Zona letteraria/ 
				Poco pane, qualche rosa 
                È uscito il primo numero di Zona Letteraria – Studi e prove di letteratura sociale, nuova rivista diretta dal nostro collaboratore e caro amico Giuseppe Ciarallo. Gli abbiamo dato tremila battute per presentarla. 
                  
                 
                 Se 
                  è vero, come ebbe a dire un grigio ministro dell'economia 
                  (capitalistica), che “con la cultura non si mangia”, 
                  è altrettanto innegabile che per sua natura l'essere 
                  umano necessita, per sopravvivere, delle rose oltre che del 
                  pane. Ed è in ossequio a questo incontrovertibile principio 
                  che un già rodato collettivo redazionale e una giovane 
                  casa editrice battagliera hanno unito le loro forze per creare 
                  una rivista come “Zona Letteraria – Studi e prove 
                  di letteratura sociale”. 
                  Questo semestrale si è posto l'obiettivo di diventare 
                  – nell'ambito di una sinistra sfilacciata – strumento 
                  capace di stimolare una riflessione sui grandi temi sociali, 
                  culturali e politici, partendo dallo specifico letterario e 
                  individuando di volta in volta particolari tematiche da analizzare. 
                  Nel numero d'esordio abbiamo deciso di trattare lo spinoso argomento 
                  della vergognosa e inumana guerra che i governi dell'opulento 
                  occidente, e non solo, hanno dichiarato ai poveri anziché 
                  alla povertà. Una guerra all'insegna del “take 
                  no prisoners”, nella quale gli ultimi sono le vittime 
                  sacrificali predestinate, su cui riversare odio e indifferenza, 
                  nonché fastidio. Ma soprattutto ci siamo chiesti quale 
                  sia stato il big bang che ha fatto sì che intere 
                  società diventassero fredde, insensibili ed egoiste, 
                  quale sia stato il percorso che ha portato generazioni di migranti 
                  a dimenticare il proprio passato, il dovere dell'accoglienza, 
                  la solidarietà verso il debole e il bisognoso, la ricchezza 
                  del dono, scivolando rovinosamente nell'abisso dell'aridità 
                  relazionale. 
                  In un tentativo di risposta a tali domande, all'interno di questo 
                  “numero uno” si parla della grande crisi del '29 
                  in Furore di Steinbeck, delle “villas miserias” 
                  argentine, dei messicani poveri e del loro tentativo di varcare 
                  il confine con gli Stati Uniti, del cinema di Ken Loach, sempre 
                  molto attento alle sorti del proletariato inglese, di criminalizzazione 
                  dei Rom, del pauperismo in Valdo e in San Francesco, di Goffredo 
                  Parise e di decrescita felice, della tecnologia applicata alla 
                  repressione della povertà a Singapore, di Woody Guthrie 
                  e di musica popolare e di protesta negli USA, di come la pittura 
                  ha nel tempo raffigurato gli ultimi, di Arte e povertà, 
                  e poi ancora di Italo Calvino, di Beppe Fenoglio e dei suoi 
                  contadini, della Cina dello scrittore Yu Hua, di Valerio Evangelisti, 
                  di Anthony Cartwright e del suo romanzo sulla Brexit, di John 
                  Berger e del suo Il settimo uomo, e ancora, di Lucio 
                  Dalla, di Gianmaria Testa, di Loriano Macchiavelli, di Maurizio 
                  Bovarini e persino di Superciuk, l'antieroe dei fumetti, che 
                  rubava ai poveri per donare ai ricchi. Senza dimenticare, nella 
                  rubrica Riflessioni, il rapporto tra “fame” e “potere” 
                  narrato in chiave psicanalitica. 
                  Queste, in sintesi, le nostre rose. 
                   
                  https://www.prosperoeditore.com/libri/Abbonamento-Redazione-Zona-Letteraria 
Giuseppe Ciarallo 
                 
                     
                Un secolo fa in Argentina/ 
				Storie d'amore e d'anarchia 				
				“Eroe o criminale? Rivoluzionario o assassino? L'uno 
                  e l'altro certo. Eppure non riesco davvero ad andare a fondo 
                  [...] Le vite delle persone non si costruiscono con i se. I 
                  se, piuttosto, servono a noi. Se solo Severino non avesse sostituito 
                  le parole col tritolo, l'ansia di giustizia con una rabbia feroce, 
                  l'attesa di una nuova alba di umanità con la voglia di 
                  far sprofondare tutto nella notte della vendetta... se solo... 
                  se solo... Ragionamento che lascia il tempo che trova...”. 
                   Sono 
                  stralci significativi delle riflessioni che Tito Barbini, alla 
                  fine del libro Severino e América. Storia d'amore 
                  e d'anarchia nella Buenos Aires del primo Novecento (Mauro 
                  Pagliai Editore, Firenze 2018, pp. 172, € 15,00) dedica 
                  al protagonista principale di una storia maledetta e fascinosa. 
                  La bibliografia su Severino Di Giovanni (1901-1931), anarchico 
                  e “idealista della violenza”, si è ormai 
                  fatta consistente ed ha costruito e alimentato, nel tempo, il 
                  mito di un vero personaggio da fiction. L'opera di Osvaldo Bayer, 
                  prima di tutte, ha reso viva questa storia d'emigrazione, che 
                  è stata insieme saga familiare e paradigma di una lotta 
                  politica estrema. 
                  Teatro dei fatti la turbolenta Argentina di un secolo fa, dove 
                  erano in atto mobilitazioni popolari di protesta pro Sacco e 
                  Vanzetti e dove l'antifascismo in esilio, mordendo il freno, 
                  meditava il riscatto per l'Italia. L'impatto sociale dello scontro 
                  di massa ingaggiato con la classe dirigente del paese sudamericano 
                  fu forte, sorretto da una vivace potente presenza delle organizzazioni 
                  libertarie e anarchiche, che all'epoca editavano una gran mole 
                  di stampa, insieme ad un importante giornale quotidiano. Il 
                  passaggio cruciale da un regime democratico alla dittatura militare, 
                  nel 1930, rese, se possibile, ancora più tragici e sanguinosi 
                  gli esiti di una guerriglia sociale ormai divenuta aperta e 
                  senza quartiere. Tutto questo mentre il “film” calava, 
                  con mestizia, il sipario sulla fucilazione del protagonista... 
