|  
				 migranti 
                  
                Crimini immaginari 
                  
                di Renzo Sabatini 
                  
                Negli ultimi tempi sono aumentate le incriminazioni di volontari, cooperanti, medici, accusati di aver svolto attività di solidarietà. La fraternità è diventata reato. 
                “Quando il mondo va a rotoli sono i 
                  resistenti ad essere bollati come pazzi” 
                  (George Monbiot, The Gift of Death, 10 dicembre 2012). 
                   
                  “In che paese vorresti fermarti?” 
                  “Mi piacerebbe restare in Italia, a Roma magari. A Roma c'è il papa.” 
                  “Sei cattolico?” 
                  “Sì, cattolico. Ecco, questo è un buon 
                  progetto. Mi piacerebbe vedere il papa, vivere nella città dove 
                  vive lui.” 
                  (Conversazione a bordo, dal film Iuventa di Michele Cinque) 
                 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Qui sopra e in tutto il resto dell'articolo: immagini tratte dal film Iuventa di Michele Cinque  | 
                   
                 
				Nell'agosto 2017 la Procura di Trapani ha ordinato il sequestro della nave Iuventa di proprietà di un'organizzazione umanitaria tedesca. La notizia era di quelle che sorprendono: per la prima volta, la magistratura italiana bloccava una delle imbarcazioni varate da gruppi e associazioni di solidarietà allo scopo di salvare migranti in difficoltà nel Mediterraneo. I lanci di agenzia, come di consueto, sfioravano appena la superficie della notizia, senza preoccuparsi di indagare. Recentemente ho potuto approfondire la conoscenza di quella vicenda e ne sono rimasto profondamente scosso. 
L'occasione è stata la proiezione, nell'auditorium affollato di un'università americana, del bel documentario che il registra romano Michele Cinque ha dedicato a quei fatti. Un film emozionante e tuttavia asciutto, privo di pericolosi sentimentalismi. Il regista, del resto, non ha realizzato un'inchiesta ma testimoniato la sua stessa esperienza, essendosi imbarcato anche lui coi volontari per solcare le acque del mare nostrum e raccontare la bella storia di un gruppo di ventenni tedeschi che avevano deciso di darsi da fare. 
                  Il documentario mi ha colpito per tanti aspetti ma, più 
                  di tutto, mi è rimasta impressa quella conversazione 
                  fra un volontario tedesco ed un migrante africano, distesi sul 
                  ponte della nave dopo le fatiche del giorno, a parlar del futuro. 
                  Esausti, ma in qualche modo felici. Nell'immaginario dei consumatori 
                  di notizie sensazionaliste migranti e operatori umanitari sono 
                  diventati figure minacciose: gli uni vengono per invaderci, 
                  gli altri sono in combutta coi trafficanti. Dietro questi oscuri 
                  traffici ci sarebbe, per alcuni, un subdolo programma di invasione, 
                  per distruggere la nostra cultura e cambiarci identità 
                  e religione.1 Invece su quel 
                  ponte umido non c'erano che due sognatori, lontani dalla realtà, 
                  dai telegiornali e dalle autorità costituite. Semplicemente 
                  due esseri umani, coi loro sogni, i loro rimpianti, la loro 
                  storia. Due persone, in quel momento, davvero senza nazione 
                  né confini invalicabili, ignari entrambi degli assurdi 
                  eventi che, da lì a poco, li avrebbero travolti lasciandoli 
                  sbigottiti, uniti dallo stesso destino: quello di essere colpiti 
                  a sorpresa dalla legge, coi suoi codici e i suoi decreti che 
                  decidono della vita di gente rimasta intrappolata fra le sponde 
                  di un mare che dovrebbe unire e invece divide. 
                Un oscuro disegno 
		        Il sequestro della Iuventa sembrava il colpo di testa di un 
                  giudice preso da ansie di protagonismo. Ora, a distanza di tempo, 
                  si intuisce l'abbozzo di un oscuro disegno dietro a quel primo 
                  attacco, mai visto prima contro degli operatori umanitari. Fino 
                  a quel momento, infatti, a nessuno era mai venuto in mente di 
                  sbattere sul banco degli imputati dei volontari impegnati nella 
                  solidarietà: né quelli che lasciano le loro comode 
                  case per andare in luoghi difficili, dove la terra brucia e 
                  l'acqua è infetta, né i ragazzi e le ragazze che 
                  vanno a vivere nelle favelas del mondo, fra i più poveri 
                  o fra i profughi. Nessuno aveva mai pensato di attaccare medici 
                  e infermieri che, invece di inseguire carriere favolose nei 
