|   Rom 
                  Dal campo all'appartamento 
                  di Nicolò Budini Gattai 
                  A partire dall'esperienza di una 
                  ragazza e un ragazzo rom, di 15 e 11 anni, una riflessione sull'abitare 
                  di rom e sinti. 
                  
                  All'inizio dell'anno scolastico 
                  2017-2018, durante una chiacchierata con uno dei miei gruppi 
                  di alunni di origine non italiana della scuola media, l'alunno 
                  rom Jordan mi racconta che da qualche tempo non vive più 
                  al villaggio perché ha avuto una casa dal Comune di Firenze. 
                  “Ah bene”, dico io. “Finalmente. Sei contento?” 
                  Mi risponde di sì, la sua vita è migliorata, ma 
                  certo la quotidianità del campo gli manca, gli amici, 
                  i giochi fuori di casa. Qualche tempo fa, nel numero 418 di 
                  “A”, ho letto I 
                  mille modi dell'abitare, la recensione di Emanuele Fabiano 
                  al libro di Andrea Staid, Abitare illegale. Etnografia del 
                  vivere ai margini in Occidente (Milieu edizioni, Milano 
                  2017). Mi soffermo sulla parte riguardante i campi rom: 
                 
                   «[...] La vita del campo mette spesso in luce le criticità 
                    e problematiche legate alle condizioni precarie o all'esiguità 
                    dei servizi, delle quali un certo tipo di immaginario si è 
                    costantemente alimentato per rifiutare una realtà assai 
                    più complessa, fatta di villaggi ed esperienze di costruzione 
                    autogestita. Se la retorica del superamento del campo è 
                    da molti suoi abitanti vista con diffidenza, è proprio 
                    perché questa nega il diritto a costruirsi da sé 
                    una casa, di risiedere in spazi aperti e di viverli in comunità». 
                 
                 Mi sono dunque incuriosito all'argomento e ho pensato di approfondirlo 
                  con chi, tra i miei alunni e alunne della scuola media, avesse 
                  ricevuto la casa dal Comune di Firenze negli ultimi mesi e avesse 
                  avuto voglia di raccontarmi la propria esperienza. La prima 
                  volta che Jordan mi ha parlato del suo cambiamento dal villaggio 
                  del Poderaccio all'appartamento non ha preso una posizione netta 
                  a favore dell'una o dell'altra realtà. Certamente i giochi 
                  all'aperto e la possibilità di avere sempre un amico 
                  vicino sono aspetti che gli mancano, ma per altri versi l'appartamento 
                  ha migliorato la sua vita e il suo comportamento. Ho fatto delle 
                  domande a Jordan, 11 anni, e a Irene, 15 anni (i nomi sono fittizi), 
                  un'altra ragazza rom, e ho accolto ben volentieri la richiesta 
                  di Jordan di scrivere un testo per raccontare ciò che 
                  ha lasciato al villaggio e quel che ha trovato tra le mura della 
                  nuova casa. (Nelle righe precedenti si legge indifferentemente 
                  campo e villaggio: quando il discorso è 
                  mio e mi riferisco al Poderaccio utilizzo “villaggio”, 
                  nelle citazioni trascrivo fedelmente). 
                Aspetti positivi e negativi 
                Per descrivere la differenza tra vivere nel villaggio e in 
                  un appartamento, Irene dice che «tra vivere nelle case 
                  è meglio l'appartamento. Il campo è brutto, la 
                  casa è meglio. Al campo però ci si conosceva tutti, 
                  se c'è noia esci, giochi, incontri gli amici». 
                  Per Irene il villaggio rom è un luogo di relazioni dove 
                  si pratica una vita in compagnia di familiari e amici per aiutarsi, 
                  condividere, parlare e giocare all'aperto, una vita più 
                  spensierata: «da piccola, quando stavo al campo non pensavo 
                  tanto. Ora in appartamento penso molto molto di più. 
                  Quando sei in compagnia non pensi molto. Ora, quando sei in 
                  camera, tu pensi molto». La mancanza di compagnia l'ha 
                  sentita subito anche Jordan, ma dopo un po' di tempo è 
                  riuscito a farsi dei nuovi amici: «quando mi sono trasferito 
                  alla casa mia ero contento. Il campo mi ha mancato per un bel 
                  po' e anche i miei amici mi sono mancati, perché nella 
                  casa nuova non avevo amici. E poi, piano piano, mi sono fatto 
                  degli amici [...]». La casa è un luogo antropologico 
                  abitato dagli esseri umani, è «[...] anzitutto 
                  un esserci [...], un faticoso compromesso tra l'esigenza di 
                  intimità e di condivisione e quella di aprirsi al mondo 
                  che sta fuori; un punto di precario equilibrio tra la chiusura 
                  e l'apertura, tra il raccoglimento nell'intimità di un 
                  “noi” o di un “io” e l'aprirsi alla 
                  relazione sociale» (Staid, p. 20). 
                   Jordan 
                  descrive il suo comportamento al villaggio come piuttosto vivace 
                  e si rammarica che nell'appartamento non gli sia più 
                  possibile far rumore: 
                 
