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				 Messico 
                  
                La ribellione indigena 
                  
                di Claudio Albertani 
                  
                A venticinque anni dall'inizio dell'esperienza zapatista in Chiapas, un attivista italiano che risiede in Messico da quarant'anni analizza grandezza e limiti di questa esperienza. 
                 
                  La coscienza umana non muore mai. 
                  Si addormenta, vegeta, cade a volte in uno stato letargico, 
                  però arriva il momento in cui si sveglia e, in qualche 
                  modo, recupera il tempo perduto. 
                  Raoul Vaneigem 
Un quarto di secolo, una vita. Da dove cominciare?  
Dai ricordi. Il 31 dicembre del 1993, il Messico si disponeva a inaugurare il Trattato di Libero Commercio con l'America del Nord, firmato pochi mesi prima con gli Stati Uniti e il Canada (Tlcan, o Nafta in inglese). Io vivevo qui dal 1979 e avevo percorso il paese in lungo e in largo, un po' come hippie e un po' come giornalista. Ero un fervente lettore di Malcolm Lowry, D. H. Lawrence e Jack Kerouac e, come loro, ero rimasto ipnotizzato dalla bellezza di queste terre, ma anche dalle sofferenze che trasudano.  
Del Messico mi affascinavano le culture indigene e il passato: la rivoluzione, le avventure di Ricardo Flores Magón e l'epopea di Emiliano Zapata, di cui ancora discorrevano i vecchi nei villaggi. Amavo i cieli tersi della Sierra Madre, i paesaggi sontuosi del tropico e ancor più il clima mite dell'altopiano; mi attraeva perfino Città del Messico che conservava una dimensione umana e non era la metropoli mostruosa di oggi. Per molti di noi, reduci dei ruggenti anni settanta, il Messico era una specie di oasi di libertà, un rifugio che ci aveva permesso di conoscere nuovi orizzonti e, soprattutto, stare alla larga dall'Italia, in preda alla depressione e al pentitismo.  
                  Sapevo bene, al tempo stesso, che il paese corrispondeva ancora 
                  alla lapidaria descrizione che ne aveva fatto Victor Serge, 
                  il rivoluzionario russo-belga che qui era morto nel 1947: “un 
                  paese a due colori, senza classi medie o con una classe media 
                  insignificante: in alto, la società del dollaro; in basso, 
                  la primitività, e spesso la miseria, dell'indio”.1 
                  Lo stesso paese profondamente razzista che descrive il regista 
                  Alfonso Cuarón, in Roma, film di successo, recentemente 
                  presentato al festival di Venezia. 
                Contro la corrente 
		        Quel 31 dicembre, i principali quotidiani e telegiornali festeggiavano l'imminente entrata del paese nello sfavillante regno della merce e la gente affollava i supermercati per il cenone della notte di San Silvestro, che qui chiamano Noche buena. Mentre il presidente Carlos Salinas de Gortari, dell'inossidabile Partido Revolucionario Institucional (Pri), celebrava il vertice della sua carriera, molto lontano dai bagliori della città, migliaia di miliziani dell'allora sconosciuto Ejército Zapatista de Liberación Nacional (Ezln) avanzavano silenziosi nella notte. Poche ore dopo, all'alba, facevano irruzione nella storia occupando militarmente sette città del Chiapas: San Cristóbal de Las Casas, Las Margaritas, Altamirano, Oxchuc, Huixtán, Chanal e Ocosingo.  
Risiedevo a Tepoztlán, un villaggio del Morelos, però conoscevo bene il sud-est, giacché lavoravo presso Noticias de Guatemala, un'agenzia di stampa, oggi estinta, che seguiva le lotte sociali del martoriato paese centroamericano. Andavo e venivo con frequenza, quasi sempre in macchina o in autobus e, quando potevo, mi fermavo a dormire a San Cristóbal, punto di sosta e bella cittadina coloniale. Sapevo che il Chiapas rassomigliava molto al Centroamerica ed ero stato più volte nella Selva Lacandona dove, accanto alle disastrate popolazioni maya locali, sopravvivevano a stento migliaia di rifugiati guatemaltechi, anch'essi in gran parte maya, che fuggivano da una terribile guerra di sterminio.  