                  campus americani, rischiano la vita negli ospedali da campo 
                  dei paesi in guerra. Nemmeno si era mai trovato chi volesse 
                  accusare quelli che si imbarcano per salvare naufraghi, mettendo 
                  in gioco la propria stessa vita. Da allora molto è cambiato 
                  e screditare il mondo della solidarietà è diventato 
                  possibile, fa addirittura tendenza sui social. La fraternità 
                  è stata rubricata come reato. 
                  Tutto è iniziato con un'imprevista concentrazione di 
                  attacchi: mediatici, politici e della magistratura. Un fuoco 
                  incrociato di menzogne e accuse che ha colto tutti impreparati. 
                  Nessuno ha capito cosa stesse davvero accadendo, fino a quel 
                  momento si dava per scontato che gli operatori umanitari, quelli 
                  veri, fossero immuni da sordidi piani politici, che almeno su 
                  quel piano etico non ci fosse un oggetto del contendere. Ma 
                  non ci sono immunità, né limiti al disprezzo possibile 
                  e il risultato è terrificante: il rapimento di una giovanissima 
                  volontaria italiana in Kenya, il cui destino è ancora 
                  incerto mentre scrivo, ha provocato un'ondata di commenti offensivi 
                  e repellenti da lasciare sbigottiti. Nessun freno inibitore 
                  è più richiesto, nessun senso comune sembra essere 
                  necessario, nessuno si vergogna più di nulla. Chi dedica 
                  il suo tempo alla solidarietà, all'incontro con gli altri, 
                  a cercare di capire cosa veramente accade nel mondo, è 
                  dileggiato da chi non si occupa di nulla, non sa niente e nulla 
                  capisce. 
                  Nel Mediterraneo, nei giorni in cui scrivo, i poteri consociati 
                  hanno raggiunto il loro obiettivo: nessuna nave delle organizzazioni 
                  umanitarie incrocia più quelle acque per salvare naufraghi 
                  e raccontare quanto accade. I testimoni dello scempio sono stati 
                  allontanati. 
                  La Iuventa è solo una piccola imbarcazione, riadattata 
                  da un gruppo di giovanissimi tedeschi con lo scopo di navigare 
                  il Mediterraneo del sud in cerca di migranti in difficoltà. 
                  Quei ragazzi non avevano certo intenzione di sostituirsi alle 
                  istituzioni ma volevano riempire il vuoto che queste avevano 
                  lasciato, denunciare le carenze, le assenze assordati della 
                  politica. Mentre salvavano esseri umani raccontavano anche cosa 
                  accade davvero in quel mare e incalzavano i governi, chiedendo 
                  una politica umanitaria comune di accoglienza, per fermare la 
                  tragedia dei profughi costretti a prendere il largo su gommoni 
                  sovraffollati e totalmente inadeguati alla traversata. Per questo 
                  avevano costituito una piccola associazione, la Jugend Rettet,2 
                  che somma nel suo statuto tutti questi obiettivi: salvare vite 
                  in mare, stimolare il dibattito sull'immigrazione, monitorare 
                  l'applicazione del diritto d'asilo. La Iuventa era una imbarcazione 
                  dismessa che un tempo aveva navigato altre latitudini. Grazie 
                  al successo di una campagna di raccolta fondi lanciata sui social 
                  i ragazzi hanno potuto acquistarla e riqualificarla per le esigenze 
                  del salvataggio in mare. La nave ha lasciato il porto della 
                  Valletta per la sua prima missione il 24 luglio 2016. In due 
                  anni i volontari della Jugend Rettet hanno tratto dal mare oltre 
                  14.000 migranti in difficoltà, operando sempre in stretto 
                  coordinamento con la guardia costiera italiana. Ma, dalla data 
                  del sequestro, quella piccola imbarcazione galleggia, inutile 
                  come un relitto, triste come una balenottera spiaggiata, nel 
                  porto di Trapani.  
                  È ironico che la Iuventa sia stata arenata dal potere 
                  giudiziario proprio in quella città. A breve distanza 
                  c'è infatti Mazara del Vallo, città descritta 
                  come esempio di integrazione, caratterizzata dalla presenza 
                  di una comunità di pescatori tunisini arrivati negli 
                  anni sessanta e ben inseriti nel tessuto cittadino. Là 
                  il cuscus è da tempo una specialità del posto 
                  e il richiamo del muezzin si fonde senza problemi col rintocco 
                  della campane. 
                  
