Temuto come grido, atteso come canto 
                Il disco di Michele Gazich sulla deportazione 
                  degli ebrei veneziani dal manicomio di San Servolo. 
                Ci siamo smarriti. Ci siamo persi. 
                  Dal manicomio di San Servolo a Venezia, l'11 ottobre del 1944, 
                  vennero “ritirati” (SIC!) i matti ebrei presenti 
                  nella struttura – marchiati da un doppio stigma di leggi 
                  infami e razziste – per essere avviati verso il campo 
                  di sterminio. Deportazione nella deportazione, odio nell'odio, 
                  tragedia collettiva che ingoia ogni tragedia personale. È 
                  una vicenda così terribile che risulta al contempo impossibile 
                  e necessario raccontarla. Noi ci proveremo – attraverso 
                  le parole e la musica di un grande autore – e lo faremo, 
                  più che per parlarvi di belle canzoni, per cercare l'ipotesi 
                  di una resurrezione dell'umanità dalla propria vergogna. 
                  Michele Gazich è un grande testimone-viandante, col violino 
                  sulla spalla, che attraversa palchi e stagioni, raffinando e 
                  perfezionando il proprio dire in musica. Suonatore colto di 
                  estrazione classica, ha rifiutato giovanissimo a circa vent'anni, 
                  verso l'inizio degli anni Novanta, la vita da orchestrale: non 
                  ha rifiutato il rigore di quel mondo, la sua secolare profondità, 
                  ma ha rifiutato la sterile riproposizione, l'asettica intangibilità 
                  con la quale la nobiltà melomane colonizza le furie di 
                  Beethoven, la geometrica maestà di Bach. 
                  È diventato violinista per le canzoni con un'anima, ha 
                  fatto molti percorsi in compagnia di Massimo Bubola o di Gigi 
                  Maieron, e a livello internazionale di Eric Andersen e negli 
                  ultimi anni soprattutto di Mary Gauthier (della quale è 
                  divenuto una sorta di alter-ego). 
                  Però forse la parte più vera del suo lavoro è 
                  quella restata per più tempo segreta: l'attività 
                  di autore, compositore, e adesso – piano piano – 
                  anche di cantante. 
                  Temi importanti, ricerche impegnative sono quelle che si incontrano 
                  negli spettacoli o nei dischi di Gazich, figure fondamentali 
                  della ricerca umana, artistica e spirituale, figure di poeti 
                  (come l'adorato Pasolini), dirupi e vallate, mari in tempesta 
                  e rive placide si alternano in questa vita musicale che cresce 
                  di disco in disco. Michele è sostenuto da una piccola 
                  ma indomita soglia di attenzione, di affetto e di empatia, di 
                  un pubblico così partecipe da non potersi nemmeno definire 
                  pubblico, ma vero e proprio interlocutore che vive e respira 
                  sospeso all'archetto del maestro. 
                  Vederlo suonare è già una gioia per l'occhio: 
                  è un così splendido violinista che darebbe senso 
                  al concerto anche se a seguirlo fosse un sordo. Ciò di 
                  cui vi parlo non è però la sua eccellenza di strumentista-arrangiatore 
                  ma quella di compositore-scrittore, uomo che dal suono arriva 
                  al senso e alla narrazione. Questa sua recente prova “Temuto 
                  come grido, atteso come canto” non è tanto la conferma 
                  del suo talento (non ce ne sarebbe stato bisogno) ma la summa 
                  del suo percorso, del sogno modesto e folle di fare qualcosa 
                  di bello e di utile con le parole e con la musica. 
                  Accennavo in apertura al tema terribile che svolge: restituire 
                  la voce a quanti fra gli internati del manicomio di Venezia 
                  furono deportati per motivi razziali. 
                 
                Scopro che sono il primo 
		        Ci racconta Michele: «È iniziato tutto con una residenza artistica a Venezia, che già come città per me ha sempre rappresentato un'ossessione per tanti motivi, il primo dei quali familiare: fu la prima città della mia famiglia in Italia, mio padre passò lì un anno in un campo profughi. 
