedienza moscovita hanno fatto o hanno tentato di fare agli 
                  anarchici, sopratutto in Spagna e in Nord America, dove si svolge 
                  la maggior parte dell'azione, sia quella storica rivisitata 
                  che quella attuale agita dal nipote della zia Irene, e dall'altra 
                  protagonista, Rita, che condivide la ricerca dei mandanti dell'assassino 
                  di Carlo Tresca. 
                  Il romanzo si articola su tre piani, legati tra loro in modo 
                  convincente, tale da produrre nel lettore la percezione di avventurarsi 
                  in regioni della storia e della cronaca sconosciute, eppure 
                  note. Il primo piano delinea e racconta la figura di Carlo Tresca, 
                  talmente amato e popolare tra gli italo-americani antifascisti 
                  per le sue doti umane, morali ed intellettuali e per la sua 
                  rettitudine, da essere indicato, nelle convulse trattative che 
                  si svolsero tra l'emigrazione antifascista italo-americana e 
                  il governo americano, all'approssimarsi della caduta del regime 
                  fascista in Italia, come il leader di un governo italiano in 
                  esilio, pronto a recarsi in Italia con l'esercito alleato. 
                  Se Carlo Tresca è sconosciuto al grande pubblico, non 
                  lo è però agli anarchici, che in Italia alla sua 
                  figura hanno dedicato impegno editoriale e studi circostanziati, 
                  primo fra tutti Giuseppe Galzerano, che ha curato e editato 
                  molti anni fa in italiano la biografia di Carlo Tresca di Nunzio 
                  Pernicone, lo storico italo-americano dell'anarchismo recentemente 
                  scomparso. In altre parole la bibliografia su Carlo Tresca è 
                  più vasta di quella riportata nella sezione Fonti e ringraziamenti 
                  del libro, anche perché, in qualsiasi storia dell'antifascismo 
                  italiano negli Stati Uniti, le figure di Galleani e di Tresca 
                  e delle rispettive correnti ne sono parte integrante. 
                  Da Roma, ormai stremata, attanagliata dalla paura dell'invasione 
                  islamica, sottoposta allo stato d'assedio, percorsa da raid 
                  fascisti e da file indifferenti di cittadini in attesa paziente 
                  di sorbire il gelato fra un'esplosione e l'altra, si origina 
                  il secondo piano del romanzo. Quello della vera e propria trasferta 
                  in America dei protagonisti, dopo che la zia Irene, funzionaria 
                  del Ministero dell'Interno nei servizi di spionaggio, ha lasciato 
                  in eredità a suo nipote, tramite un gruppo di suoi colleghi 
                  in pensione, impegnati politicamente contro il degrado politico 
                  nel quale versa il Paese, una valigia piena di segreti. Con 
                  l'incarico, forse suo, forse dei suoi colleghi, di far luce 
                  sull'assassinio di Carlo Tresca. 
                  Insensibilmente il secondo piano si intreccia e si fonda con 
                  il terzo piano del romanzo, tessuto con i fili di acciaio di 
                  diversi tipi di potere che nascono da lontano, sia temporalmente 
                  che geograficamente e che giungono ai giorni nostri. Concentrazione 
                  di poteri che, anzi, a leggere il romanzo, sembra configurare 
                  la attualità di violenza dominante e sprezzante verso 
                  i deboli e gli oppressi con il marchio indelebile di un eterno 
                  presente senza speranza. L'autore suggerisce, con il suo romanzo, 
                  che se si vuol comprendere la storia dei giorni nostri, è 
                  necessario ritornare alla prima metà del secolo, quando 
                  dagli accordi in America e in Italia tra i diversi poteri di 
                  allora, legali e malavitosi, venne strutturato il futuro del 
                  Paese come sarebbe stato. 
                  Se il protagonista della ricerca, ad un certo punto della narrazione, 
                  rileva che “quella che sto studiando è una storia 
                  di mafiosi, nazisti, comunisti, anarchici; tutte categorie di 
                  persone che non esistono più. Però ci sto ritrovando 
                  un po' lo stesso clima che si respira oggi.” È 
                  da augurarsi che non si debba mai arrivare, nonostante l'attuale 
                  crisi che attraversa la società che conosciamo, ad un 
                  tale grado di sfacelo come narrato nel libro di Deaglio. 
