Nello specchio dei ribelli 
                 
                  1.  
                  Nei quattro volumi della sua Storia contemporanea (Il manichino 
                  di vimini, L'olmo del mail, L'anello di ametista 
                  e Bergeret a Parigi, scritti tra il 1897 e il 1901), 
                  Anatole France racconta le vicende del professor Bergeret che, 
                  soprattutto per le opinioni che esprime e per rappresentazione 
                  del carattere, non si fatica ad identificare come il suo “alter 
                  ego”. Diciamo che, grazie a quanto dettoci dall'autore 
                  in altre circostanze – allorché parlava in prima 
                  persona singolare – ed a quanto siamo venuti a sapere 
                  da altri, riusciamo a scorgere, nel personaggio e nelle sue 
                  vicende, opinioni su come vanno le cose al mondo miscelate con 
                  un po' di storia propria ed un po' di storia altrui assimilabile 
                  alla propria. Il tutto ben incastonato all'interno del processo 
                  evolutivo che caratterizza la società francese negli 
                  anni di passaggio tra l'Ottocento e il Novecento e ben raccontato 
                  con l'utilizzo di quei piani temporali paralleli – contemporanei 
                  – che anticipa molte soluzioni stilistiche che avrebbero 
                  caratterizzato buona parte della narrativa successiva.  
                  Da quanto detto, allora, si evince che – in questo, come 
                  in tanti altri casi – il confine tra il “deus ex 
                  machina” che, sapendo come va a finire, racconta e l'autore 
                  esplicito non sia così netto come a volte si vorrebbe 
                  che fosse. La terza persona singolare si fa debole, poco o forse 
                  niente autonoma, palesemente bisognosa di un io forte che la 
                  sostenga o, all'opposto, potremmo pensare ad un io che delega 
                  – un io che cerca di nascondersi –, ma cui il racconto 
                  preme tanto – tanto da tradirsi – come se, a chi 
                  ascolta, si dicesse: Lo dice lui, d'accordo, ma posso garantirvelo 
                  io stesso che le cose stanno così, anche perché, 
                  tra me e lui, gran differenze non ci sono.  
                   
                  2.  
                  La ricostruzione dei rapporti familiari può sensatamente 
                  avvenire soltanto dopo la rottura degli stereotipi nostri – 
                  dopo l'annichilimento, anche fastidioso – a volte –, 
                  delle versioni tramandate e ormai consolidate in una sorta di 
                  mitologia-rifugio. Tramite, per esempio, il ritrovamento di 
                  documenti, lettere, fotografie e testimonianze che rodano in 
                  quanto tali le certezze di cui ci si è nutriti fino a 
                  quel momento. Può avvenire, allora, un riordino della 
                  memoria di famiglia – con sorprese conseguenti, riclassificazione 
                  di persone ed eventi, acquisendo nuove consapevolezze in relazione 
                  alle figure che, ben diverse dalle parti di comodo che avevamo 
                  fatto recitare loro, improvvisamente si fanno nuove, più 
                  spesse, corpose, dolenti e pensanti, costituite della nostra 
                  stessa carne. 
                  È quanto, credo, abbia dovuto fare Donatella Borghesi 
                  per poter scrivere Sono io la tua sposa marina 
                  (L'Iguana, San Bonifacio-Verona 2018). Fulcro una nonna, si 
                  appropria e si riappropria – finalmente – di una 
                  rete di vicende e di apparentamenti: un palombaro livornese 
                  che, sul lavoro, in Bretagna, ci lascia la pelle, un amore clandestino, 
                  figli che si ignorano e figli che sanno, la vedovanza, i tanti 
                  luoghi in cui si inscenano vite – la Toscana, Viareggio, 
                  la Normandia, un campo di prigionia in Inghilterra, Milano, 
                  Parigi –, i tanti momenti che, selezionati con cura, vengono 
                  a stratificarsi e, nel contatto, ad acquisire un unico senso. 
                   
                  3.  
                  Sono io la tua sposa marina è pubblicato 
                  in una collana di narrativa e il fatto che sia scritto in terza 
                  persona singolare – e che si parli di chi governa questo 
                  riordino della memoria di famiglia nominandolo in modo diverso 
                  di come si nomina l'autrice – induce a pensare che l'elemento 
                  funzionale abbia preso il sopravvento rispetto alla cronaca 
                  storicamente documentata. Un po' è così e un po' 
                  no. Un po' è così perché ogni qualvolta 
                  si ricorre al discorso diretto – frasi dette, dialoghi 
                  sostenuti nel passato – si sottrae storicità alla 
                  narrazione e, per quanto si possa essere sensibili alle personalità 
                  che stiamo svelando, si incolla sugli individui e sulle loro 
                  relazioni un'ineliminabile patina di finzione. Un po', però, 
                  non è così perché il “deus ex machina” 
                  della Borghesi si manifesta presto per la sua rara fragilità. 
                  Il suo personaggio – colei che rammenda le lacune familiari 
                  – sparisce fino a colonizzare anima e corpo dell'autrice 
                  medesima, che, allora, di soppiatto, sta facendo storia – 
                  storia di tutti noi. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Donatella Borghesi è seduta, in prima fila, la seconda 
                  da sinistra. Felice Accame è in piedi, in terza fila, 
                  il quarto da destra. La professoressa è quella di francese. 
                  L’aguzzina non c’è  | 
                   
                 
                