                  Sulla opportunità del ricorso alla violenza politica 
                  e alle azioni terroristiche il contrasto nel movimento fu aspro, 
                  la discussione molto articolata. Per Errico Malatesta: “Noi 
                  dobbiamo ricordarci che la violenza, necessaria purtroppo per 
                  resistere alla violenza, non serve per edificare niente di buono: 
                  che essa è la nemica naturale della libertà, la 
                  genitrice della tirannia e che perciò deve essere contenuta 
                  nei limiti della più stretta necessità.” 
                  («Umanità Nova», 14 ottobre 1922). 
                  Barbini, prolifico scrittore di viaggi, ha interpretato quel 
                  dramma epocale vissuto dal popolo argentino cogliendo il fil 
                  rouge di un “romanzo di sentimenti”, guardando 
                  cioè “in un'altra direzione”, raccontando 
                  la storia travolgente e totale di due amanti – Severino 
                  e América –, con un libro che, prima di tutto, 
                  si interroga sull'amore e sui suoi misteriosi intrecci con la 
                  passione politica. La trama si dipana in momenti intensi, poetici 
                  e struggenti: “come un tango”, dice l'autore. Lavori 
                  come questo ci ricordano che qualcosa sta davvero cambiando 
                  (in meglio) nei modi di raccontare la storia e le storie; e 
                  che ciò si deve alla sempre maggiore integrazione dei 
                  registri narrativi fra ricercatori e scrittori. Le emozioni, 
                  il racconto in soggettiva, l'utilizzo scientifico di fonti di 
                  repertorio per la ricostruzione del “verosimile”, 
                  il sopralluogo come metodo, ecc. sono solo alcuni degli strumenti 
                  possibili atti a rinnovare l'intero impianto metodologico della 
                  storiografia, a dare davvero visuali “altre” sul 
                  Novecento. Se dovessimo, come si usa fare, rendere riconoscibile 
                  alle ricerche bibliografiche questo libro e quindi assegnargli 
                  tag o keyword che dir si voglia, a quelle, forse 
                  un po' scontate, di Amore e Anarchia se ne potrebbe aggiungere 
                  un'altra: Geografia. 
                  “Non fosse per il sorriso di América. Per la sua 
                  vita dopo. Mi sono più volte chiesto se questa storia 
                  c'entri con il fatto che scrivo di viaggi. Certo che sì. 
                  La geografia conta in questa storia. Anche se piuttosto parlerei 
                  di geografia della mente. Di geografia della libertà. 
                  Come quel geografo anarchico, Eliseo Reclus, per stampare le 
                  cui opere Severino svaligiava le banche...” (p. 146). 
                  In un'epoca in cui la dimensione politica sembra ormai sostituita 
                  dalla governance e la geografia rimpiazzata dalle connessioni, 
                  si potrà ben capire l'importanza di riconoscere i topoi, 
                  ossia i “luoghi” dove materialmente si sono svolti 
                  i fatti che si vogliono rievocare, alla ricerca delle anime 
                  perdute che da lì sono passate, per respirare quella 
                  stessa aria e provare a incrociare quegli stessi pensieri.  
                  L'autore, pur non avvezzo a scrivere di cose anarchiche, si 
                  è comunque avvicinato all'argomento in punta di piedi, 
                  con il dovuto rispetto. Lo stereotipo dell'anarchico tutto bombe 
                  e disorganizzazione, storicamente inconsistente, non ha così 
                  preso le forme consuete della narrazione mainstream. Il movimento 
                  anarchico, sebbene attraversato dalle correnti cosiddette violentiste/illegaliste 
                  e perfino dal banditismo sociale, mantiene un posto d'onore 
                  nella storia del movimento operaio e, più in generale, 
                  in quella nella lotta ad ogni tirannia. Come movimento antitotalitario 
                  che ha subito la “doppia” tragica sconfitta nella 
                  Spagna del 1936-'37, gli anarchici, passati dal protagonismo 
                  alla testimonianza, hanno poi continuato, nonostante tutto, 
                  a rappresentare una speranza di riscatto umano e sociale – 
                  proprio per le loro “esagerate idee di libertà” 
                  – ed un punto di riferimento essenziale nel corpus teorico 
                  del pensiero radicale contemporaneo. 
                  Per la curiosità dei lettori: l'autore di Severino 
                  e América ha calcato a lungo il proscenio della politica 
                  locale e non solo: sindaco di Cortona, presidente della provincia 
                  di Arezzo, assessore nella Regione Toscana, membro del Comitato 
                  centrale del PCI, è stato amico personale di Mitterrand. 
                  Nel 2016 pubblicava un altro bel libro intitolato Quell'idea 
                  che ci era sembrata così bella (Aska), “viaggio 
                  a ritroso, dietro ai fallimenti e alle delusioni della grande 
                  utopia comunista”. 
Giorgio Sacchetti 
                 
                      
                Sicilia/ 
				Quel carcere a chiocciola ad Alcàra Li Fusi 				
				 Roberto 
                  Fregna, in un suo recente e prezioso volumetto, ispirato all'opera 
                  e al lavoro artistico di Vincenzo Consolo, parla della lingua 
                  letteraria dello scrittore siciliano “che rompe il codice 
                  linguistico comune per rappresentare la società che include 
                  le periferie lontane di emigrazione storica, di emarginazione 
                  e di povertà, dove vi sono donne e uomini senza terra, 
                  piegati da fatiche immani, zappatori a dissodare campi pietrosi 
                  o cavatori in miniere di zolfo o di pomice destinati a morire 
                  del morbo di San Biagio”. Poi, con un procedere 
                  per immagini divaganti e a spirali, Fregna fa cenno ad un racconto 
                  di Consolo sull'incontro tra Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano 
                  (uno dei più grandi poeti siciliani del 600), in un 
                  carcere di Algeri, proseguendo con l'annotare informazioni su 
                  un altro carcere, quello di Sant'Agata di Militello, il paese 
                  natio di Consolo, costruito a mo' di chiocciola nei primi decenni 
                  del 600. 