                   «[...] quando ero piccolo andavo a fare casino e poi 
                    la gente veniva dalla mia mamma a parlare perché ero 
                    molto casinista. [...] Ma si viveva un po' bene perché 
                    avevo la PS3 con due joystick e si giocava sempre a tutti 
                    i giochi, anche al gioco delle pistole. Ma si giocava fuori 
                    e quando mi toglievano la PS3 io facevo più chiasso, 
                    molto di più e rompevo quello che trovavo davanti a 
                    me. A volte anche ai bambini li davo un cazzotto molto forte 
                    dove mi capitava. [...] E poi abbiamo preso la casa dopo due 
                    anni e quando mi hanno comprato la casa io ero molto contento 
                    [...] però peccato che ora io non posso fare più 
                    chiasso». 
                 
                 Più avanti racconta alcuni giochi spericolati che inventava 
                  al villaggio: 
                 
                   «[...] quando faceva molto caldo io mettevo sempre 
                    una piscina, era molto grande, l'acqua doveva essere 2,10 
                    metri e quando sono entrato in acqua sono affogato. E poi 
                    è passata una settimana e mi sono messo un trampolino. 
                    Io ho messo un tavolo e delle sedie [...] e mi sono buttato 
                    facendo la capriola e non mi sono fatto nulla di male, però 
                    sono cadute le sedie. E poi mi sono buttato di nuovo, sono 
                    caduto in piscina ma io, stupido, lo facevo ancora. E poi 
                    sono caduto e mi sono fatto molto male in pancia, era tutta 
                    rossa. E poi le sedie le ho buttate e anche il tavolo [...]. 
                    E avevo rotto una finestra con un pallone molto forte e poi 
                    il mio babbo mi ha dato una sculacciata un po' forte, ma io 
                    ho riso moltissimo, perché mi ha dato una sculacciata. 
                    E poi io sono caduto come una gallina e una pecora e mi sono 
                    fatto moltissimo male, ho battuto con la bici in un sasso 
                    e mi son graffiato tutto il corpo e rotto una mano destra 
                    e la testa [...]». 
                 