Enrico Calandri 
                 
                      
                Antimilitarismo al Sud/ 
				Un “blocco rosso” fino alla rivoluzione 				
				Documentare gli intenti programmatici e le azioni di lotta 
                  del “movimento dei giovani sovversivi meridionali contro 
                  la guerra” e per la difesa dei bisogni delle classi popolari, 
                  negli anni del primo conflitto mondiale (1914-1918), è 
                  l'intento, ben riuscito, del saggio di Daria De Donno, da poco 
                  uscito col titolo Una “union sacrée” per 
                  la pace e per la rivoluzione (Le Monnier, Firenze 2018, 
                  pp. 196, € 15,00). 
                   La 
                  De Donno, servendosi di un ampio materiale d'archivio (attingendo 
                  anche a quello, disponibile su Internet, nel sito del Ministero 
                  dei Beni Culturali, del Casellario Politico Centrale, che contiene 
                  migliaia di schede digitalizzate e offerte alla pubblica consultazione, 
                  sulle vicende biografiche e politiche dei militanti delle aree 
                  politiche dissidenti dell'Italia del primo novecento e del ventennio 
                  fascista), e traendo dati e informazioni da un vasto repertorio 
                  bibliografico – ricostruisce le azioni e le idee della 
                  gioventù di sinistra del meridione continentale che si 
                  oppose in modo determinato e combattivo alla “grande guerra”. 
                  In particolare, la De Donno esamina l'attività dell'organizzazione 
                  giovanile del Partito Socialista Italiano, la FGSI (Federazione 
                  Giovanile Socialista Italiana), nata nel 1903 e subito abbastanza 
                  presente nelle regioni meridionali e in particolare in Puglia, 
                  dove, guidata da un giovane bracciante di Andria, Nicola Modugno, 
                  intraprenderà una decisa e aspra battaglia antimilitarista, 
                  opponendosi sia alle forze guerrafondaie (monarchiche, governative 
                  e conservatrici) sia alle correnti interne al PSI, tiepidamente 
                  neutraliste o orientate a un interventismo democratico, proponendo 
                  peraltro un'alleanza con tutta l'area giovanile antagonista 
                  meridionale, in primis con gli anarchici, per creare 
                  con loro un “blocco rosso”, una “union sacrée” 
                  che avrebbe dovuto “spingersi fino all'insurrezione armata 
                  che dal Mezzogiorno avrebbe potuto dare avvio alla rivoluzione 
                  proletaria europea”, contro l'”union sacrée” 
                  delle grandi potenze capitaliste (che con la guerra cercavano 
                  spazi ulteriori di dominio politico ed economico). 
                  Il saggio della De Donno dando conto della molteplicità 
                  delle iniziative di questo fronte della gioventù meridionale 
                  sui generis, vivace e sovversivo, ne mostra l'aspetto 
                  oltremodo attivo, propositivo e rivoluzionario, largamente sconosciuto 
                  ai più e trascurato dagli studi storici. Viene fuori 
                  un'inedita e interessante storia della terza generazione di 
                  giovani proletari meridionali, composta in gran parte da contadini 
                  e artigiani, poco istruiti ma molto combattivi, raccolti in 
                  maggioranza nella FGSI e capaci di rapportarsi, col linguaggio 
                  dei fatti e della lotta politica concreta, con i leader più 
                  autorevoli del socialismo meridionale, come Amedeo Bordiga, 
                  che il movimento giovanile guarderà con interesse e sosterrà 
                  sin quando gli è possibile, e con i dirigenti nazionali 
                  del PSI, coi quali intratterrà un rapporto molto spesso 
                  conflittuale e sempre intransigente nel netto rifiuto della 
                  guerra, nella denuncia della totalità estraneità 
                  dei ceti popolari agli interessi di chi l'ha promossa, nell'invito 
                  ad abbattere il sistema economico-politico che l'ha prodotta: 
                  il capitalismo. 
                  Prorompente – nel tumultuoso agire del movimento giovanile 
                  per contro-informare e organizzare le masse meridionale sulla 
                  necessità di boicottare e disertare l'intervento militare 
                  – emerge la figura di Nicola Modugno, formatosi giovanissimo 
                  alle idee dell'anarco-sindacalismo, poi diventato segretario 
                  della FGSI pugliese e collaboratore de “L'Avanguardia”, 
                  organo nazionale dei giovani socialisti, sulle pagine del quale 
                  tratterà i temi e le urgenze della “questione meridionale”; 
                  il suo declino politico sarà parallelo a quello dell'intera 
                  generazione sovversiva meridionale, perseguitata e repressa 
                  dalle forze dell'ordine, per propaganda e attività antipatriottica 
                  durante il conflitto, per l'impegno antifascista, con l'instaurarsi 
                  del regime mussoliniano, dopo la guerra. Incarcerato più 
                  volte, confinato e isolato politicamente, dopo la scissione 
                  del PCD'I dal PSI e i contrasti interni nello stesso PSI tra 
                  intransigenti e moderati, Modugno, declinando definitivamente 
                  il sogno insurrezionale, si riavvicinerà agli ambienti 
                  anarco-sindacalisti. 
