Canzoni di Resistenza 
				 
                Non si direbbe granché, a guardarlo dalla confezione 
                  - un progetto grafico scarno ed essenziale come da un bel po' 
                  non si usa più: bianco e nero e scritta rossa, titolo 
                  e nomi dei musicisti e delle canzoni tutti in corpo così 
                  piccolo che per decifrarli mi ci vogliono gli occhiali da vicino. 
                  Decido fra me e me che non ci si ferma qua, alle rovine in copertina. 
                  Lo prendo. Non so spiegarmelo chiaramente, ma io di questa superficie 
                  mi sono fidato poco: sono solo una bestia curiosa che non ha 
                  certo addosso lo zaino carico dell'ascoltatore superinformato 
                  né altri sensi misteriosi oltre il quinto, facciamo il 
                  sesto ecco, ma solo nelle emergenze. Per tanti dischi brutti-ma-con-copertina-straordinaria 
                  che ho comprato, stavolta mi sa che ho fatto bene: una volta 
                  a casa, sin dai primi secondi mi sono reso conto che questo 
                  è un disco importante. Un'opera ingombrante travestita 
                  da pocacosa, da lavoretto al limite quasi dell'anonimità. 
                  Infilo questo dischetto di plastica d'argento nel lettore, il 
                  suono che ne esce si sparge tutto intorno ed occupa veloce la 
                  stanza e tutto il posto che ho dentro in testa. Occupa le fessure 
                  rimaste fra i ragionamenti che si sono accatastati negli anni 
                  sul mio consumo personale di musica - musica dapprima come magia, 
                  poi come scoperta, come rito, come condivisione, come cemento, 
                  come terreno dove affondare le radici, come cielo da assaltare, 
                  come nevrosi, come fuga da tutto e tutti, come riparo o come 
                  altro ancora, anche contemporaneamente e non necessariamente 
                  in quest'ordine. Il suono entra e si fa posto come una specie 
                  di polistirolo che si espande, una sostanza che sottrae spazio 
                  all'aria e lo occupa come fosse una schiuma che si gonfia di 
                  reazione chimica con l'ossigeno, anzi meglio come un organismo 
                  a sé venuto da altrove, un qualchecosa che ha una certa 
                  consistenza ma che non riesco a prendere tra le dita, un po' 
                  nuvola e un po' tentacoli tipo roba dentro a certi film e certi 
                  videogiochi di adesso. 
                  
                Come un vecchio filmino di famiglia 
		        Cambio solo qualche lettera e mantengo la rima, prendo quell'ingombrante 
                  e riscrivo adesso: ecco un altro disco importante. Mah, sono 
                  a corto di fantasia. Dovrei scegliere forse un aggettivo diverso, 
                  oppure aggiungerne altri: aggiungere parole per descriverne 
                  lo spessore, il colore l'odore e il gusto, magari un po' di 
                  spiegazioni. Oppure, come credo, è proprio uno di quei 
                  dischi che per me segnano davvero un momento dove tutto per 
                  un po' si ferma e trova un equilibrio, un punto da segnare sul 
                  cammino, un recinto tagliato ed un confine spostato, una connessione 
                  nuova. 
                  È un disco americano fatto da americani in America, eppure 
                  ascoltarlo per me significa ritrovarmi a casa. Come guardarsi 
                  dentro ad una specie di documentario, ecco sì è 
                  come rivedersi in un vecchio filmino di famiglia, quelle cose 
                  fatte in economia salvate chissà come dai traslochi ritrovate 
                  un giorno in uno scatolone e passate in videocassetta. Qui dentro 
                  ci sono proprio io sbarbo affamato di musiche storte, eccomi 
                  ai concerti, eccomi in manifestazione a fare casino, eccomi 
                  in fuga con la fionda ficcata in tasca, eccomi con un disco 
                  rubato o con un libro rubato, eccomi dita ancora sporche di 
                  ciclostile a dare via volantini, eccomi non so come a trovare 
                  il coraggio, eccomi ad appiccare il fuoco ai sogni il punk le 
                  fanzine i dischi le cassette tutto autoprodotto tutto pagato 
                  di persona pagato caro, eccomi a Mestre e a Marghera per le 
                  strade dei quartieri a rischio dove sono cresciuto, eccomi a 
                  fare l'operaio il fattorino il commesso il cameriere il tuttofare 
                  ovviamente in nero chi ti prende sennò, eccomi a Londra 
                  a gironzolare di notte per Camberwell e negli squat di Brixton 
                  e a New York nel Village e negli slums del Lower East Side dove 
                  tutti si erano raccomandati non avrei dovuto avventurarmi e 
                  dove invece ho fatto incontri ed amicizie belle e mai che mi 
                  sia successo qualcosa di male. 
                  Il bello è che in questo documentario immaginario non 
                  ci sono solo io, dentro ci sono tutti quelli che conosco, i 
                  miei compagni di strada e di scuola, quelli con cui ho suonato 
                  e fatto casino, quelli più vecchi e quelli più 
                  giovani, gente che adesso ha vent'anni e gente che non c'è 
                  più da un pezzo. Ecco, mentre ascolto questo disco mi 
                  accadono tutte queste cose, mi ritrovo in mezzo a una tempesta 
                  di ricordi e suggestioni. Dentro a questo disco incontro mia 
                  madre che torna a piedi dal mercato per risparmiare il biglietto 
                  dell'autobus, le do una mano con le borse della spesa. Dentro 
                  a questo disco incontro mio padre, siamo partiti da casa tutt'e 
                  due insieme per andare ad ascoltare Enrico Berlinguer che parla 
                  a una folla immensa in piazza Ferretto. Dentro questo disco 
                  incontro mia figlia Marta, Lucia ed io l'abbiamo portata alle 
                  manifestazioni pacifiste contro la guerra del Golfo, spingevamo 
                  un po' ciascuno la carrozzina di Valentina. Queste canzoni riesco 
                  a respirarle, sono aria buona, sono un maglione morbido fatto 
                  a ferri dalla mia compagna, calde come il pane al mattino presto, 
                  sono un bicchiere di quello buono in compagnia. E anche: è 
                  roba incazzata (“arrabbiata” non è davvero 
                  abbastanza), e incazzata forte, fortissimo proprio. Roba che 
                  urla, che protesta, rumore forte così forte da far muovere 
                  la terra e mettere a tacere gli uccelli. 
                 