                Campi. Una questione tutta italiana 
                Trasferirsi in un appartamento ha trasformato Jordan perché 
                  nella nuova casa «sto per bene, gioco per bene con la 
                  mia Play, faccio per bene». L'appartamento sembra portare 
                  da una parte Irene a essere più riflessiva, a pensare 
                  di più e Jordan a limitare la sua vivacità, dall'altra 
                  però li ha privati della possibilità di trovare 
                  degli amici appena fuori casa, di inventarsi un gioco, di provare 
                  il rischio di cadere «come una gallina e una pecora». 
                  Nelle parole di Jordan noto però qualcosa che stride: 
                  quando parla del villaggio dice quanto gli piacesse giocare 
                  con i video-giochi ma si dilunga maggiormente sui giochi all'aria 
                  aperta: tuffi da trampolini precari, cadute in bicicletta, pallonate. 
                  Al villaggio correva dei rischi. Il vocabolo “rischio” 
                  deriva dal greco “riza”, che significa “scoglio”. 
                  La parola è passata in Occidente nel XII secolo come 
                  termine marinaro, “il rischio che corre una merce durante 
                  la navigazione”, superato il quale se ne avrà guadagno. 
                  «Ma si può rischiare anche nel voler pensare il 
                  pensiero non ancora pensato, la parola non ancora pronunciata, 
                  l'azione ancora non agita» come scrive Matteo Frasca nel 
                  suo contributo al volume Resistenza attiva. Le passioni e 
                  le sfide di chi non si accontenta di stare dentro le mura scolastiche 
                  (a cura di M. Aiello, Erickson, Trento 2017). Nella nuova casa, 
                  dice Jordan, «mi sono un pochino calmato perché 
                  mi comprano tutto quello che voglio». Il bisogno di comprare 
                  per stare bene, per calmarsi, sembra prevalere quando la vita 
                  comunitaria e all'aria aperta viene meno! 
                   Fin 
                  qui abbiamo descritto alcuni aspetti positivi del villaggio: 
                  la compagnia, la vita all'aperto, modi di abitare che non sono 
                  riproducibili in abitazioni “normali”. È 
                  ovvio che tra i villaggi vi siano grandi differenze e quando 
                  questi sono caratterizzati da condizioni igeniche precarie, 
                  assenza dei servizi di base, conflittualità tra gli abitanti 
                  e marginalizzazione sociale diventino luoghi sgraditi da chi 
                  ci abita. Zoran Lapov, nel suo Vaaré romané. 
                  Diversità a confronto; percorsi delle identità 
                  Rom, (FrancoAngeli, Milano 2004) si è occupato dei 
                  rom kosovari residenti a Firenze. Prima di arrivare in Toscana 
                  molti avevano già soggiornato fin dagli anni Settanta 
                  in altre città italiane: Verona, Modena, Trento, Bolzano. 
                  Giunti a Firenze nel 1987, nacque in città, come sistemazione 
                  provvisoria, il campo dell'Olmatello (Lapov, p. 54). 
                
                   «Assecondando l'esempio nazionale, a partire dalla 
                    metà degli anni Ottanta si affronta a Firenze la “questione 
                    dei nomadi” [...]: sorsero dei primi campi sosta [...]. 
                    Si pensava che i campi fossero la soluzione migliore per questa 
                    gente, in quanto habitat di transizione verso l'integrazione 
                    definitiva. In questo modo, i “nomadi” potevano 
                    usufruire dei punti sosta, mandare i figli a scuola, cercarsi 
                    un lavoro [...]. Fu dimenticato, però, un particolare! 
                    Non venne svolta un'indispensabile indagine socio-antropologica 
                    su e con questa popolazione e, essendo considerata “nomade” 
                    per eccellenza, si credeva che l'invenzione dei campi sosta 
                    sarebbe bastata. Effettivamente, che cosa era successo? Prima 
                    di tutto, si è prodotto un imprevisto affollamento 
                    dei campi: i Rom [...] abituati ad una vita sedentaria nel 
                    paese d'origine, si sono insediati nei campi senza allontanarsene 
                    più. [...] Ma la precarietà della vita nei campi 
                    li condusse, molto presto, ad un ulteriore degrado, costringendo 
                    inizialmente molti di loro all'accattonaggio, al lavaggio 
                    dei vetri delle macchine agli incroci delle strade cittadine, 
                    nonché a delle forme di microcriminalità» 
                    (Lapov, pp. 56-57). 
                 