                  Ragionando sulla chiocciola – e sulla sua forma difficile 
                  da rappresentare geometricamente, quindi sulla geometria che 
                  è scienza stratta e rimanda a spazi e punti che sono 
                  rappresentati in un non luogo, quindi in un'utopica realtà 
                  – Fregna richiama la Città del Sole di Tommaso 
                  Campanella, che era di Stilo, paese della punta estrema della 
                  Calabria, non lontano da Sant'Agata di Militello, cittadina 
                  prossima allo stretto di Messina e dove Campanella con i suoi 
                  discorsi aveva ispirato la “Rivolta delle Calabrie” 
                  del 1599, muovendo i poveri contro i potenti, in un assalto 
                  che risultò fallimentare ma che voleva abbattere la loro 
                  “tirannide”, i loro “sofismi” e le loro 
                  “ipocrisie”. 
                  Lo stesso assalto al potere che animò i contadini siciliani 
                  nel 1860, raccontato nel romanzo di Consolo Il sorriso dell'ignoto 
                  marinaio, dal quale Fregna riprende il tema della delusione 
                  popolare e contadina seguita alla spedizione garibaldina in 
                  Sicilia, che tante attese aveva suscitato e tanti fuochi rivoluzionari 
                  aveva acceso, tutti spenti dalla repressione delle forze dell'ordine 
                  e dell'apparato giudiziario del nuovo Regno dell'Italia unita. 
                  Così, ne L'utopia della rivolta di Alcàra Li 
                  Fusi. Raccontata da Michele Fano Sanfratellano che da monaco 
                  si fece zappatore (Ogni uomo è tutti gli uomini Edizioni, 
                  Bologna 2018, pp. 42, € 9,50), Fregna riporta le scritte 
                  sulle mura delle celle degli insorti alcaresi nel carcere della 
                  vicina Sant'agata di Militello, e ridà voce alla rabbia 
                  e alle ragioni dei contadini siciliani, ben palesate nelle aspre 
                  e accese parole di Michele Fano di San Fratello, paese d'antica 
                  storia e di millenarie e arcaiche tradizioni, immerso nei boschi 
                  e nelle montagne dei Nebrodi, non lontano da Alcàra Li 
                  Fusi e da Sant'Agata di Militello. E riporta, Fregna, tra le 
                  altre, la scritta ultima e disperata di Fano, questa, nella 
                  traduzione dal siciliano di Consolo: “Questa è 
                  la storia vera/di Alcàra/maggio e giugno dell'anno sessanta/raccontata 
                  dalla gente che la fece/scritta con il carbone sopra la pietra/da 
                  Michele Fano Sanfratellano/che da monaco si fece zappatore/se 
                  entri dentro questo pozzo torto/sappi come accadde e restatene 
                  zitto/dì uscendo che la prossima volta/il popolo incazzato 
                  di Alcàra/di Bronte Tusa oppure Caronia/non lascia sopra 
                  la faccia di questa terra/neppure la semenza di sorci e notabili/cantò 
                  la civetta e il gufo e il corvo/uniti tutti e tre un giorno 
                  cantarono/...lupare e coltello/morte a tutti i ricchi/il povero 
                  esclama/al fondo di tanto abisso/terra pane/l'origine è 
                  là/fame senza fine/di/libertà”. 
Silvestro Livolsi 
                 
                      
                I GAAP, 2° volume/ 
				Storia di un'eresia anarchica 				
				Introducendo i lavori della VII Conferenza nazionale, convocata 
                  a Genova per il 28 aprile 1956, della Federazione Comunista 
                  Libertaria, nuova denominazione assunta dai Gruppi Anarchici 
                  di Azione Proletaria (GAAP), il relatore, consapevole che quella 
                  sarebbe stata l'ultima assise del gruppo che aveva deciso di 
                  sciogliersi e confluire nel nascente Movimento della Sinistra 
                  Comunista, riassunse succintamente le tappe del loro percorso 
                  politico e organizzativo. L'organizzazione era sorta con l'intenzione 
                  di rinnovare il movimento anarchico in Italia, di portare un 
                  contributo alla rinascita di un movimento operaio rivoluzionario. 
                   Inizialmente 
                  questo nucleo di compagni aveva lavorato all'interno dell'organizzazione 
                  anarchica esistente, la Federazione Anarchica Italiana, ricostituitasi 
                  nell'immediato dopoguerra. Ben presto però, resisi conto 
                  della confusione politica e ideologica esistente nella Federazione 
                  anarchica, s'indirizzarono verso la definizione e l'organizzazione 
                  un gruppo autonomo, con una propria fisionomia, in polemica 
                  ma sempre all'interno della Federazione; iniziarono a pubblicare 
                  il giornale L'Impulso, per poi procedere alla costituzione 
                  dei Gruppi Anarchici d'Azione Proletaria nel 1951. Ancora era 
                  presente il tentativo di rinnovare e potenziare il movimento 
                  anarchico italiano, di cui si sentivano parte. Fallito questo 
                  proposito, negli anni seguenti aprirono il confronto con altri 
                  gruppi politici minoritari di osservanza bordighista e trotskista, 
                  forti del fatto che alcuni obiettivi erano stati conseguiti: 
                  nel lavoro di critica, connesso alla polemica con gli anarchici, 
                  si era rafforzata l'analisi teorica e storica; nel lavoro politico 
                  e organizzativo si era formato un nucleo di militanti qualificati; 
                  avevano impiantato un'organizzazione con un suo giornale, con 
                  rapporti all'esterno e una vita democratica all'interno. 
                  Era, secondo loro, il coronamento positivo della riscoperta 
                  dell'organizzazione libertaria in polemica col “vecchio” 
                  individualismo anarchico, fatta attraverso una rilettura di 
                  Malatesta, Fabbri, Berneri e poi Gramsci e, sul piano internazionale, 
                  della CNT, della FAI della guerra civile spagnola e Rosa Luxemburg. 