                  4.  
                  In questa storia di tutti noi – una storia che va dai 
                  primi anni Sessanta fino ai nostri giorni –, compaiono 
                  alcuni nomi – anche quello di qualcuno “coperto”, 
                  forse per eccesso di zelo – che hanno significato e continuano 
                  a significare qualcosa. Per esempio, c'è quello di Claudio 
                  Varalli, assassinato da un neofascista, e c'è quello 
                  di Giannino Zibecchi, ammazzato da una camionetta della polizia. 
                  Fra questi, fra i tanti nomi che hanno detto qualcosa per lei, 
                  come per me, come per tutti coloro che hanno partecipato con 
                  il cuore in tumulto ai cosiddetti “anni della contestazione”, 
                  c'è anche il nome di Lelio Basso. 
                  Dopo il suo arresto e dopo la sua detenzione nel carcere di 
                  San Vittore – ancora minorenne –, nel 1966 Donatella 
                  Borghesi venne processata per “incitazione ai militari 
                  a disobbedire agli ordini e sovvertire l'ordine dello Stato”. 
                  Come racconta anche nel volume collettaneo, Ragazze 
                  nel '68 (Enciclopedia delle Donne, Milano 2018), la 
                  sua colpa era di aver distribuito un volantino antimilitarista 
                  il 4 novembre – data tabù, perché proclamata 
                  Giornata dell'Unità nazionale e delle Forze Armate. L'avvocato 
                  Lelio Basso – socialista, che io conobbi come rappresentante 
                  del Partito Socialista di Unità Proletaria –, presiedette 
                  il collegio di difesa formato da Agostino Viviani e da Fulvio 
                  e Michele Pepe ottenendone l'assoluzione per “insufficienza 
                  di prove”. 
                   
                  5.  
                  Alla maggior parte dei nomi che Donatella Borghesi fa e anche 
                  a qualcuno di quelli che non fa sono ancora in grado di assegnare 
                  un volto, o, quantomeno, un ruolo. Ad un certo punto, però, 
                  sorpreso, mi sono imbattuto in un nome che, inquietandomi come 
                  sempre, mi è parso stranamente familiare. 
                  Racconta Donatella Borghesi di aver dovuto, durante il suo iter 
                  scolastico milanese, cambiare ginnasio. Era stata bocciata al 
                  Beccaria e si trasferì al Berchet. Era stata bocciata 
                  perché presa di mira da una professoressa che, tra il 
                  tanto d'altro, non le aveva perdonato di aver svolto un tema 
                  sulla libertà scrivendo che l'unica libertà che 
                  ci rimaneva – eravamo nel 1960 o giù di lì, 
                  in pieno regime democristiano – era quella di far margarina 
                  del nostro corpo. Tale schiettezza – davvero imperdonabile 
                  nell'ottica dei rapporti tra insegnanti e allievi dell'epoca 
                  – era anche il risultato, fa capire Donatella (anche nello 
                  scrivere, c'è un momento in cui un cognome può 
                  anche esser messo da parte), di una specie di “muto e 
                  orgoglioso sodalizio”, in classe, con tal “Felice”, 
                  ciuffo biondo, sempre – come lei – con “dolcevita 
                  nero”, che aveva consegnato un tema sulle guerre puniche 
                  consistente di una sola frase “Sta un persiano dietro 
                  un paravento”. 
                  Ebbene sì. Non credo ci siano possibilità di equivoci 
                  – ero io. Che, in tutti questi anni, ho conservato la 
                  fotografia di quella classe. 
                   
                  6.  
                  Io mi ricordo di lei, lei si ricorda di me. Io dimentico “sta 
                  un persiano dietro un paravento” – per quanto mi 
                  sprema, proprio non mi torna in mente, ma lo stile contestativo 
                  quello sì, lo riconosco come mio – un cocktail 
                  venefico di surrealismo e di adolescenza in una prospettiva 
                  più e meno consapevolmente antiautoritaria. Lei dimentica 
                  il nome dell'aguzzina-professoressa. Io no: povera donna, mi 
                  detestava a prescindere. Fu la penultima volta che io ebbi a 
                  che fare con il dovere di frequentare un'istituzione scolastica. 
                  L'ultima fu l'anno successivo, dove ebbi a che fare con una 
                  nuova aguzzina-professoressa che, dopo avermelo promesso fin 
                  dal primo giorno di scuola, mi ribocciò. Rigettato come 
                  corpo estraneo, mi ritrovai buttato nella “vita” 
                  – inerme, senza protezione di titoli, senza lasciapassare 
                  per qualsiasi posto o meta, allo sbando. 
                   
                  7.  
                  Affettuosamente, Donatella parla di noi due come di “teneri 
                  adolescenti pre-situazionisti, pre-sessantottini. Pre-tutto. 
                  Fastidiosi inediti ribelli”. Non può sapere quanto 
                  io, poi, mi sia sentito a disagio con i situazionisti, con i 
                  sessantottini – con tutto. Non so lei, ma, sapendola con 
                  una tessera del Partito Comunista in tasca, immagino che di 
                  rospi debba averne dovuto mandar giù parecchi. 
                   
                  8.  
                  Sono io la tua sposa marina, il titolo, appartiene 
                  ai versi conclusivi di una poesia di Mariangela Gualtieri che 
                  Donatella ha posto in esergo alla propria opera. Ne riporto 
                  il contesto più prossimo: “Ho la parola amore per 
                  te/ la lavo ogni mattina dal salmastro/ la impasto col mio grano/ 
                  la essicco dal suo molle/ scortico via tutto il rosa/ e sono 
                  io la tua sposa marina/ mio cuore capitano”. Rende l'idea 
                  di una procedura – oserei dire di rigore politico – 
                  assunta nei confronti di ricordi e sentimenti.  
                Felice Accame         
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