Le canzoni di Michelangelo 
                Michelangelo Ricci è un sublime orco. Un Bud Spencer 
                  con la coscienza teatrale di Carmelo Bene, e si muove leggiadro 
                  e squassante per le quinte teatrali del suo “Teatro Dell'Assedio”, 
                  la compagnia, scuola e nave spaziale, che ha fondato e dirige 
                  come un capitano di vascello pirata, con dentro tanti bei talenti, 
                  ma senza primi-attori e prime-donne. Col “Teatro dell'Assedio” 
                  Michelangelo propone spettacoli lievi e circensi (pensate che 
                  uno dei loro massimi successi si basa sulle bolle di sapone). 
                  Sono spettacoli corali e coesi, avanguardistici e godibili, 
                  “riviste brechtiane”, monologhi laceranti, balli 
                  sconvolgenti e coinvolgenti, dove si perde il preciso distinguo 
                  fra teatranti e pubblico, irrispettosi e armonici: spettacoli 
                  anarchici. 
                
                 Per la verità io Michelangelo Ricci l'ho conosciuto 
                  nell'ambito della rassegna del Club Tenco, per il quale ha curato 
                  sovente le regie teatrali: si sa che noi cantanti, in special 
                  modo i cantautori, siamo bestie allergiche alla disciplina del 
                  palco, che in realtà non è che una grammatica 
                  espressiva. Convinti come siamo che il nostro “messaggio” 
                  basti a se stesso, soprattutto se supportato dalla dimensione 
                  essenziale e autonoma del cantante-chitarrista, difficilmente 
                  ci prestiamo alle ragionevoli indicazioni del regista. Alle 
                  prese con tanta indisciplina, Michelangelo riusciva comunque 
                  a conferire un sapore drammaturgico all'insieme delle performances, 
                  aiutato dal suo talento nel giocare con fondali e luci, perché 
                  il suo apparente “casinismo” cela un grande rigore 
                  e una ferrea competenza: figlio di uno scultore, Ricci ha coscienza 
                  plastica e dominio della scenografia. E in ogni caso è 
                  perfettamente in grado di mettersi al servizio delle canzoni, 
                  perché è lui stesso un ottimo autore cantante, 
                  ma questo io l'ho scoperto solo dopo, e ora che è uscito 
                  il suo disco, avete il modo di scoprirlo anche voi. 
                
                 Michelangelo lo si conosce meglio dopo lo spettacolo, quando 
                  di trattoria in taverna, il suo condensato di apparente severità 
                  e reale dedizione si scioglie in un piglio gaudente e ridanciano, 
                  da ottimo compagnone di mangiate e di bevute. È allora 
                  che ci si accorge che l'omone si è trascinato dietro 
                  per tutto il tempo – al teatro, al bar, in trattoria e 
                  di nuovo in osteria e poi in albergo – una chitarra. Non 
                  si fa pregare, la brandisce e si produce in una serie di canzoni 
                  originalissime, spietate, ipnotiche... alla prima ci si stupisce, 
                  alla terza si dice “però”, alla decima ci 
                  si convince di essere di fronte a un vero autore con una sua 
                  voce, una sua poetica, una sua scrittura, un suo piglio, una 
                  sua musicalità, un suo modo di scandire parole a tempo 
                  o violentare la metrica. Queste canzoni – pur nella loro 
                  autonomia –risentono ovviamente del mestiere drammaturgico 
                  del loro autore, e si configurano spesso come ritratti di personaggi 
                  stravaganti, eccessivi, di cattivi soggetti, con pessime intenzioni, 
                  immersi in un contesto peggiore di loro – il Down, il 
                  Cieco, un'incredibile figlia di genitori drogati e perversi, 
                  un sindaco privo di scrupoli – non attirano su di sé 
                  alcuna compassione, assistiamo incuriositi e un po' rabbrividendo 
                  alla loro evoluzione, a un momento di affermazione prodromo 
                  di un'inevitabile caduta, comete buie che hanno brillato per 
                  un attimo e poi subito si sono schiantate. 
                   