                  Il primo gennaio, un sabato, festeggiavano l'anno nuovo a casa 
                  mia due amici guatemaltechi, entrambi militanti della Unidad 
                  Revolucionaria Nacional Guatemalteca (Urng), il pool di organizzazioni 
                  guerrigliere che lottava da decenni per cambiare le condizioni 
                  di vita nel vicino paese. Ricordo ancora il loro piglio, tra 
                  il perplesso e l'eccitato, quando, verso mezzogiorno, una collega 
                  giornalista mi telefonò da San Cristóbal per avvisarmi 
                  che era scoppiata la rivoluzione... Era l'epoca in cui le guerriglie 
                  centroamericane battevano in ritirata e la stessa Urng, militarmente 
                  ancora solida, ma certo non vincitrice, stava cercando di concludere 
                  in maniera degna estenuanti trattative di pace che si protraevano 
                  da anni. 
                “La festa è bella che rovinata” 
		        Il momento non era favorevole. Dopo la fine vergognosa del 
                  mal chiamato “socialismo reale”, i movimenti sociali 
                  sembravano assopiti e i partiti che ancora si proclamavano di 
                  sinistra vivevano una crisi terminale. Il pensiero unico imperava 
                  nel mondo intero, mentre il capitalismo di stampo neoliberista 
                  era spacciato come il solo orizzonte possibile, il punto di 
                  approdo necessario di ogni civiltà. Negli Stati Uniti, 
                  Francis Fukuyama proclamava trionfalmente la fine della storia 
                  e, dall'altra parte dell'Atlantico, Margaret Thachter rincarava 
                  la dose: “There is no alternative” (Non c' è 
                  alternativa). 
                  In Messico, le cose non andavano meglio: il movimento 500 
                  Años de Resistencia Indígena, Negra y Popular 
                  perdeva colpi, dopo l'importante ciclo di manifestazioni continentali, 
                  contestazioni e contro-celebrazioni del quinto centenario (1992). 
                  Come è normale, non mancavano le proteste e le manifestazioni 
                  di scontento, soprattutto per via delle continue frodi elettorali, 
                  però l'opposizione era demoralizzata e disorganizzata. 
                  Sebbene non vi fosse traccia di un movimento operaio indipendente, 
                  sparuti gruppi di contadini e indigeni continuavano a resistere 
                  nelle zone rurali. Negli ambienti di sinistra, si tentava di 
                  rompere il cordone ombelicale con il modello sovietico e alcuni 
                  ex-comunisti cercavano di costruirsi una fiammante rispettabilità 
                  “neoliberista”. Uno di questi, il noto politologo 
                  Jorge Castañeda, aveva appena pubblicato un libro che 
                  decretava la scomparsa della guerriglia.2 
Seguirono momenti di scetticismo, perché le reti sociali non esistevano ancora e il primo gennaio in Messico non solo non escono i giornali, ma neppure si trasmettono notizie per radio e televisione. Nondimeno, presto si seppe che era tutto vero e che non si trattava di una rivolta spontanea, ma di una vera e propria insurrezione armata, preparata e pianificata scrupolosamente durante gli anni. 
                  Un'organizzazione militare, appunto l'Ezln, dichiarava guerra 
                  allo stato messicano e pubblicava un manifesto, la Dichiarazione 
                  della Selva Lacandona, che, basandosi sulla costituzione messicana, 
                  rivendicava il diritto del popolo a rovesciare il governo sostenendo 
                  la lotta degli indigeni contro la povertà e la disuguaglianza. 
                  Invece del marxismo-leninismo, il documento invocava principi 
                  elementari della giustizia sociale come pane, salute, educazione, 
                  casa, pace, democrazia, libertà... “Siamo il prodotto 
                  di 500 anni di lotte”, vi leggiamo tra l'altro. “Stiamo 
                  morendo di fame e di malattie curabili. (...) La nostra è 
                  una misura disperata, però giusta”.3 
                  Erano parole semplici, ma incisive che fecero presa su milioni 
                  di persone in Messico e nel mondo intero. “Non credo ai 
                  miei occhi”, scrisse Gianni Proiettis da San Cristóbal. 