                 Irene e Jordan elencano gli aspetti negativi del villaggio, 
                  raccontano le difficoltà nello smaltimento delle acque 
                  piovane, i litigi tra le persone. Irene ci dà anche una 
                  descrizione di come era sistemata la cucina della sua casa: 
                  «Quando pioveva le case non resistevano, ma non dentro, 
                  prima di entrare in casa c'era non un balcone, ma una tettoia. 
                  Noi avevamo la cucina lì e dei fili elettrici. Quando 
                  pioveva c'era tanta acqua, c'era come un fiume. Poi c'erano 
                  delle persone che litigavano. Però litigavano mezz'ora 
                  e tornavano a parlare dopo un'ora o due. Litigavano senza motivo. 
                  In realtà non era brutto il campo». Jordan oltre 
                  a ricordare i disagi in caso di pioggia e i litigi, come Irene, 
                  aggiunge il problema della sporcizia: «[...] il campo 
                  era molto sporco e poi venivano i Quadrifoglio e prendevano 
                  la spazzatura. [...] E quando pioveva si andava in un mercato 
                  che c'aveva un affare di tetto e a volte io non volevo andare 
                  a scuola. [...] A me il campo piace poco perché ci sono 
                  dei signori che litigano. [...] Se stavo ancora al campo io 
                  ero il peggiore». È interessante notare come tutto 
                  sommato Irene apprezzi la vita che faceva al campo, a parte 
                  il problema della pioggia e i litigi senza motivo che sembrano, 
                  dalle sue parole, risolversi in breve tempo. Jordan invece avverte 
                  un certo pericolo a vivere nel villaggio, qualcosa che lo avrebbe 
                  potuto portare a essere peggiore. Tra le interviste fatte da 
                  Lapov al campo dell'Olmatello una ricorda come «all'inizio 
                  ci si stava bene, eravamo pochi qui - sedici famiglie. Poi, 
                  il numero è cresciuto e il campo è diventato troppo 
                  piccolo per tutti. In una situazione come questa ci si sono 
                  create delle rivalità e delle ostilità reciproche. 
                  Anche la gente è peggiorata e il campo si è rovinato» 
                  (Lapov, p. 57). 
                  Nelle persone intervistate nei tre campi rom di Milano e Pavia 
                  da Staid, si riscontra una forte volontà a vivere in 
                  un campo «[...] perché è lì che hanno 
                  creato il loro senso di concepire e abitare un luogo» 
                  (Staid, p. 55). Al contrario i rom del campo fiorentino hanno 
                  tutti «[...] espresso il desiderio di avere una casa vera 
                  e propria» (Lapov, p. 63), a maggior ragione da quando 
                  «il campo si è rovinato». Lapov sostiene 
                  il superamento della politica dei “campi nomadi” 
                  per un completo accesso agli stessi diritti e opportunità 
                  dei cittadini italiani ovvero la possibilità di scegliersi 
                  un alloggio dignitoso, avere un lavoro, mandare i figli a scuola 
                  senza dover subire atteggiamenti discriminatori. Questo genere 
                  di alloggio segregato può essere un freno a «[...] 
                  ogni possibilità di emancipazione ed affermazione socioculturale 
                  e politica dei Rom e Sinti. [...] Inoltre, il sistema dei campi 
                  accresce e favorisce il perpetuarsi dei pregiudizi e atteggiamenti 
                  discriminatori [...]» (Lapov, pp. 192-193). 
                “Non esiste un abitare tipico” 
		        È errato pensare che ci sia un modo di abitare tipico 
                  dei rom o convincersi che tutti i rom per loro natura siano 
                  nomadi e che la loro vita si svolgesse un tempo su case-carro 
                  trainate dai cavalli. 
                   Dagli 
                  anni Ottanta, a partire dal nord Italia, le amministrazioni 
                  delle medie e grandi città iniziano a costruire i campi 
                  nomadi con il supporto finanziario e legislativo delle Regioni. 