                  È venuto il momento della scuola 
                  Tutti avevano una maestra e io una sola 
                  Tutti che lottavano contro i professori 
                  E io dovevo calmarmi coi dottori 
                  E i ragazzi e le ragazze giocavano un gioco strano 
                  Mentre io restavo da solo con la mia mano 
                  Ero down, molto down, ero veramente molto molto down 
                  (Meno down) 
                    
                  Mia madre si faceva l'eroina 
                  Mio padre la cantina 
                  Ed insieme un po' di crack 
                  Io stavo distesa sulla schiena 
                  E invece della cena 
                  Guardavo la TV 
                  Restavo in silenzio in controsenso 
                  Fra ciò che penso e ciò che sento 
                  Perché non c'è niente che mi va'. 
                  (La figlia) 
                   
                  Tutti questi personaggi parlano in prima persona, tutti gridano 
                  una loro verità. Queste canzoni le abbiamo sentite nei 
                  cori degli spettacoli del Teatro dell'Assedio... altre però 
                  se ne sono aggiunte, dello stesso tenore, o anche con qualche 
                  raro momento lirico emotivo “La canzone del Cambi”, 
                  “Amanti” (forse l'unica canzone d'amore) e tutte 
                  insieme sono confluite, interpretate dall'autore, nel primo 
                  disco appena uscito a nome Michelangelo Ricci, “Questo 
                  lo so”. 
                  Non è un disco perfetto sul piano della realizzazione, 
                  certi arrangiamenti ci paiono affrettati e certi suoni anacronistici, 
                  anche l'interpretazione talvolta ci pare un po' irrigidita sul 
                  metronomo. Ma sono, diciamolo, peccati veniali, soprattutto 
                  se si tiene conto di un'opera prima, nata in regime di autoproduzione. 
                  L'originalità, la poesia, l'unità narrativa di 
                  queste storie cantate compensano ampiamente certa precarietà 
                  di realizzazione, mettendoci ci fronte a un esordio come non 
                  ne sentivamo da tempo. 
                  L'ultimo brano “Il globo industriale”, a mio parere 
                  il più bello del disco, è una cupa martellante 
                  fotografia della società ansiogena nella quel siamo incastrati. 
                   
                  Scavo le unghie me le levo 
                  Il sangue mi consumo 
                  Sudore dentro il fumo (...) 
                  Braccato nei confini del reame 
                  Io fuggo la mia fame 
                  E trasporto sulla schiena 
                  Il sudore e la catena(...) 
                  Seduto davanti ad uno schermo 
                  Io devo stare fermo 
                  E cambiare un mio governo 
                  Di un democratico padreterno 
                  Del globo industriale 
                  Io sono l'animale 
                  Che solo deve contare 
                  Rate in banca e poi votare. 
                   
                  E per la prima e ultima volta nel disco di Michelangelo si leva 
                  l'ipotesi di una grande speranza di rivolta, l'idea che tutti 
                  questi schiavi delle circostanze, della società, delle 
                  famiglie, delle debolezze, riescano ad alzare gli occhi per 
                  cogliere la possibilità di una rivolta, che se fosse 
                  collettiva, potrebbe aprire un'ipotesi di vera libertà, 
                  ovvero di vera vita degna. 
                   
                  Ma nel cielo c'è un pensiero 
                  Che se poi fosse vero 
                  E levasse il velo scuro 
                  Potremmo per davvero 
                  Trovare un altro modo. 
                Varsavia val bene una mossa. Un manipolo di canta-poeti in Polonia 
		        Ciò che si racconta qui di seguito non è qualcosa 
                  di definito: un artista, un disco, un collettivo musicale... 
                  piuttosto degli appunti, presi sul diario, di qualcosa che mi 
                  è successo quasi per caso, nel mio venire e andare su 
                  e giù per l'Europa nei luoghi del canto, e che meriterà 
                  in seguito maggiori approfondimenti, ma che intanto voglio condividere. 
                  Come forse ricorda qualche mio lettore, sono anni e anni che 
                  inseguo la canzone d'autore dell'Est, quella che ebbe uno straordinario 
                  ruolo di resistenza culturale negli anni bui del Socialismo 
                  di Stato. Ho parlato su queste pagine di artisti poco o niente 
                  conosciuti da noi, ma leggendari in patria: i russi Visockji 
                  e Galich, i cechi Kryl e Nohavica, il polacco Kaczmarski... 
                  e poi ho sovente parlato del mio preferito, Bulat Okudzava, 
                  il padre dei cantautori sovietici che sono anni che studio e 
                  traduco, preparando un sontuoso progetto che vedrà presto 
                  la luce. 
                  In questo lavoro sono stato guidato nell'ultimo lustro dalla 
                  giovane competentissima slavista Giulia De Florio, che ogni 
                  tanto – come ogni studioso che si rispetti – gira 
                  il mondo per convegni e che prova a raccontare che c'è 
                  un cantautore italiano che tanto si dà da fare per diffondere 
                  la cultura musicale e poetica slava. 
                