                  Tutto sembrava conciliarsi: l'orientamento rivoluzionario, l'antifascismo 
                  e la lotta partigiana, la battaglia antistalinista, la rifondazione 
                  di un comunismo libertario e consiliarista, a partire dal riconoscimento 
                  del fallimento delle esperienze socialdemocratiche, bolsceviche 
                  e anarchiche passate, per formare un movimento di classe nuovo 
                  e un'organizzazione che non fosse la riproposizione del partito 
                  tradizionale della classe operaia, ma qualcosa di superiore, 
                  di “inedito”. 
                  Una parte di questo “pezzo” di storia dei GAAP è 
                  stato oggetto di estrema attenzione e narrazione nel primo volume 
                  uscito l'anno scorso a cura di Franco Bertolucci (Gruppi 
                  anarchici d'azione proletaria. Le idee, i militanti, vol. 1, 
                  Dal Fronte popolare alla «legge truffa»: la crisi 
                  politica e organizzativa dell'anarchismo, Bfs-Pantarei, 
                  2017). Lavoro che è proseguito con questo secondo volume, 
                  sempre curato da Franco Bertolucci (Gruppi anarchici d'azione 
                  proletaria. Le idee, i militanti, l'organizzazione. Vol. 2 Dalla 
                  rivolta di Berlino all'insurrezione di Budapest: dall'organizzazione 
                  libertaria al partito di classe, a cura di Franco Bertolucci, 
                  Bfs-Pantarei, Pisa-Milano 2018, pp. 784. € 40,00). Entrambi 
                  i volumi, e il terzo promesso che seguirà, sono il frutto 
                  di un impegno preso dal curatore nel 1998 con uno dei principali 
                  protagonisti di quest'esperienza, Pier Carlo Masini (1923 -1998), 
                  quando donò alla Biblioteca Serantini l'archivio politico 
                  dei GAAP e le sue carte personali. Pier Carlo Masini espresse 
                  l'intenzione che dieci anni dopo la sua scomparsa quei materiali 
                  fossero riordinati e resi disponibili per le attività 
                  di studio e di ricostruzione storica. 
                  Impegno ampiamente rispettato, grazie a quasi vent'anni di lavoro. 
                  Difatti i due volumi contengono in appendice una voluminosa 
                  documentazione di materiali di vario genere oggi facilmente 
                  consultabili. In questo secondo volume la documentazione spazia 
                  dalle conferenze nazionali dei GAAP e dell'Internazionale comunista 
                  libertaria, alle circolari di orientamento politico e organizzative 
                  stilate dal comitato nazionale, a saggi storici e teorici e 
                  articoli tratti dal giornale L'Impulso. 
                  Staccatisi dall'area anarchica tradizionale, i GAAP si diedero 
                  per scopo politico quello di inserirsi nel perimetro del dissenso 
                  a sinistra dei partiti parlamentari, ritenevano di poter incidere 
                  nello scontro politico e ideologico al fine di costruire qualcosa 
                  di nuovo che non fosse l'ennesimo piccolo gruppo settario tutto 
                  proiettato su se stesso. Prioritario diventava lavorare per 
                  una nuova organizzazione politica in grado di sconfiggere l'egemonia 
                  del partito comunista, spezzare la sua alleanza col partito 
                  socialista al quale riconoscevano l'originalità di un 
                  percorso indipendente, diverso da quello delle socialdemocrazie 
                  europee. In questo senso, seppure in una dimensione forse più 
                  piccola di quella prevista e/o voluta, qualcosa si mosse a partire 
                  dal 1955, quando una forma di dissenso si palesò dentro 
                  il partito di Togliatti con la corrente che si denominò 
                  Azione comunista. Nella lunga introduzione alle carte, il curatore 
                  ricostruisce con dovizia e pazienza il contesto storico e sociale 
                  di quel periodo, all'interno del quale inserisce le analisi 
                  e le scelte operate dai comunisti libertari. Restituisce così 
                  al lettore il clima di quegli anni, la vivacità del dibattito 
                  politico alla sinistra dei partiti istituzionali del movimento 
                  operaio, portando alla luce esperienze di lotta e correnti politiche 
                  trascurate o cancellate da certa storiografia, tutta tesa a 
                  fare la storia dei partiti maggiori, in particolare di quello 
                  comunista. 
                  Quando gli esponenti di Azione comunista decisero di uscire 
                  allo scoperto pubblicando il periodico omonimo, furono espulsi 
                  dal partito. Questo accadeva nel giugno 1956, in concomitanza 
                  con la diffusione del rapporto segreto di Krusciov nel mondo 
                  occidentale. Pochi mesi dopo vennero i fatti di Polonia e la 
                  rivoluzione ungherese, duramente repressa dall'intervento delle 
                  truppe sovietiche. Fu in quel contesto che, - anche per impulso 
                  dei dirigenti della Federazione Comunista Libertaria, nuovo 
                  nome assunto dai GAAP - si presero o ripresero contatti con 
                  forze politiche del dissenso a sinistra, come dimostra nel libro 
                  il continuo riferimento allo scambio di lettere tra esponenti 
                  di Azione comunista, dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari, la 
                  sezione italiana della Quarta Internazionale e il Partito Comunista 
                  Internazionalista (Battaglia comunista). 
                  Sull'onda della crisi di una parte della sinistra tradizionale, 
                  indotta dagli eventi, queste quattro organizzazioni decisero 
                  di costituire un organismo di confronto: il Movimento della 
                  Sinistra Comunista. Si trattò di un accordo abbastanza 
                  generico, né poteva essere diversamente data la persistenza 
                  di analisi e impostazioni di lavoro politico e sindacale non 
                  omogenee, che si sperava però di superare attraverso 
                  un confronto prolungato nel tempo. Non fu così semplice. 
                  Quelli della Quarta Internazionale sollevarono la questione 
                  della natura sociale dell'Urss, stato operaio degenerato, mentre 
                  per gli altri era un paese capitalista e imperialista quanto 
                  gli Stati Uniti; poi del sindacato: aderire alla Cgil? Votare 
                  nelle elezioni per le Commissioni Interne per i loro esponenti 
                  di categoria? Partecipare o meno alle elezioni politiche e amministrative? 