                  “Sono due ragazzine con lunghe trecce nere, il profilo 
                  maya, le carabine a tracolla. Si aggiustano i fazzoletti rossi 
                  intorno al collo e mi sorridono. (...) La festa, per quanto 
                  riguarda il governo messicano, è bella che rovinata”.4 
                  Nel frattempo, i miliziani dell'Ezln avevano assaltato la caserma 
                  Rancho Nuevo, nei pressi di San Cristóbal, e liberato 
                  i detenuti (salvo i narcotrafficanti) del carcere. A Las Margaritas, 
                  fecero prigioniero il generale Absalon Castellanos, ex governatore 
                  del Chiapas, accusato aver organizzato torture, sequestri e 
                  morti di attivisti indigeni. Lo liberarono il 16 febbraio, condannandolo 
                  a vivere il resto dei suoi giorni con la vergogna di essere 
                  stato perdonato dalle persone alle quali aveva arrecato tanto 
                  male. 
                  Dopo la sorpresa iniziale, l'esercito scatenò una dura 
                  controffensiva con un massiccio spiegamento di forze e intensi 
                  bombardamenti aerei. In pochi giorni, vi furono più di 
                  400 morti (le cifre reali non le sapremo mai), in parte tra 
                  i civili e in parte a Ocosingo, dove era rimasto intrappolato 
                  un contingente dell'Ezln tra il due e il quattro di gennaio. 
                  Una delle perdite più sentite fu il sub comandante Pedro, 
                  capo di stato maggiore dell'Ezln, militante di origine urbana. 
                  Morì a Las Margaritas, vittima di una pallottola vagante. 
                Alt al massacro 
		        Presto, si venne a sapere che tra i ribelli spiccava un tale 
                  Marcos, un giovane non-indigeno, la cui immagine con pipa, passamontagna 
                  e cartuccera fece rapidamente il giro del mondo. Di statura 
                  media, sui 35-40 anni, bianco, occhi chiari, Marcos era dotato 
                  di un lungo naso, notevoli capacità comunicative e una 
                  buona dose di auto-ironia, virtù poco frequente nelle 
                  guerriglie latinoamericane. Divenne rapidamente l'idolo dei 
                  giornalisti che si litigavano l'onore di intervistarlo. Ricordo 
                  che un giorno alla domanda: “Voi appartenete alla teologia 
                  della liberazione?”, lui rispose più o meno così: 
                  “No. Noi ci liberiamo senza teologia.” 
                  La stampa reagì in maniera disordinata. Alcuni intellettuali 
                  (fra i quali spiccano Antonio García de León, 
                  Carlos Montemayor, Pablo González Casanova, Rodolfo Stavenhagen 
                  e alcuni altri) si pronunciarono rapidamente a favore dell'apertura 
                  di trattative di pace. Però vi furono anche opinioni 
                  niente affatto indulgenti. Il 2 gennaio, La Jornada - 
                  che poi sarebbe diventato uno dei principali canali di comunicazione 
                  dell'Ezln - pubblicò un articolo di fondo molto duro, 
                  intitolato “No ai violenti”. 
                  Sullo stesso quotidiano, il poeta Octavio Paz scrisse: “È 
                  una ribellione irreale, condannata al fallimento. Non corrisponde 
                  alla situazione del nostro paese, né alle sue necessità 
                  e aspirazioni attuali”.5 
                  Molti si rifiutavano di credere che una guerriglia di quelle 
                  dimensioni potesse insediarsi in Messico. “Sembrava – 
                  scrisse in seguito lo storico Enrique Krauze – che fosse 
                  caduto su di noi un meteorite, non dallo spazio siderale bensì 
                  dal passato”.6 Gli insorti non erano reliquie della storia, 
                  bensì uomini e donne in carne ed ossa, il prodotto assolutamente 
                  “contemporaneo” dei disastri causati dal capitalismo. 
Al tempo stesso, la gente comune, quella che alcuni chiamavano “società civile”, cominciò ad organizzarsi per frenare la guerra. A partire dal 10 gennaio, centinaia di migliaia di persone manifestarono a Città del Messico e altrove. Fu una reazione spontanea, di massa, ed è uno dei ricordi più belli che conservo di quei giorni agitati.  
                  In tali circostanze, il 12 gennaio il governo Salinas dovette 
                  cedere alla pressione popolare decretando il cessate il fuoco 
                  unilaterale. Il 15, le parti accettarono la mediazione di Samuel 
                  Ruiz, il vescovo di San Cristóbal, che gli indigeni chiamavano 
                  Tatic (“padre” in tzotzil), e che godeva della loro 
                  fiducia, ma non di quella del governo che, a torto, lo considerava 
                  il vero istigatore della ribellione. 