                A giugno Giulia mi fa “ti andrebbe di partecipare a un 
                  paio di concerti collettivi a Varsavia, con cantautori polacchi, 
                  russi e cechi... non ci sono soldi, giusto un rimborso spese, 
                  ma è una bella occasione di diffusione e confronto”... 
                  beh, perché no, dico io, che se c'è da cantare 
                  non mi tiro mai indietro. 
                  Però 'sti polacchi spariscono per un mese, più 
                  volte sollecitati confermano in linea di massima ma danno risposte 
                  evasive quando si chiede più precisamente di cosa si 
                  tratta, e poi dove, e quali sono le distanze e come mai... 
                  Insomma arriviamo a una settimana dalla partenza e io ancora 
                  non so di preciso dove e a che ora canterò. A questo 
                  punto mi vesto di professionismo ferito e dico a Giulia – 
                  che continuava a fare l'intermediaria, rassicurandomi sul fatto 
                  che gli slavi sono fatti così, ma poi gli impegni li 
                  rispettano – che insomma... io devo partire così 
                  alla cieca, e che non è serio tenermi all'oscuro... 
                  In realtà la paura mi fotteva: non conosco ovviamente 
                  il polacco, non conosco il russo (sono giusto in grado di chiedere 
                  acqua, vodka, crespelle e tè verde), parlo perfettamente 
                  il francese (che sarebbe stato utilissimo ai tempi di Tolstoj 
                  e Chopin, ma ormai non più) e tutto il mio lessico inglese 
                  si ferma ai titoli delle canzoni dei Beatles e di Simon e Garfunkel. 
                  Come faremo a capirci? che gli dico io a questi? 
                  E poi l'attuale situazione politica polacca mi preoccupa non 
                  poco... ma, mi dico anche, se uno dovesse giudicare noi italiani 
                  dal nostro Governo, non è che ci faremmo un figurone. 
                  Finalmente in corner arrivano definitive conferme, orari e luoghi 
                  dei concerti, e... vedo che il primo è nel museo della 
                  diocesi e il secondo nel giardino di una chiesa. 
                  Vabbé, chi non va non vede, Varsavia varrà bene 
                  una messa... 
                
                Al mio arrivo in aeroporto trovo il cantautore polacco che 
                  organizza tutto l'evento Antoni - Tolek - Muracki... io parlo 
                  italiano e francese, lui polacco, russo, ceco, e un inglese 
                  che, per quel nulla che posso giudicare, non mi sembra oxfordiano. 
                  Scoppiamo a ridere, ci abbracciamo e iniziamo a chiacchierare 
                  per tre giorni ininterrotti (o meglio interrotti solo dai concerti) 
                  di tutto, ma proprio di tutto, e soprattutto di musica. La sua 
                  famiglia mi accoglie, ho l'onore di passare dallo studio della 
                  moglie di Tolek, ottima pittrice con una fissa morandiana per 
                  le finestre, le porte, le case... intanto hanno deciso che, 
                  non avendo ancora fatto colazione, devo mangiare tre (3) uova 
                  col pane nero e i meravigliosi onnipresenti cetriolini, poi 
                  raggiungo Tolek nello studio e cominciamo a suonarci, io in 
                  italiano lui in polacco, le canzoni di Okudzava. Si affaccia 
                  una torma di biondissimi nipoti, figlie, ognuno riprende in 
                  una lingua diversa un ritornello.  
                  Chiedo lumi sulla canzone d'autore in Polonia. Vengo a conoscenza 
                  della straordinaria tradizione del Cabaret musicale che, fino 
                  agli anni Sessanta, ha rappresentato la punta di diamante della 
                  cultura popolare: una boccata di ossigeno e surrealistica intelligenza, 
                  qualcosa fra Karl Valentin e i Gufi, ma più cubista, 
                  con musiche straordinariamente complesse. Era tutto ciò 
                  che di buono passava la televisione ai tempi dell'ottuso Gomulka 
                  (“un cretino totale” mi dice in italiano Tolek, 
                  pescando le parole chissà da dove).  
                   