                Le metamorfosi del pericolo 
		        C'è dentro il posto dove sono nato, la piazza da cui 
                  hanno scacciato me e i miei amici a forza di bombe e manganellate 
                  e attentati suicidi, il mio paese invaso dai carriarmati e dalle 
                  televisioni e dai suv, e anche l'America che protesta da una 
                  costa all'altra, senza distinzione del colore della pelle né 
                  di quello dei capelli né di quello del cuore. C'è 
                  dentro Tom Waits, e quella “Bella ciao” che gli 
                  esce dalla bocca non è più solo un disegno con 
                  le sfumature di grigio della sua voce ma un canto che esce da 
                  tutte le bocche del mondo. C'è dentro tutta la musica 
                  che vogliono spegnere. C'è dentro anche Donald Trump 
                  - in fondo, questo disco è per lui, anzi per colpa sua 
                  - e i troppi morti per sbaglio, assassinati per ignoranza, per 
                  egoismo, per paura oppure perché ci si è ritrovati 
                  con una pistola in mano e non serviva un motivo preciso. Ci 
                  sono dentro disprezzo, urla e gente stufa, stufa vi dico, stufa 
                  per davvero: se da ragazzini vi erano sembrati pericolosi i 
                  Black Sabbath, se a vent'anni vi erano sembrati pericolosi Sex 
                  Pistols e Clash, se a trenta vi erano sembrati pericolosi i 
                  Naked City oppure G G Allin, e fermiamoci qua, questa è 
                  l'occasione buona per spostare ancora i paletti della vostra 
                  percezione perché il pericolo prende forme sempre nuove 
                  altro che un po' di trucco pesante, altro che un tatuaggio in 
                  faccia, altro che l'ossessione che rimbomba nei cento secondi 
                  che hai a disposizione sul palco del talent show. 
                  C'è dentro Marc Ribot, chitarrista da prima linea, che 
                  avrete magari visto in giro con Vinicio Capossela o con John 
                  Zorn, dalla sua chitarra suoni che feriscono, taglienti come 
                  una finestra spaccata, pesanti come sampietrini appena strappati 
                  alla piazza. E non dico altro, perché qua bisogna ascoltare. 
                  Dentro ci sono anche Steve Earle e Me'shell Ndegeocello e Syd 
                  Straw e una cantante che ha chiesto di rimanere anonima perché 
                  teme rappresaglie. L'album si chiama “Songs of Resistance 
                  1942-2018”, e trovo che quella erre maiuscola sia azzeccatissima, 
                  fatta apposta contro chi ci vuole chiusi in casa, contro chi 
                  ci vuole controllare anche dentro le mutande, contro chi ci 
                  vuole puntuali ed obbedienti sul posto di lavoro, zitti ad ascoltare 
                  chi ci urla addosso dai palchi, spenti i desideri che non siano 
                  compresi negli spot pubblicitari, a fare ginnastica alle gambe 
                  spingendo un carrello del supermercato e alle dita schiacciando 
                  i bottoni del telecomando e del telefonino. L'etichetta è 
                  la Anti-, indipendente californiana fondata quasi vent'anni 
                  fa da un certo Brett Gurewitz che molti vecchi della mia età 
                  senz'altro conosceranno come l'ex-chitarrista dei Bad Religion. 
                Marco Pandin 
                  stella_nera@tin.it 
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