                Bilancio provvisorio 
		        Visitai le zone del conflitto tra il 20 e il 27 gennaio come 
                  traduttore (inglese-spagnolo) al seguito di una delegazione 
                  indigena internazionale, promossa da Rigoberta Menchú, 
                  premio Nobel della pace 1992.7 In un piccolo autobus, affittato 
                  per l'occasione ed equipaggiato con grandi cartelli di pace, 
                  la nostra carovana percorse centinaia di chilometri nelle regioni 
                  del conflitto conoscendo villaggi e campi di rifugiati. Entrammo 
                  anche in un carcere dove erano detenuti dei presunti prigionieri 
                  zapatisti, la gran maggioranza dei quali si proclamava innocente. 
                  In molti luoghi, ricevemmo la denuncia di casi di tortura, sequestro, 
                  assassinio e minacce a organizzazioni di difesa dei diritti 
                  umani. 
                  Sebbene fosse già in vigore la tregua, i segni della 
                  guerra erano un po' ovunque. Il palazzo del comune di San Cristóbal 
                  era ancora occupato dall'esercito che, con mezzi blindati, impediva 
                  l'accesso alla piazza principale. Non c'erano turisti e, ovunque, 
                  si notava la presenza di una gran quantità di militari. 
                  Per le strade, i posti di blocco facevano pensare alla Bosnia, 
                  più che al Messico che conoscevo e amavo. I pochi veicoli 
                  non governativi che circolavano erano di giornalisti che portavano 
                  bandiere bianche e scritte “prensa”. Moltissimi 
                  i blocchi stradali con soldati in assetto di guerra, carri armati 
                  e mitragliatrici puntate contro i passanti. Noi ci chiedevamo: 
                  se in Messico succedono queste cose, come andrà a finire 
                  nel resto del mondo? 
                  Sono passati venticinque anni. Non direi che il Messico sia 
                  cambiato in meglio: in America Latina, il Messico continua ad 
                  essere il paese con la maggiore concentrazione della ricchezza 
                  e il saccheggio dei popoli indigeni non si è arrestato. 
                  Sono sicuro tuttavia che se non ci fossero stati gli zapatisti 
                  il Messico sarebbe un paese molto peggiore. Essi – e prima 
                  di loro i movimenti guatemaltechi e sudamericani – hanno 
                  il merito non solo di aver denunciato le inaccettabili condizioni 
                  di povertà in cui versano i popoli originari, ma anche 
                  la ricchezza delle loro culture, cosmovisioni e concezioni del 
                  rapporto tra l'essere umano e la terra. Benché il razzismo 
                  non sia stato debellato, essere indigeni oggi è meglio 
                  di essere indigeni allora. Come ha scritto Hermann Bellinghausen, 
                  non c'è un solo popolo indigeno del Messico che non sia 
                  in debito con gli zapatisti.8 
                  Grazie al ciclo storico che comincia il primo gennaio del ‘94, 
                  oggi non è possibile pensare esclusivamente ai diritti 
                  dell'individuo: bisogna ammettere che gli esseri umani vivono 
                  in collettività e che queste posseggono specifiche caratteristiche 
                  culturali, etniche, linguistiche e religiose. Nel febbraio del 
                  1996, l'Ezln e il governo messicano firmarono gli Accordi di 
                  San Andrés, una serie di impegni volti a garantire un 
                  nuovo rapporto tra lo stato, la società ed i popoli indigeni. 
                  È vero che tali accordi non sono mai stati rispettati, 
                  però continuano ad essere un'importante piattaforma di 
                  lotta che dà coesione al movimento. Nello stesso anno, 
                  in ottobre, gli zapatisti contribuirono a fondare il Congreso 
                  Nacional Indígena (Cni), la prima organizzazione di portata 
                  nazionale, indipendente dallo stato. 