                Sogni senza futuro 
		        Nel mondo ci sono sogni senza futuro, come quello del migrante africano che voleva vivere a Roma per stare vicino al papa. Una mattina ha salutato la famiglia ed è partito da un posto qualsiasi, in fuga dalla povertà, dalla guerra, dalla siccità o dall'oppressione. Probabilmente veniva da un piccolo villaggio ed ha cominciato il viaggio su un camion sgangherato, affollato di umanità e di poveri oggetti, raccolti in sacchi improvvisati. Si è messo nelle mani dei trafficanti. Con mezzi di fortuna, a dorso di cammello e a piedi ha attraversato il deserto, rischiando cento volte la vita. Forse l'hanno rapinato i predoni e picchiato le guardie di frontiera. In qualche modo è arrivato in Libia ed è quasi certamente finito in una prigione puzzolente in mezzo a mille altri, ma alla fine è riuscito a imbarcarsi, con un sospiro di sollievo è salito su un gommone pieno all'inverosimile. Non sapeva nemmeno nuotare, ma era felice di partire. A metà strada il dolce Mediterraneo si è trasformato in una trappola amara e spaventosa ed ha avuto tanta paura. Ha rivolto i suoi ultimi pensieri alla famiglia e recitato preghiere disperate. Allora sono arrivati gli angeli, giovani, pazzi. Gli hanno parlato nella lingua degli angeli, in un accento duro, sconosciuto, ma erano parole dolci e si è ritrovato sdraiato sul ponte della loro piccola nave, salvo. Per la prima volta ha pensato davvero di avercela fatta. Roma era a un passo, sull'altra sponda. A Roma il papa lo aspettava. 
                Quando l'indifferenza è impossibile 
		        Al mondo esistono anche crimini immaginari, come quelli di 
                  cui sono accusati i ragazzi e le ragazze della Iuventa. Un giorno 
                  di qualche anno fa si sono stufati di stare ad ascoltare i governanti 
                  blaterare. Si sono sentiti responsabili, non perché tedeschi, 
                  ma in quanto esseri umani. Hanno sentito il dovere di fare qualcosa, 
                  hanno capito che non potevano più starsene chiusi nel 
                  loro guscio, fra casa e università, a progettarsi un 
                  futuro solido e scontato mentre là fuori, laggiù, 
                  a sud, nel mare culla della civiltà, si moriva. Hanno 
                  studiato e compreso che i migranti non annegano per caso, ma 
                  a causa di leggi sbagliate e disumane che consentono ai benestanti 
                  di viaggiare indisturbati ma bloccano i poveri ed i perseguitati 
                  nei porti di partenza, spingendoli a progettare viaggi folli 
                  e pericolosi. Nessuno ha detto a quei giovani studenti di farlo, 
                  a nessuno sarebbe mai venuto in mente di incolparli di quelle 
                  morti, ma loro non se la sono più sentita di restarsene 
                  indifferenti. Hanno avvertito l'urgenza di un atto di solidarietà 
                  concreta. Il progetto è nato così, semplicemente, 
                  con tanto entusiasmo giovanile e quel po' di sana follia che 
                  quasi sempre accompagna i grandi progetti e le belle idee. Un 
                  progetto rigoroso, però, meticoloso, studiato nei dettagli, 
                  da veri tedeschi: giorni e giorni passati a discutere il modo 
                  e le ragioni, per essere certi di aiutare i migranti senza favorire 