                  La sua fu una generazione di giovani meridionali “appartenenti 
                  al mondo rurale e artigianale/operaio” che, seppure sconfitti, 
                  “in un contesto sociale e politico poco dinamico”, 
                  svolse “un ruolo rappresentativo e di cambiamento”, 
                  mettendo in campo le energie e le forze migliori per dar corpo 
                  “alle attese insurrezionali da tempo covate” in 
                  un territorio ancor più immiserito dalla “brutalità” 
                  di una guerra che gli chiedeva insensatamente il sacrificio 
                  di uomini e risorse. 
Silvestro Livolsi 
                 
                      
                1968-1977/ 
				Controcultura e rivolta, anche in provincia 				
				A cinquant'anni dal mitico '68, sul finire dell'anno scorso 
                  è uscito per le edizioni Aska di Firenze l'ultimo libro 
                  di Giorgio Sacchetti dal titolo Pugni chiusi (pp. 368, 
                  € 20,00). Sacchetti è docente universitario a contratto 
                  di Storia contemporanea con curricula accademici significativi, 
                  ma in questo suo lavoro più volte si distacca dalla traccia 
                  classica del saggio storico e si appropria del metodo di analisi, 
                  che potremo dire era, della rivolta studentesca di quegli anni; 
                  un'analisi che parte dal basso e si fonda sul confronto e la 
                  condivisione di esperienze.  Tant'è 
                  che il libro inizia con la Prefazione, scritta da Claudia 
                  e Silvia Pinelli, che si avvia con l'affermazione «C'è 
                  stato un tempo in cui il Noi è stato più importante 
                  dell'Io» e termina con la testimonianza di Marco Noferi: 
                  «Poi quegli anni passarono, finì il “noi” 
                  e arrivò il '77 anche in Valdarno, con le sue paure, 
                  il suo “io”, il sesso affrettato, le fughe, la fragilità». 
                  Così il testo attraversa il periodo tra il 1968 e il 
                  1977 leggendolo dalle esperienze dei vari protagonisti e non 
                  solo quelle delle dieci testimonianze, che occupano quasi un 
                  terzo del volume, «fiore all'occhiello del libro» 
                  come si legge nella quarta di copertina, ma anche le tante citate 
                  nei capitoli precedenti. Poi i due sottotitoli del libro, Storia 
                  transnazionale di un Sessantotto di periferia e Gauchisme, 
                  controculture e rivolta giovanile in provincia di Arezzo (1968-1977), 
                  ci delimitano anche uno spazio geografico che è quello 
                  di Arezzo e dell'alto Valdarno dove il giovane Giorgio vive 
                  quegli anni, conoscendo direttamente i protagonisti dei quali 
                  racconta le esperienze e ai quali fa raccontare la loro storia 
                  diventando il curatore di un'opera collettiva, come lui stesso 
                  la definisce, e nello stesso tempo dimostrando come in quello 
                  «scenario globale e temporalmente molto esteso» 
                  del lungo Sessantotto, non esistessero più né 
                  centro né periferie e i fatti locali appartenessero pienamente 
                  al «primo evento simultaneo dello storia, che ha coinvolto 
                  e sconvolto gli assetti di potere politico e sociale ai quattro 
                  angoli del mondo» (p. 12). 
                  Sacchetti utilizza una molteplicità di fonti diverse 
                  per ricavarne un racconto storico dove non esiste più 
                  una gerarchia delle fonti, ma l'insieme delle testimonianze 
                  e dei materiali raccolti che spinge verso la ricerca della verità; 
                  non è soltanto data dalla documentazione dei fatti, ma 
                  anche da come questi sono stati vissuti nelle emozioni dei protagonisti. 
                  Per questo nel libro le fonti orali hanno la prevalenza e l'autore 
                  svolge con abilità il ruolo dello storico che documenta 
                  i fatti e conserva le emozioni dei testimoni: «perché 
                  anche noi abbiamo inteso i racconti soggettivi e le storie di 
                  vita come degne di accedere nel novero ufficiale degli strumenti 
                  di conoscenza sul Novecento», scrive nel Prologo. 