                  E che indicazione di voto dare? Su quest'ultimo punto, già 
                  per le elezioni del marzo 1956, i comunisti libertari avevano 
                  per così dire rotto un tabù. 
                  La parola d'ordine “non votate”, scrissero in un 
                  documento, salvo il caso di un boicottaggio generale delle elezioni, 
                  è “settaria ed utopistica: settaria perché 
                  estrania l'organizzazione rivoluzionaria dalla vita politica 
                  delle masse in una fase in cui queste entrano in movimento; 
                  utopistica perché non realizza il benché minimo 
                  risultato positivo, confonde le poche astensioni coscienti nella 
                  massa delle astensioni incoscienti, preclude ogni possibilità 
                  di lavoro ulteriore di persuasione e di penetrazione”. 
                  La conclusione era che l'organizzazione si proponeva di dare 
                  “una caratterizzazione rivoluzionaria” al voto dei 
                  lavoratori, il quale esprimeva il loro malcontento, la loro 
                  opposizione radicale alla presente società, “sia 
                  pure espresso con una scheda”. Insomma, era ora di uscire 
                  dallo “sterile” astensionismo anarchico e, alla 
                  fine, l'indicazione tattica data ai propri militanti era di 
                  votare i “candidati operai”. 
                  Nel 1957, a fronte del persistere di evidenti divergenze non 
                  appianate, tra “trotskisti” e “bordighisti”, 
                  i comunisti libertari proposero una fusione in breve tempo che 
                  voleva dire sciogliere tutte e quattro le organizzazioni e promuoverne 
                  una nuova. La proposta trovò il consenso della sola Azione 
                  comunista, mentre “bordighisti” e “trotskisti” 
                  uscirono dal movimento. Con la nascita dell'organizzazione della 
                  Sinistra Comunista, si concludeva la storia dei GAAP-FCL. Ma 
                  la stessa nascita del nuovo e “inedito partito” 
                  portava in sé i nodi di contraddizioni che esplosero 
                  l'anno seguente dividendo i percorsi tra una parte degli ex 
                  militanti comunisti libertari e gli altri che rimarranno all'interno 
                  della neonata organizzazione. 
Diego Giachetti  
                 
                      
                Donne in carcere/ 
				Un mondo sospeso 
		Chi evita l'errore elude la vita. 
		C.G. Jung 
				
				Un paio di mesi fa è uscito, per quelli dell'editrice 
                  Ortica, un piccolo libro che raccoglie storie di donne, il cui 
                  titolo allude alla proibizione di introdurre agrumi all'interno 
                  del carcere femminile di Rebibbia dove sono recluse: I limoni 
                  non possono entrare. Storie di donne dal carcere (Alessandra 
                  Caciolo, Stefania Zanda, Aprilia – Lt 2018, pp. 216, € 
                  12,00). 
                  Tra il 2017 e il 2018, all'interno di un progetto che prevedeva 
                  incontri settimanali di gruppo per tutte quelle detenute che 
                  sentivano la necessità di raccontare e condividere la 
                  loro storia, è stato raccolto il materiale che in seguito 
                  ha preso la forma di libro. Grazie alla disponibilità 
                  di sei o sette di loro è stato possibile raccontare il 
                  carcere, con tutte le sue contraddizioni e i pregiudizi, e aprire 
                  lo sguardo su una realtà che chiamare “luogo dell'oblio” 
                  calza a pennello, un posto dove le vite rimangono sospese e 
                  dove regna l'attesa. Un luogo molto spesso dimenticato. 
                   Quello 
                  di cui si parla non è genericamente il carcere, ma il 
                  carcere femminile e quello di Rebibbia è uno dei pochi 
                  ad averne uno destinato solo alle donne. Infatti la realtà 
                  carceraria italiana è composta quasi esclusivamente da 
                  istituti maschili con sezioni femminili all'interno – 
                  spesso molto piccole – dove le donne sono lasciate lì, 
                  abbandonate a se stesse; quindi “far ascoltare” 
                  il carcere femminile significa cercare di alzare il volume mentre 
                  si parla di una differenza di genere sostanziale. Significa 
                  domandarsi cosa vorrebbe dire spostare l'attenzione sulle donne 
                  per fare della detenzione femminile il parametro dell'uguaglianza. 
                  Nel nostro paese, ma anche nel resto d'Europa la situazione 
                  pare non essere molto diversa, le donne sono poco più 
                  del 4% della popolazione detenuta, delinquono quantitativamente 
                  meno e anche “qualitativamente” sono, per così 
                  dire, inferiori ai maschi; significa che, in buona parte, si 
                  tratta di piccola criminalità proveniente da percorsi 
                  di esclusione sociale dove è frequente la recidività. 
                  Per questo le autrici del libro sottolineano come adottare un'ottica 
                  di genere, sia per leggere il reato sia per determinare la pena 
                  e la sua esecuzione, sarebbe un guadagno per tutte e per tutti. 
                  Il fatto sostanziale del libro sta proprio in questa proposta 
                  sottesa, una proposta che rivoluzionerebbe il modello di pena 
                  tuttora in uso e che potrebbe far pensare ad un carcere diverso, 
                  un carcere – si sottolinea – probabilmente pensato 
                  per la prima volta. L'autenticità delle narrazioni raccolte, 
                  con la loro capacità di coinvolgimento emotivo, non fa 
                  altro che mostrare quanto il bisogno sia impellente, come sia 
                  indispensabile guardare alle storie, e non ai numeri, se si 
                  vuole avere un'autentica comprensione della situazione carceraria. 