                  i trafficanti, per non fare solo soccorso ma anche denuncia, 
                  per raccontare i fatti che le agenzie di stampa non dicono e 
                  spingere i governi all'azione. Tutto è stato dibattuto 
                  incessantemente e studiato nei minimi dettagli. Sono stati fatti 
                  i corsi di preparazione e reclutati gli esperti. Poi il gran 
                  giorno è arrivato, certo tanto temuto e tanto atteso. 
                  Con l'ansia del non conosciuto, quei ragazzi si sono imbarcati, 
                  sono andati davvero per il mare a salvare vite. Pazzi disperati 
                  quelli che si erano affidati alle onde per cambiar vita e pazzi 
                  loro, che studiavano ingegneria, medicina o economia aziendale 
                  e un giorno si sono ritrovati fra onde e correnti a rischiare 
                  la loro stessa vita. Ai migranti alla deriva, ai naufraghi issati 
                  a bordo, la Iuventa deve essere parsa ogni volta una miracolosa 
                  apparizione. I volti di quei ragazzi la prima cosa umana incrociata 
                  dai loro occhi stanchi dopo aver guardato in faccia la morte. 
                  Allora dopo, curati e rifocillati, sdraiati sul ponte, esausti, 
                  raccontavano a quei giovani angeli del mare la vita e i sogni. 
                  Su tutto questo un giorno è calata la scure della legge 
                  e quei ragazzi, assurdamente, si sono ritrovati sul banco degli 
                  imputati, accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, 
                  un reato che potrebbe costare fino a vent'anni di galera. Gli 
                  inquirenti sospettano accordi con trafficanti e scafisti per 
                  un traffico di migranti che non rischiavano affatto di annegare 
                  e che quindi non avrebbero dovuto essere issati a bordo della 
                  Iuventa ma lasciati al loro destino precario. 
                  In attesa di processo, venti giovani sono ora in mezzo al guado, 
                  persi nella terra di nessuno, senza testa per lo studio ne' 
                  nave per salpare. Questo paese disteso in mezzo al Mediterraneo 
                  che prima, forse, era per loro un sogno, con la dolcezza del 
                  suo clima e la sua lingua musicale, ora è diventato un 
                  incubo. Vuole ingabbiare i loro corpi, i sogni e i progetti, 
                  come incarcera quelli dei migranti. E dire che volevano solo 
                  finire gli studi e cambiare il mondo. Ci rischiavano pure la 
                  pelle, senza far del male a nessuno, perché non avevano 
                  preso le armi, innalzato barricate o lanciato sassi, ma contestato 
                  con i fatti, senza violenza, come Gandhi o Martin Luther King, 
                  mettendo in gioco se stessi, corpo e anima. Tutto questo è 
                  grottesco, umiliante, spaventoso, e in un momento di rabbia 
                  qualcuno di quei ragazzi ha gridato: “Non accetto di essere 
                  criminalizzato”. Salvare naufraghi non può essere 
                  un crimine: questo è scritto oggi a grandi lettere nel 
                  sito ufficiale della Jugend Rettet. 
                  