                  L'Italia è diventata così il paese dei campi, 
                  come si intitola un rapporto dell'European Roma Rights Centre 
                  di Budapest. Una volta nei campi molti rom, ormai da secoli 
                  sedentari in Jugoslavia, sono costretti a «rizingarizzarsi» 
                  secondo i nostri pregiudizi e a vivere in campi sporchi e fatiscenti. 
                  Leonardo Piasere, in I rom d'Europa. Una storia moderna 
                  (Laterza, Bari 2009) ha descritto molte delle comunità 
                  rom italiane ed europee, «in tutti questi casi, noi vediamo 
                  sistemi rom flessibili, aperti, mai definitivi, sempre altamente 
                  localizzati e mutevoli; sempre influenzati dalle politiche dei 
                  gagé nel loro farsi e disfarsi, ma mai alla completa 
                  mercé di quelle stesse politiche, alle quali le famiglie 
                  rom rispondono con modalità spesso assolutamente imprevedibili 
                  per i gagé» (Piasere, p. 88). La Commissione Europea 
                  con la Comunicazione n. 173 del 4 aprile 2011 Un quadro dell'Unione 
                  Europea per le strategie nazionali di integrazione dei Rom fino 
                  al 2020, approvata dal Consiglio Europeo nella seduta del 
                  23-24 giugno 2011, affronta la questione del superamento dei 
                  campi e invita gli stati europei a elaborare delle strategie 
                  nazionali per l'inclusione dei rom. Le misure politiche hanno 
                  l'obiettivo di migliorare l'accesso delle comunità rom 
                  all'istruzione, all'occupazione, all'assistenza sanitaria, all'alloggio 
                  e ai servizi pubblici di base. In Italia è stato pubblicato 
                  dall'UNAR il documento Strategia nazionale d'inclusione dei 
                  rom, dei sinti e dei camminanti in attuazione delle direttive 
                  europee in cui si invita a una «[...] progettazione che, 
                  partendo dalla consapevolezza dell'uso eccessivo degli sgomberi 
                  avvenuto nel passato e della sua sostanziale inadeguatezza, 
                  avvii una nuova fase improntata alla concertazione territoriale, 
                  ovvero una programmazione di interventi che coinvolga gli attori 
                  locali istituzionali e non, garantendo il raccordo tra le proposte 
                  progettuali e le politiche locali, nel rispetto dei diritti 
                  fondamentali e della dignità delle persone coinvolte 
                  nel percorso di inserimento sociale». La sempre più 
                  forte influenza in Europa come in Italia di movimenti politici 
                  xenofobi e nazionalisti rende difficile prevedere cosa accadrà 
                  nel prossimo futuro. Sulla versione on line de Il Sole 24 
                  ore del 18 giugno 2018 si legge che Salvini avrebbe chiesto 
                  al ministero un dossier sulla questione dei rom per fare un'anagrafe 
                  che ricorda tristemente le leggi razziali e i censimenti di 
                  epoca fascista. «[...] Gli stranieri irregolari andranno 
                  “espulsi” con accordi fra Stati, ma i rom italiani 
                  purtroppo te li devi tenere a casa. [...] Perché? Io 
                  penso anche a quei poveri bambini educati al furto e all'illegalità». 
                  L'affermazione di Salvini ricorda molto il pensiero di Cesare 
                  Lombroso che descriveva i rom come «[...] una razza delinquente 
                  “atavica”, cioè delinquenti per nascita e 
                  in modo definitivo» (Piasere, p. 57). Pensieri come questi 
                  vogliono affermare un bieco disprezzo e mantenere vivi antichi 
                  pregiudizi al fine di alimentare una costante lotta tra un noi 
                  italiani e un loro stranieri, ladri, rom anziché 
                  trovare soluzioni condivise nel rispetto della dignità 
                  delle persone. 
                Nicolò Budini Gattai 
				  
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