                  A partire dagli anni duemila, nel contesto della violenza paramilitare 
                  scatenata dallo stato messicano contro i movimenti indigeni 
                  (si ricordino, tra gli altri, i massacri di Acteal e El Bosque 
                  e, fuori dal Chiapas, quelli di Aguas Blancas e El Charco, tra 
                  molti altri), l'Ezln si è ripiegato nei territori che 
                  controlla: una parte de Los Altos, regione montagnosa del Chiapas 
                  centrale, e alcune fasce della Selva Lacandona. Lontano dai 
                  riflettori della politica, ha messo in pratica un progetto di 
                  autonomia regionale, le giunte di buon governo o “caracoles” 
                  (“lumache” in spagnolo), collettività basate 
                  sul principio della rotazione delle cariche, il mutuo appoggio 
                  e la proprietà comune della terra. Ha creato scuole alternative, 
                  istituzioni culturali e un sistema sanitario efficace che abbina 
                  la medicina tradizionale a quella occidentale.9 
                  Ma vi è molto di più. Gli zapatisti hanno forgiato 
                  un discorso politico che ha rinnovato le lotte sociali a livello 
                  planetario e ha contribuito a creare il primo grande movimento 
                  sociale contro la globalizzazione neoliberista. In un'epoca 
                  caratterizzata dalla dittatura del denaro, essi hanno difeso 
                  “uno stile di vita fondato sulla solidarietà, la 
                  gratuità e la creatività che sostituisce il lavoro”.10 
                  Hanno dato vita a incontri “intergalattici” dove, 
                  a differenza, per esempio, dei vecchi partiti comunisti, non 
                  hanno mai preteso di offrire soluzioni valide ovunque e per 
                  tutti, ma hanno sollevato le questioni centrali del nostro tempo: 
                  la fine della civiltà del denaro, la riscoperta della 
                  comunità, la democrazia diretta, l'identità e 
                  la differenza, il potere.11 
                  Gli zapatisti hanno fatto questo e altro. Meritano dunque il 
                  rispetto e la solidarietà di tutti coloro che lottano 
                  per un mondo migliore. Oggi, tuttavia, essi si ritrovano soli. 
                  “Ve lo dico chiaro e tondo. Siamo soli esattamente come 
                  venticinque anni fa. (...) Ci ignorano”, afferma amaramente 
                  il sub-comandante Moisés, attuale portavoce dell'Ezln.12 
                  Come spiegarlo? Non si tratta unicamente del logoramento naturale 
                  di un movimento che resiste da un quarto di secolo senza arrendersi. 
                  Nel corso di questi anni, sono sfilate per le montagne del sud-est 
                  messicano decine di migliaia di persone provenienti da una ventina 
                  di paesi che hanno interagito con l'Ezln e le comunità 
                  in resistenza. Non sempre, tuttavia, i rapporti umani nati nei 
                  territori liberati sono cresciuti all'insegna della cooperazione 
                  e della fraternità. Vale la pena leggere in proposito 
                  il citato libro di Giuseppe Martinelli che mette in giusta luce 
                  la grandezza, ma anche i limiti dell'esperienza zapatista. 
                Struttura militare gerarchica 
		        Dice Moisés: “Se abbiamo ottenuto qualcosa, è 
                  solo grazie al nostro lavoro e se abbiamo sbagliato, è 
                  solo colpa nostra. (...) Alcuni avrebbero voluto dirci cosa 
                  fare e cosa non fare, quando parlare e quando non parlare. Li 
                  abbiamo ignorati”. Non sono soltanto parole. È 
                  molto tempo che l'attitudine degli zapatisti si è indurita 
                  e questo spiega, almeno in parte, perché un buon numero 
                  di persone e organizzazioni hanno deciso di prenderne le distanze. 
                  Varrebbe la pena di chiedersi, ad esempio, che fine hanno fatto 
                  le reti di solidarietà europee.13 All'inizio del ’98, 
                  poco dopo il massacro di Acteal, fummo in grado di organizzare 
                  a Roma una manifestazione di protesta alla quale parteciparono 
                  circa 40 mila persone. Quante ne parteciperebbero adesso, se 
                  dovesse succedere nuovamente qualcosa di simile? È vero 
                  che l'Ezln, come tutti gli eserciti, ha una struttura militare 
                  gerarchica e autoritaria. È forse per questo che i suoi 
                  dirigenti preferiscono circondarsi di fedelissimi, piuttosto 
                  che accettare la critica fraterna di persone solidali ma anche 
                  pensanti. Una cosa è certa: nel corso di questi anni, 
                  coloro che si sono azzardati a esprimere dubbi sulle numerose 
                  svolte politiche, spesso discutibili, del comando zapatista, 
                  sono stati cacciati, quasi sempre accusati di colpe stravaganti. 