                Italia addormentata e inferocita 
		        Quell'urlo per me è anche un atto di accusa verso quest'Italia addormentata e inferocita. Echeggia nella testa di quelli come me, che non accettano questa giustizia ma nulla o troppo poco hanno fatto per impedire lo scempio.  
Non abbiamo reagito, siamo rimasti alla finestra a guardare quei ragazzi esposti al pubblico ludibrio, li abbiamo abbandonati al loro destino. Non abbiamo fatto sentire la nostra voce o il grido è stato troppo flebile e nessuno l'ha ascoltato. Forse abbiamo avuto fiducia nella legge e aspettiamo che la giustizia faccia il suo corso, certi dell'assoluzione. In questo silenzio assordante il tempo è scivolato via e siamo arrivati al novembre 2018, quando la Procura di Catania ha puntato il dito contro Medici Senza Frontiere con l'accusa di aver smaltito illegalmente rifiuti pericolosi nei porti italiani, riferendosi agli scarti alimentari e ai vestiti “infetti” dei migranti soccorsi in mare. Un capo di imputazione assurdo, ridicolo, e altri operatori umanitari sbattuti in prima pagina e sul banco degli imputati. In un paese dove i bambini muoiono fra i fumi infetti delle discariche abusive la magistratura indaga gli stracci dei rifugiati. 
Anche se queste vicende giudiziarie si concludessero con delle assoluzioni, resterebbero aperte molte ferite. I nostri pronipoti si potranno chiedere come sia stato possibile criminalizzare la solidarietà sbattendo in prima pagina, come volgari delinquenti, quei giovani che si erano dedicati al salvataggio, belle persone incapaci di restare con le mani in mano di fronte al dolore. A noi resterà da capire come si sia arrivati a questa svolta e perché non ci siamo opposti con bastante vigore allo scempio della giustizia. Ci resterà questa cultura nuova con cui fare i conti, fatta anche di derisioni e aggressioni e di rabbia scaricata su chi ha deciso di dedicare un pezzo della propria vita agli altri senza chiedere nulla in cambio. Resterà la contraddizione di navi-salvataggio lasciate alla fonda a beccheggiare malinconicamente mentre in mare aperto la tragedia continua. 
                Non sono numeri, ma persone 
		        Ho avuto la fortuna di incontrare alcuni dei ragazzi della Iuventa, presenti assieme al regista alla proiezione dei documentario. Quella sera il film ha suscitato molta commozione e quando le luci in sala si sono riaccese gli occhi luccicavano di lacrime ingoiate a forza. Dopo hanno parlato loro: i protagonisti, gli imputati. È stato emozionante ritrovarsi accanto a loro. Non ho potuto fare a meno di ammirarli. 
Mentre elencavano i capi di imputazione mi è parso che un'ombra di angoscia affiorasse sul volto di alcuni di loro. Sono stato assalito dalla tentazione di gridare di non tornarci più in Italia. Avrei voluto raccomandar loro di non farsi incastrare da un paese corrotto e perso, non farsi trascinare nel baratro di un dibattimento processuale sicuramente inquinato, non affrontare più la gogna mediatica offerta da giornalisti ossequiosi del potere. Avrei voluto urlar loro di fuggire, di andare a regalare ad altri il loro tempo prezioso. 
Ma a Trapani staziona la Iuventa e quei ragazzi se la vogliono riprendere. Vogliono vederla ancora con la barra a sud, piccola ma solida, tangibile atto d'accusa contro governi razzisti e pavidi che lasciano affogare i migranti o li ricacciano nelle mani dei loro aguzzini. Vogliono scuotere ancora le coscienze. 
In Italia restano alcuni di quelli a cui loro hanno dato una mano. Alcuni a piede libero, altri reclusi, con o senza decreto di espulsione. Per i ragazzi e le ragazze della Iuventa quei migranti non sono numeri da scaricare ma persone, uomini e donne in carne, ossa e cuore, cui sono uniti dal vincolo che lega per sempre il naufrago al suo soccorritore. 
Temo allora che quei giovani in Italia ci torneranno. Affronteranno quel processo assurdo. Non voglio nemmeno supporre che si possa arrivare alla mostruosità di una condanna, ma che faremo se dovesse accadere? Star loro vicini, accompagnarli in quest'amara vicenda, aiutarli, mostrare solidarietà fino in fondo, manifestare, alzare la voce per loro: tutte queste cose mi appaiono doveri davvero irrinunciabili. 
Quei ragazzi devono essere scagionati e la Iuventa deve tornare libera di navigare. La fraternità deve ritrovare la sua rotta. 
                Renzo Sabatini 
                
- Si pensi ad esempio alla teoria del complotto sul piano Kalergi sostenuta da ambienti nazionalisti di estrema destra in Europa, ma anche da leghisti italiani, secondo cui esisterebbe un piano di incentivazione dell'immigrazione africana ed asiatica verso l'Europa al fine di rimpiazzarne le popolazioni. La teoria prende il nome dal paneuropeista Richard Kalergi, morto nel 1972, al quale viene attribuita la paternità di tale fantasioso piano. Chi scrive ha personalmente discusso con varie persone assolutamente convinte che l'immigrazione verso l'Europa avvenga nell'ambito di tale complotto internazionale.
                  
 - Letteralmente: “Giovani che salvano”. Raccomando 
                    vivamente di visitare il loro interessantissimo sito ufficiale 
                    https://jugendrettet.org/en/ 
                    (versione inglese). 
                
  
				
               |