                  Parallelamente le esperienze individuali vengono filtrate e 
                  osservate attraverso fonti provenienti da una ricca selezione 
                  di documenti come volantini, ciclostilati, riviste e giornali 
                  del periodo studiato. Dagli stessi archivi è tratta anche 
                  l'ampia galleria fotografica (oltre un centinaio di foto) che 
                  arricchisce il volume. 
                  I temi trattati da Giorgio Sacchetti in questo libro sono molti 
                  perché il Sessantotto ha coinvolto la società 
                  in tutti gli aspetti della vita; è stato un momento di 
                  rottura che ha prodotto un'onda lunga di cambiamenti nella mentalità. 
                  Nell'Introduzione Paolo Brogi traccia quelle che per 
                  lui sono le coordinate del libro: da un lato la psichiatria 
                  e antipsichiatria e dall'altro le lotte operaie e l'internazionalismo 
                  contro ogni forma di totalitarismo. 
                  C'è un Sessantotto, scrive Sacchetti, «che parte 
                  da molto lontano e che ha i suoi prodromi negli epocali sconvolgimenti 
                  che si registrano, sui versanti sociopolitico e culturale, già 
                  dal decennio precedente. È così che nascono e 
                  si consolidano vaste aree di dissidenza: a sinistra con i famosi 
                  fatti di Ungheria del 1956 e il disvelarsi, sempre più 
                  palese, del volto totalitario del comunismo; nel mondo cattolico 
                  con l'avvento di papa Roncalli e il conseguente rinnovamento 
                  conciliare; nelle nuove generazioni, quelle dei nati nell'immediato 
                  dopoguerra, con la rapida diffusione delle controculture e degli 
                  stili di vita “anglosassoni” e globalizzati, prima 
                  fra tutte la dirompente musica rock» (pp. 34-35). Entra 
                  in crisi il partito e prendono corpo due correnti di pensiero: 
                  quella marxista e quella socialista-libertaria; insieme alla 
                  matrice culturale cattolica sono i tre filoni che guidano il 
                  pensiero di quegli anni. Ma la «vocazione giovanile alla 
                  trasversalità e alla rottura generazionale» (p. 
                  43), la voglia di contrapporre il “popolo dei lavoratori” 
                  al partito o il “popolo di Dio” alle gerarchie ecclesiastiche 
                  mette sempre tutto in discussione, prima di tutto l'obbedienza. 
                  Il libro dedica spazio anche al nuovo linguaggio del Sessantotto 
                  e del post-sessantotto, generato da intellettuali anche molto 
                  diversi tra loro, che trova i luoghi principali di espressione 
                  nelle assemblee studentesche e che produce volantini, ciclostilati, 
                  giornalini scolastici o parrocchiali fino alle prime radio libere. 
                  E poi la musica, elemento globalizzante di questa voglia di 
                  cambiamento, con interpreti che sono l'immagine di un mondo 
                  nuovo, di un nuovo modo di comunicare, di una generazione che 
                  si oppone al consumismo, al materialismo, al conformismo, ai 
                  modelli precostituiti e cerca spazi di libertà. 
                  Prima di lasciare spazio alla memoria dei protagonisti con le 
                  loro testimonianze dirette, l'autore riporta le Cronologie 
                  del periodo dei fatti avvenuti nella provincia di Arezzo mettendo 
                  in evidenza il clima “caldo” di quegli anni senza 
                  perdere di vista il panorama internazionale. 
                  Pugni chiusi racconta così l'ultima rivoluzione, 
                  il modo in cui sono stati sovvertiti «in maniera profonda 
                  tutto il sistema di valori esistente, l'idea stessa di potere 
                  costituito, i modi di concepire il corpo, il sesso, i rapporti 
                  tra sessi, la famiglia, i linguaggi, i consumi, perfino i dress 
                  code» attraverso «il primo evento globale della 
                  storia che ha investito, simultaneamente e grazie alla potenza 
                  dei nuovi media come la televisione, il nord e il sud del mondo, 
                  l'est e l'ovest: contro il colonialismo e la segregazione razziale, 
                  contro le disugualianze e lo sfruttamento nel sistema capitalistico, 
                  contro l'oppressione del mondo comunista». Resta «”uno 
                  stato d'animo”, un'etica. Perché il Sessantotto 
                  forse non avrà cambiato la politica, ma ha rivoluzionato 
                  le esistenze. Così quei ragazzi inquieti hanno aperto 
                  una breccia ed hanno assestato un colpo tremendo “al basso 
                  ventre” della società gerarchica» (p. 113-115). 
Claudio Cherubini 
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