Io ci ero capitato (alle solite) per tenere un concerto che, per una serie di circostanze troppo lunghe da spiegare, fu terribile. Mi accingevo a riporre mestamente il violino e tornare a casa con la coda fra le gambe, quando vengo intercettato dal responsabile del progetto “Waterlines – Residenze artistiche e letterarie a Venezia”. La cosa era già una consolazione che dava senso alla frustrazione nella quale ero immerso, accettai dunque al volo la proposta prima di pensarci. 
Mi invitano dunque a trascorrere un mese a Venezia, sull'isola di San Servolo, io sapevo già molto bene che fosse stato il manicomio della città, perché una mia prozia dopo essere stata nel campo profughi – condizione che non l'aveva proprio messa di buon umore – era stata ospite sull'isola come paziente. Ho chiesto giusto di poter fare un sopralluogo, non ero certo di riuscire a restare fra quelle mura che grondano le grida accumulate per decenni. 
                  Alla fine mi son deciso a fare quest'esperienza, auto-assegnandomi 
                  la prescrizione di trarne un lavoro compiuto. Nell'estate dell'anno 
                  scorso vado dunque sull'isola e inizio subito col visionare 
                  l'archivio che è tenuto stupendamente, apro la porta 
                  pensando di essere l'ennesimo a fare questo tipo di ricerche, 
                  e invece con mio sommo stupore scopro che nessuno l'aveva fatto 
                  prima: già il fatto che un ospite di Waterlines avesse 
                  quest'interesse venne percepito come un atto rivoluzionario, 
                  gli altri tendenzialmente andavano in giro per Venezia a bere 
                  spritz (e magari sono più saggi loro). 
                Psichiatria e nazismo 
		        Visto il mio interesse, mi hanno anche regalato un po' di libri, 
                  mi colpì uno in particolare che raccoglieva gli atti 
                  di un convegno dal titolo inquietante “Psichiatria e nazismo”, 
                  l'assunto paradossale e terribile che scoprì leggendolo 
                  è che non era tanto il nazismo ad aver bisogno degli 
                  psichiatri, quanto la psichiatria a trovare alcune delle proprie 
                  peggiori distorsioni identificate perfettamente nel nazismo, 
                  lì ho anche letto per la prima volta notizia della deportazione 
                  da San Servolo. Il luogo in cui ero, appunto... tutti gli ebrei 
                  che erano ospiti della struttura l'11 ottobre del 1944 sono 
                  stati deportati e nessuno è sopravvissuto. Un manicomio 
                  nel ’44 lo si poteva già tendenzialmente definire 
                  un lager, ma evidentemente la barbarie era a un punto tale che 
                  questo non era sufficiente. 
                  Comincio dunque a consultare le cartelle cliniche relative agli 
                  ebrei internati, riflettendo già da subito su come narrare 
                  queste storie. Venti cartelle cliniche, più omogenee 
                  di quanto io pensassi, perché se ne occupava personalmente 
                  il direttore del manicomio dell'epoca, tale dottor Cortesi, 
                  un super-nazista che io ho ribattezzato Torquemada, mi venne 
                  subito da pensare che “quell'isola fu la sua Spagna”, 
                  come poi ho cantato. Ho scritto le canzoni utilizzando proprio 
                  le sue annotazioni sulle cartelle cliniche, annotazioni che 
                  sono quanto di meno professionale si possa imaginare, questo 
                  dottore utilizzava la cartella clinica come una sorta di sfogo 
                  sadico, da quello che si legge nei suoi appunti io non posso 
                  che ritenere che lui non credeva che nessuno l'avrebbe mai lette, 
                  sono una sorta di diario dell'obbrobrio, si compiace della violenza 
                  nei confronti di questi suoi pazienti in modo da sfogarsi e 
                  caricarsi assieme. 