                  Di fatto io credo che il carcere mostri macroscopicamente ciò 
                  che accade in tutti gli altri ambiti del nostro vivere sociale, 
                  soprattutto laddove si raggruppano grossi numeri di persone 
                  in condizione di fragilità – vuoi perché 
                  troppo giovani, troppo vecchie o malate – dove la tendenza 
                  all'omologazione, al protocollo, all'appiattimento standardizzato, 
                  è la scelta forte e più facile. Poter rivolgere 
                  attenzione ad ogni individuo per la particolarità che 
                  lo contraddistingue nel genere e nell'esperienza di vita (che 
                  l'ha condotto a delinquere, ad esempio, nel caso specifico di 
                  cui stiamo parlando), presuppone lo sradicamento dell'abitudine 
                  all'indifferenza, all'individualismo esasperato, presuppone 
                  ripensare alla base tutto il nostro vivere relazionale, dalla 
                  coppia alla famiglia fino alla comunità sociale. Lavoro 
                  immenso da cui non possiamo prescindere se scegliamo di percorrere 
                  strade utili a risolvere problemi, a creare salute, benessere 
                  e magari, perché no, anche felicità. 
                  Allora questo libretto diventa un piccolo/grande spunto di riflessione. 
                  Si parte dall'ascolto, dall'empatia, dal provare a mettersi 
                  nei panni dell'altro. Si tratta di vedere umanità in 
                  chi ha sbagliato e di cercare soluzioni alternative che creino 
                  occasioni di vita. Si tratta di uscire dalla logica della violenza 
                  punitiva e dell'abuso di potere. 
                  Si legge così nelle ultime pagine: “la consapevolezza 
                  che, anche se abbiamo commesso degli errori non siamo diverse 
                  dagli altri, anzi abbiamo qualcosa che ci contraddistingue: 
                  la lotta, la sofferenza e la determinazione di andare avanti. 
                  Non si può ridurre l'esistenza di una persona alla somma 
                  degli errori commessi. Gli sbagli avvenuti per motivi diversi 
                  sono degli ostacoli sul cammino, comprenderli può permetterci 
                  di non ripetere gli stessi errori.” 
                  Penso sia un pensiero importante per tutte e tutti, dentro e 
                  fuori dai carceri. 
Silvia Papi 
                 
                      
                Futuri possibili/ 
				Cercare l'utopia (per continuare a camminare) 
				Se pure l'utopia è irraggiungibile, secondo Eduardo 
                  Galeano è per lei che ci si mette in viaggio: “Mi 
                  avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino 
                  per dieci passi e l'orizzonte si sposta dieci passi più 
                  in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò 
                  mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare.” 
                  Il contrario di utopia è distopia, ovvero il luogo “cattivo” 
                  che (ancora) non c'è ma è possibile, forse vicinissimo. 
                  Elisabetta Di Minico ha scritto con Il futuro in bilico. 
                  Il mondo contemporaneo tra controllo, utopia e distopia 
                  (Meltemi, Sesto San Giovanni 2018, pp. 422, € 28,00) un 
                  libro importante, usando la fantascienza come grimaldello per 
                  scardinare il presente e i futuri (ravvicinati) possibili. 
                   Il 
                  primo capitolo ci introduce ai temi saltellando fra i secoli 
                  per mostrarci come la coppia utopia/distopia abbia genitori 
                  illustri. 
                  Utopici? I primi nomi che vengono in mente sono Bacone e Voltaire. 
                  Passando per i seguaci di Charles Fourier e per Edward Bellamy 
                  arriviamo all'immeritatamente dimenticato L'anno 2440 
                  scritto (nel 1771) dall'illuminista Louis Sébastien Mercier. 
                  Variamente distopici Erewhon di Samuel Butler, molti 
                  passaggi de I viaggi di Gulliver, alcune opere di Verne, 
                  La macchina si ferma, Rur di Karel Capek e Metropolis 
                  (l'autrice cita solo il film dimenticando il romanzo del 1925 
                  di Thea Von Harbou da cui fu tratto) per arrivare alla fantascienza 
                  propriamente detta letteraria, cinematografica e fumettara. 
                  Chiariamo subito che quasi solo in Italia, per un antico pregiudizio, 
                  romanzi come 1984 o Il mondo nuovo non sono considerati 
                  fantascienza. 
                  Il secondo capitolo – «Distopia e controllo» 
                  – esamina in dettaglio 20 opere. E ci sono recuperi assai 
                  interessanti. Per esempio, il romanzo La notte della svastica 
                  (del 1937) scritto dall'inglese Katharine Burdekin. O Antifona 
                  (1938) della scrittrice e filosofa Ayn Rand. Oppure Kallocaina 
                  (1940) della svedese Karin Boye. Tre donne “rimosse” 
                  dunque: sarà un caso? 
                  Fra i libri citati di sfuggita – sarebbe stato impossibile 
                  analizzarli tutti – anche Qui non è possibile 
                  (1935) di Sinclair Lewis che immagina gli Usa sotto dittatura: 
                  quel titolo a me ricorda i tanti che recentemente di fronte 
                  ai primi segni di ri-fascistizzazione di Polonia, Ungheria o 
                  Turchia avevano sentenziato “indietro non si torna”... 
                  E infatti. 
                  Siamo così arrivati a metà libro. E adesso Elisabetta 
                  Di Minico ci propone i due capitoli finali (risultano più 
                  intrecciati che paralleli) ovvero «Distopia e poteri dominanti» 
                  – cioè le dittature, più o meno mascherate 
                  – e «Distopia e poteri suadenti» insomma i 
                  governi che vengono definiti democratici. Politicamente sono 
                  i due capitoli più interessanti, è ovvio. Il reale 
                  e l'immaginazione a confronto: e il risultato può spaventare 
                  anche le persone più coraggiose. Pur con tutti i distinguo 
                  storici, teorici e pratici, l'autrice giustamente annota: “la 
                  “cancrena” che divora i poteri suadenti è 
                  poco differente da quella delle peggiori dittature”. È 
                  un'osservazione che si può estendere dal caso particolare 
                  al generale. Verso la fine, Elisabetta Di Minico chiarisce: 
                  “il presente studio non vuole screditare i sistemi democratici 
                  [...] almeno non del tutto”. Ma citando Herbert Marcuse 
                  ricorda che comunque “questa società cambia tutto 
                  ciò che tocca in una fonte potenziale di progresso e 
                  di sfruttamento, di fatica memorabile e di soddisfazione, di 
                  libertà e di oppressione”. E più avanti 
                  aveva riportato una delle frasi più famose (e difficilmente 
                  contestabili) di Marcuse: “una confortevole, levigata, 
                  ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà 
                  industriale avanzata, segno del progresso tecnico”. Beninteso 
                  è «levigata» in questa parte del mondo perché 
                  altrove (nelle vecchie/nuove colonie) il capitalismo può 
                  togliersi la maschera e mostrarsi – perfino vantarsi – 
                  capace di ogni infamia. Qui è un Occidente che si finge 
                  tollerante, lì cambia una sola vocale e diventa Uccidente. 