                  Chiarisco che non alludo affatto ai partiti di sinistra o di 
                  destra con i quali l'Ezln è stato fin troppo indulgente, 
                  visto che nel 1994, favorì il voto per Cuauhtémoc 
                  Cárdenas del Partido de la Revolución Democrática 
                  (Prd) e nel 2000, concesse il beneficio del dubbio a Vicente 
                  Fox del Partido Acción Nacional (Pan). Mi riferisco invece 
                  ai collettivi autonomi e ai molti compagni che sono stati esclusi 
                  senza ragioni chiare. Si è perso in tal modo l'entusiasmo 
                  iniziale e sono rimasti principalmente “compagni di strada”, 
                  certamente generosi, ma non sempre efficaci e frequentemente 
                  settari. Il risultato è che a poco a poco gli zapatisti 
                  hanno perso la capacità di comunicazione che aveva fatto 
                  la loro fortuna al principio. 
                  È lecito chiedersi, in tale situazione, cosa faranno 
                  gli zapatisti. Nonostante gli errori, il loro legato continua 
                  ad essere positivo. La lotta per la difesa della cultura e dei 
                  diritti degli indigeni è più valida che mai. 
                  L'Ezln può esigere il compimento degli accordi di San 
                  Andrés, riprendere le trattative con il governo, strappare 
                  nuove concessioni e convertirsi, per questa via, in una cassa 
                  di risonanza dei movimenti indigeni che si oppongono ai mega-progetti. 
                  Infine, non possiamo dimenticare che gli zapatisti sono, insieme 
                  ai maestri, il principale bastione dell'opposizione organizzata 
                  in Messico ed uno dei riferimenti mondiali dei movimenti anticapitalisti. 
                  Il loro futuro importa a tutti coloro che hanno a cuore la causa 
                  umana. 
                Claudio Albertani 
                
                  - Victor Serge, “Lettres à Antoine Borie (1946-47)”, 
                    Témoins. Cahiers indépendants, sul sito 
                    www.la-presse-anarchiste.net. 
                  
 - Jorge Castañeda, La utopía desarmada. Intrigas, dilemas y promesas de la izquierda en América Latina, 1993, Messico, Joaquín Mortiz/Planeta.
                  
 - “Dichiarazione della Selva Lacandona” in Piero Coppo/Lelia Pisani 
                    (a cura di), Armi Indiane. Rivoluzione e profezie maya 
                    nel Chiapas messicano, Edizioni Colibrì, Milano, 
                    1994, pp. 125-132. Pubblicato nel febbraio del ’94, 
                    però circolato poco, questo è il primo libro 
                    sulla ribellione zapatista uscito in Italia. 
                  
 - Gianni Proiettis, “I miserabili maya non pazientano più. Battaglia con l'esercito lungo la rotta del turismo d'oro”, L'Unità, 3 gennaio 1994. Il governo messicano non ha mai perdonato a Proiettis il peccato di essere stato il principale cronista italiano della ribellione zapatista e lo ha espulso dal Messico il 15 aprile 2011.
 - La Jornada, 7 gennaio 1994.
 - Enrique Krauze, Redentores. Ideas y poder en América Latina, Editorial Debate, Messico, 2011, p. 461.
 - Claudio Albertani, “La guerra delle formiche”, in Coppo/Pisani, op. cit., pp. 99-110.
 - Hermann Belinghausen, “Las victorias del Ezln”, La Jornada, 31 diciembre 2018.
 - Giuseppe Martinelli, Sempre straniero, le avventure di un medico napoletano nella Selva Lacandona, BFS, Pisa 2018.
 - Raoul Vaneigem, “Zapatistas por la vida”, La Jornada, 20 gennaio 2019.
 - Alessandro Simoncini (a cura di), Percorsi di liberazione. Dalla Selva Lacandona all'Europa. Itinerari, documenti, testimonianze del Secondo Incontro Intercontinentale per l'umanità e contro il neoliberismo di Madrid, Edizioni della battaglia, Palermo, 1997.
 - Parole del Subcomandante Insurgente Moisés, 31 dicembre 2018, sul sito enlacezapatista.ezln.org.mx.
                  
 - Guiomar Rovira, Zapatistas sin fronteras. Las redes de solidaridad con 
                    Chiapas y el altermundismo, México, 2009, ERA e 
                    Claudio Albertani, «Pain it black, Blocchi Neri, Tute 
                    Bianche e Zapatisti nel movimento antiglobalizazione», 
                    varie edizioni, disponibile sul sito www.ecn.org. 
                
                   
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