                
                Quando ho cominciato pensavo di raccogliere degli spunti da 
                  rielaborare con calma a casa, non credevo certo di poter scrivere 
                  un disco in un mese stando lì, non ho mai scritto velocemente, 
                  ma in anni e anni e con fatica. È pur vero che se in 
                  un mese devi far solo quello, alla fine il tempo è tantissimo: 
                  ogni mattina andavo regolarmente in archivio, vi passavo tutta 
                  la giornata, e il tardo pomeriggio e la sera li passavo a scrivere. 
                  Più che raccontare la deportazione – cosa che nel 
                  suo orrore è stato fatto più volte molto bene 
                  – ho pensato che fosse fondamentale ridare a queste vittime 
                  la storia che era stata loro sottratta. 
                  Io ho pensato – proprio per rispetto di questi esseri 
                  umani dalla vita così tragica – di non fare i loro 
                  veri nomi, usare quindi nomi evidentemente fittizi, che ne simboleggiassero 
                  una caratteristica che mi aveva colpito, ad esempio una donna 
                  anziana che si riteneva una bambina l'ho chiamata Alice, una 
                  che profetizzava sventure e l'ho chiamata Debora come l'unica 
                  profetessa della Bibbia, c'è poi una Euridice che ha 
                  un percorso opposto a quella degli altri e va dal Lager al Manicomio, 
                  poi coma già dicevo il direttore che ho chiamato Torquemada, 
                  il suo ritratto l'ho fatto semplicemente mettendo uno dietro 
                  l'altro i suoi appunti, ciò che ne emerge lo trovo sconvolgente: 
                  1940, 14 marzo: L'infermo non si è mai sentito disturbi 
                  di mente. Per le leggi razziali diventa un paziente di mente. 
                  È noioso, servile, di una umiltà un poco ripugnante. 
                  1941, 26 gennaio: È un povero diavolo, non privo del 
                  tutto di intelligenza, ma inetto ed egoista. 20 aprile: Seguita 
                  a scrivere lettere a qualcuno della sua razza (ebraica), chiedendo 
                  denari. 18 giugno: Dice che preferisce pregare invece di lavorare. 
                  15 dicembre: Quantomeno untuoso e strisciante. 1942, 9 marzo: 
                  Sopporta con viso indifferente le umiliazioni più cocenti; 
                  cerca di scroccare soldi a destra e a sinistra scrivendo a persone 
                  ricche della sua setta. 2 luglio: Il personaggio finisce talora 
                  per buscarle sode. 1943, 10 febbraio: Viene trasferito all'infermeria, 
                  lesioni alle dita d'ambo le mani. 1944, 8 Luglio: La condotta 
                  che tiene nel manicomio è quella abituale della sua razza. 
                  11 ottobre: Ritirato d'ordine del Comando SS Germanico. 
                  Lo stesso motivo per il quale ho deciso di non usare i nomi 
                  veri, mi ha spinto a non utilizzare nel libretto le fotografie 
                  contenute nelle cartelle (benché fosse del tutto consentito 
                  farlo), per cui ho chiesto a mia moglie Alice, che dipinge e 
                  disegna – e con la quale per motivi professionali, ci 
                  eravamo visti assai poco nel corso di quell'anno – di 
                  fare queste incisioni per illustrare il libretto che avrebbe 
                  accompagnato il CD, è stato un modo di essere idealmente 
                  assieme, un atto d'amore come argine a tutto quell'odio. Ne 
                  sono uscite diverse xilografie su linoleum, ispirate all'espressionismo 
                  tedesco: ogni volto è ispirato alle vere foto delle cartelle 
                  cliniche, dunque il legame con la realtà resta. Il libretto 
                  è di 40 pagine e in ogni nota ci sono estratti dalle 
                  cartelle cliniche stesse. 