                  Un libro che merita, dunque. Difetti? Non potendo dire tutto 
                  in 400 pagine, alcune sezioni storico-politiche sono tagliate 
                  con l'accetta e frettolose; questo forse spiega anche perché 
                  tra le fonti si citano opere più propagandistiche (Il 
                  libro nero del comunismo o Lo scontro delle civiltà 
                  di Samuel Huntingron) che ricche di documentazione. 
                  Auspicabile che, in prossimi lavori, il gruppo di ricerca HISTOPIA 
                  (bellissimo nome) del quale l'autrice fa parte recuperi anche 
                  testi utopici/distopici di area anarchica, qui un po' trascurati. 
                  Si potrebbe partire dall'antologia (del 1948 ma ripubblicata 
                  nel 1981) Viaggio attraverso l'utopia di Maria Luisa 
                  Berneri. 
                  Intanto i più ottimisti fra noi continuano a camminare 
                  verso le utopie e a pensare che le rivoluzioni possano sovvertire 
                  in meglio lo stato presente. Ognuna/o interpretando a suo modo 
                  la frase del bolscevico (poi dissidente) e romanziere Evgenij 
                  Zamjatini: “l'ultima rivoluzione è come l'ultimo 
                  numero: non esiste.” 
Daniele Barbieri 
                 
                      
                Russia 1917/ 
				Da bolscevica a anarchica. Storia di una ribelle 
				Poche opere letterarie e politiche, prodotte nella Russia degli 
                  anni 20 e 30, danno l'idea di quanto la rivoluzione sia stata 
                  spontanea e partecipata dai lavoratori di città e campagne 
                  come l'autobiografia di Evgenija Jaroslavskaja-Markon, La 
                  ribelle (Ugo Guanda Editore, Milano 2018, pp. 180, € 
                  16,50), pubblicata recentemente. 
                   Conosciamo 
                  la storia degli anarchici russi e del movimento anarchico russo, 
                  attraverso le biografie di coloro che, nell'800, hanno formulato 
                  il pensiero etico, sociale e politico dell'anarchismo e/o che, 
                  durante gli anni della rivoluzione, hanno militato in Russia 
                  e negli altri Paesi del mondo. Conosciamo di meno o non conosciamo 
                  affatto le figure di coloro che, travolti dal bolscevismo nella 
                  sua versione leninista e stalinista, sono stati cancellati dalla 
                  memoria del movimento. Figure che, pur facendo parte della sua 
                  storia, non hanno mai potuto accedere ad un riconoscimento storiografico. 
                  Il libro apre una pagina nuova relativa agli anarchici vittime 
                  dimenticate della repressione spietata dell'anarchismo in Russia, 
                  durante la progressiva conquista del potere e all'indomani della 
                  definitiva presa del potere bolscevica. Il libro contiene oltre 
                  alla autobiografia di un'anarchica morta a 29 anni nel Gulag 
                  delle isole Solovki, dove era stata imprigionata, fucilata per 
                  le sue idee e per la sua ribellione alla oppressione stalinista, 
                  anche parte della documentazione penale che la riguardò, 
                  la prefazione dello scrittore Olivier Rolin e la postfazione 
                  di Irina Flige. La storia della breve vita di Evgenija Jaroslavskaja-Markon, 
                  vissuta come una meteora fiammeggiante nel cielo nero del comunismo 
                  leninista, è emersa casualmente dal ritrovamento negli 
                  Archivi russi sul Gulag della sua autobiografia, insieme ad 
                  una fotografia, che per la sua espressività difficilmente 
                  si dimentica e che è stata riprodotta sulla copertina 
                  del libro. Il ritrovamento è avvenuto grazie al precitato 
                  scrittore che lavorava negli Archivi in vista della preparazione 
                  di un suo romanzo. Nel quadro costituito dalla spaventosa tragedia 
                  del popolo russo, che ha iniziato la rivoluzione, ma che ben 
                  presto viene piagato e piegato dalla burocratica piramide sociale 
                  che si sta organizzando e costruendo sulle ultime ceneri della 
                  rivoluzione, si leva la voce ribelle di Evgenija Jaroslavskaja-Markon. 
                  Giovanissima entra a far parte integrante di quel grande sogno 
                  di emancipazione universale e dopo un'iniziale adesione al bolscevismo, 
                  la futura autrice dell'autobiografia, delusa, abbraccia le idee 
                  anarchiche. A queste resterà fedele fino alla fine. Tra 
                  la prima dichiarazione di fede e l'imprigionamento nel Gulag, 
                  si snoda una vita affettiva, sociale e militante intensa, ricca 
                  di relazioni sociali e politiche con gli ambienti anarchici 
                  e menscevici dell'emigrazione a Parigi, raccontata nel suo scritto 
                  con accenti vividi e toccanti. Evgenija Jaroslavskaja-Markon 
                  esiliandosi a Parigi potrebbe salvarsi con il suo compagno, 
                  ma condividendo di fatto la sua nostalgia della Russia, vi rientra. 
                  Finiti nel Gulag, entrambi vengono fucilati; per primo il suo 
                  compagno, per aver tentato di fuggire, e successivamente lei, 
                  per averlo aiutato in tale tentativo. Fra l'uno e l'altro evento, 
                  Evgenija Jaroslavskaja-Markon, laureata in filosofia e proveniente 
                  da una famiglia ebrea di studiosi, diventa una ladra, non si 
                  riesce a capire per quale motivo: se per necessità, scelta 
                  ideologica oppure per disperazione. 