                  Infine in modo non previsto c'è stata anche questa bella 
                  collaborazione con Gualtiero Bertelli, che avevo incontrato 
                  proprio in quei giorni alla Giudecca in un festival dedicato 
                  a Luigi Nono. Abbiamo scambiato qualche parola, ci siamo confrontati, 
                  gli ho dato i miei dischi, lui mi ha invitato a pranzo nella 
                  sua vicina casa di Mira, e io ispirato dall'incontro ho scritto 
                  una canzone pensando a come l'avrebbe potuta interpretare, lui 
                  ha “corretto” il mio veneziano spurio, e a quel 
                  punto è venuto a cantare con me il brano. 
                  Per la cronaca, il manicomio fu poi chiuso formalmente nel 1978 
                  con la legge Basaglia – fu necessario una sorta di colpo 
                  di mano in piena estate – e poi iniziò un lento, 
                  progressivo smantellamento che durò un quindicennio, 
                  finché cambiò definitivamente destinazione d'uso 
                  nel 1993. Quest'altra storia me l'ha raccontata il Dottor Casagrande, 
                  collaboratore di Basaglia che ne fu l'ultimo direttore, e che 
                  ho avuto modo di incontrare a Venezia. Grazie a lui ho avuto 
                  tutta una serie di testimonianze ulteriori e storie a noi più 
                  vicine, sia degli ex-internati, che di medici e infermieri. 
                  L'Università col progetto Waterlines che ti dicevo mi 
                  ha finanziato, senza coprirmi d'oro, ma dandomi comunque modo 
                  di registrare in tranquillità e curare anche la qualità 
                  della carta per le incisioni. Il tutto coprodotto e stampato 
                  dalla mia piccola etichetta – con la quale ho prodotto 
                  recentemente anche il disco della cantautrice abruzzese Lara 
                  Molino e del gruppo marchigiano Sambene. 
                  Alla fine del lavoro che ti ho raccontato mi sono dunque ritrovato 
                  fra le mani quest'opera compatta nella quale convergevano tutte 
                  le mie tematiche: reclusione, ebraismo, follia, guerra civile... 
                  qualcosa che percepivo come conclusivo di tutto il percorso 
                  di questi anni, e mi son detto che non avrei più potuto 
                  scrivere niente. Ma come sai questa è una cosa che si 
                  pensa spesso una volta finito un disco. Le reazioni della critica 
                  all'ascolto delle registrazioni e soprattutto l'entusiasmo del 
                  pubblico alle prime presentazioni, mi hanno fatto ricredere 
                  e riempito di nuovi stimoli, nuovi progetti... che ora stanno 
                  lì a maturare dentro di me.» 
                Queste parole, terribili 
		        Lasciamo così Michele Gazich, eterno elfo per saggezza 
                  e cultura ed eterno bambino per entusiasmo e per voglia di giocare, 
                  mentre già pensa al prossimo trillo del suo archetto, 
                  alle parole da distillare dal profondo. 
                  Noi – con qualche informazione in più – torniamo 
                  a questo album che ha lasciato tutti incantati e inorriditi, 
                  con queste storie così lontane e così tragicamente 
                  attuali, in un Mondo nel quale l'esclusione sembra essere ancora 
                  una regola sociale, e in cui la stessa legge Basaglia – 
                  argine incompiuto di resistenza alla barbarie – viene 
                  messa in dubbio. 
                  Torniamo ad ascoltare dalla voce graffiata di Michele queste 
                  parole terribili, e questi silenzi ancora più terribili, 
                  che compendiavano la lenta condanna a morte dei pazienti, vergando 
                  anno per anno sui registri: niente di nuovo. 
                  Ecco, appunto, niente di nuovo sotto il sole, tranne per fortuna 
                  l'indignazione di qualcuno e un po' di musica per non dimenticare. 
				 
                  La testimonianza di Michele Gazich è stata raccolta 
                  a Milano nel settembre del 2018. 
				Alessio Lega 
				
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