                  A pochi passi dalla fucilazione spiega agli inquirenti, che 
                  stanno istruendo il processo contro di lei, che: “Scrivo 
                  questa autobiografia non per voi, organi inquirenti (se fosse 
                  servita solo a voi, non mi sarei nemmeno sognata di scriverla!). 
                  Semplicemente, ho voglia di “ imprimere” la mia 
                  vita sulla carta, ma di carta non riesco a trovarne, tranne 
                  che nell'Ufficio informazioni e indagini”. 
                  Durante la lettura di questo libro, immaginiamola nella sua 
                  cella, sola, prossima alla condanna capitale che si aspetta, 
                  ma salda, mentre traccia sulla carta e tramanda la passione, 
                  la sensibilità, il coraggio, la curiosità intellettuale 
                  e la ribellione all'ingiustizia, che sono state le caratteristiche 
                  principali della sua straordinaria personalità. 
Enrico Calandri 
                 
                      
                Malattie psichiatriche in aumento/ 
				Fermare l'epidemia è possibile? 
				“Se disponiamo di trattamenti davvero efficaci per i 
                  disturbi psichiatrici, perché la malattia mentale è 
                  diventata un problema di salute sempre più rilevante? 
                  Se quello che ci è stato raccontato finora è vero, 
                  cioè che la psichiatria ha effettivamente fatto grandi 
                  progressi nell'identificare le cause biologiche dei disturbi 
                  mentali e nello sviluppare trattamenti efficaci per queste patologie, 
                  allora possiamo concludere che il rimodellamento delle nostre 
                  convinzioni sociali promosso dalla psichiatria è stato 
                  positivo. (...) Ma se scopriremo che la storia è diversa 
                  - che le cause biologiche dei disturbi mentali sono ancora lontane 
                  dall'essere scoperte e che gli psicofarmaci stanno, di fatto, 
                  alimentando questa epidemia di gravi disabilità psichiatriche 
                  - cosa potremo dire di aver fatto? Avremo documentato una storia 
                  che dimostra quanto la nostra società sia stata ingannata 
                  e, forse, tradita.” 
                   Il 
                  libro di Robert Whitaker Indagine su un'epidemia. Lo straordinario 
                  aumento delle disabilità psichiatriche nell'epoca del 
                  boom degli psicofarmaci (edizioni Giovanni Fioriti, Roma 
                  2013, pp. 392, € 26,00) è un percorso, uno studio 
                  storico e scientifico dalla nascita degli psicofarmaci fino 
                  a oggi. La domanda di partenza è come mai, nell'era del 
                  boom degli psicofarmaci, c'è un aumento delle disabilità 
                  psichiatriche? 
                  Se davvero sono avvenuti questi progressi ci dovremmo aspettare 
                  una riduzione dei pazienti in psichiatria, che dovrebbe essere 
                  ancor più evidente con l'avvento degli psicofarmaci di 
                  seconda generazione, dal 1988 in poi. Invece il numero dei casi 
                  di persone che hanno una disabilità cronica dopo l'uso 
                  degli psicofarmaci è in aumento. Gli psicofarmaci, oltre 
                  ad agire solo sui sintomi e non sulle cause della sofferenza 
                  della persona, alterano il metabolismo e le percezioni, rallentano 
                  i percorsi cognitivi e ideativi, contrastando la possibilità 
                  di fare scelte autonome, generano fenomeni di dipendenza e assuefazione 
                  del tutto pari, se non superiori, a quelli delle sostanze illegali 
                  classificate come droghe pesanti, dalle quali si distinguono 
                  non per le loro proprietà chimiche o effetti, ma per 
                  il fatto di essere prescritti da un medico e commercializzate 
                  in farmacia. 
                  Le cause biologiche dei “disturbi mentali” sono 
                  ancora lontane dell'essere scoperte; invece sono gli psicofarmaci, 
                  dagli studi scientifici che Whitaker ci mostra, che presi a 
                  lungo andare, portano a gravi squilibri chimici nel nostro cervello. 
                  Nella nostra società è dato per scontato dalla 
                  maggioranza della popolazione che la depressione è associata 
                  ad una mancanza di serotonina, ma come ci spiega bene il libro 
                  “indagine su un'epidemia” non c'è nessuno 
                  studio scientifico che lo dimostra. 
                  Negli ultimi 40 anni, la psichiatria ha rimodellato, in profondità, 
                  la nostra società. Attraverso il suo Manuale Diagnostico 
                  e Statistico (DSM), la psichiatria traccia la linea di confine 
                  tra ciò che è normale e ciò che non lo 
                  è. La nostra comprensione sociale della mente umana, 
                  che in passato nasceva da fonti di vario genere, ora è 
                  filtrata attraverso il DSM. Quello che finora ci ha proposto 
                  la psichiatria è la centralità degli “squilibri 
                  chimici” nel funzionamento del cervello, ha cambiato il 
                  nostro schema di comprensione della mente e messo in discussione 
                  il concetto di libero arbitrio. Ma noi siamo davvero i nostri 
                  neurotrasmettitori? 
                  L'allargamento dei confini diagnostici favorisce il reclutamento, 
                  in psichiatria, di un numero sempre più alto di bambini 
                  e adulti. Oggi a scuola sono sempre di più i bambini 
                  che hanno una diagnosi psichiatrica e ci è stato detto 
                  che hanno qualcosa che non va nel loro cervello e che è 
                  probabile che debbano continuare a prendere psicofarmaci per 
                  il resto della loro vita, proprio come un “diabetico che 
                  prende l'insulina”. 
                  Fermare l'epidemia è possibile? Forse rompendo il legame 
                  fra psichiatria e multinazionali produttori dei farmaci, e se 
                  gli psichiatri ascoltassero i loro pazienti su quello che hanno 
                  da dire sui gravi effetti collaterali, sarebbero in pochi a 
                  proseguire un trattamento psicofarmacologico a lungo termine. 
Collettivo Antipsichiatrico  Antonin Artaud-Pisa 
                  antipsichiatriapisa@inventati.org 
                  www.artaudpisa.noblogs.org      
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