                  Sono cascato bene, Antoni Muracki è una sorta di enciclopedia 
                  musicale, conosce tutto, compone ogni sorta di canzone in molti 
                  stili diversi: canzoni di protesta, canzoni buffe, canzoni per 
                  bambini, suona la chitarra con grande perizia e con parecchio 
                  swing, mette in musica i più grandi poeti contemporanei, 
                  e ovviamente adatta le canzoni russe e ceche: in particolare 
                  ha dedicato dei lavori di grande rilievo a Jaromir Nohavica, 
                  rendendolo veramente popolare nel suo Paese. Infine scrive delle 
                  bellissime canzoni d'amore... e io spericolatamente, un po' 
                  con l'aiuto dei traduttori online e molto basandomi sull'intuizione, 
                  nella notte ne traduco una breve, semplice e bellissima, che 
                  finiremo per cantare assieme sul palco: 
                   
                  Ti amo da quel tempo là che ogni cosa mi commuove 
                  la curva lenta dell'età di un corpo che si muove 
                  una scintilla un'ovvietà l'odore dei capelli 
                  e dalla notte tornerà col canto degli uccelli 
                   
                  e il Mondo chiama, il Mondo va dal supermercato 
                  alla via lattea e anche più in là, nel cielo 
                  sconfinato 
                  ed io che sto col naso in su, a volte mi ci perdo 
                  e torno solo e vedo il tuo sorriso e mi ricordo 
                   
                  perciò ti amo senza la risposta alle domande 
                  come il silenzio che sa già la strada che ci attende 
                  la ricevuta sul comò della lavanderia 
                  e tu già sai quello che so, della tua vita e della 
                  mia. 
                   
                  Nel frattempo bisogna correre sul luogo del concerto, portarsi 
                  dietro e montare l'impianto – sì, proprio come 
                  facciamo talvolta noi in Italia, paladini dell'autoproduzione 
                  e dell'organizzazione dal basso – cominciano ad arrivare 
                  gli altri musicisti: Jacek Beszczyński, splendido volto 
                  scavato e ieratico, con occhi profondi e ironici e la voce rauca 
                  di un lupo di mare, un Joseph Conrad con la chitarra che canta 
                  la sua versione della tradizionale “Dos kelbl”, 
                  canto yiddish reso noto nel mondo da Joan Baez (“Dona 
                  Dona”) e in italia da Herbert Pagani (“Un capretto”). 
                  In realtà Jacek come autore è specializzato soprattutto 
                  in canzoni per bambini, concepite lavorando a stretto contatto 
                  con la sua compagna pedagogista, ne ha scritte centinaia diventate 
                  popolarissimi fra i bimbi polacchi. Si affaccia anche Tomek 
                  Kordeusz, fenomenale chitarrista compositore, molto attento 
                  a sostenere un gioco di pieni e di vuoti musicali, di notevolissima 
                  raffinatezza. Infine arrivano da Brno il ceco Jiří 
                  Vondrák, che ebbe l'imprimatur dallo stesso Okudzava, 
                  e che con delicatezza celestiale e col candore degno di un Soldato 
                  Svejk della canzone, snocciola strofe di miele e veleno, e il 
                  russo Alexey Kudryavtsev, impressionante interprete di Visockij, 
                  denso, materico ed eccessivo, con un piglio rock-moscovita. 
                  In questa girandola di personaggi e grugni notevolissimi, tutti 
                  con la loro personalità, ma pronti a scambiarsi canzoni 
                  e parole, a duettare, a raccontarsi, io mi ritrovo un po' frastornato, 
                  ma già in famiglia... e il pubblico polacco si lascia 
                  conquistare sia dalla captatio benevolntiae delle canzoni del 
                  loro compianto Kaczmarski che eseguo in italiano, sia dai miei 
                  canti dedicati all'emigrazione. 
                
                Si finisce in un trionfo, e si torna alla casa di Tolek, dove 
                  è imbandita una cena collettiva (per la verità 
                  avevamo fatto anche un'abbondante merenda, abbondantemente innaffiata 
                  di birra) alla quale portiamo un contributo alcolico. E qui 
                  nell'entusiasmo accetto la sfida di pasteggiare a vodka. Poco 
                  male, il letto è vicino. Il giorno dopo – come 
                  dicevo – si replica nel cortile di una chiesa, attenti 
                  a non disturbare con le prove la cerimonia matrimoniale che 
                  intanto di svolge dentro... appurato che non solo il mio repertorio, 
                  ma quello di nessuno dei presenti è particolarmente religioso, 
                  chiedo lumi su quella strana location, e mi rispondono che negli 
                  anni della censura le chiese erano fra i pochi luoghi che garantivano 
                  una certa libertà di espressione al loro interno, non 
                  solo per ciò che atteneva al culto, ma anche per canzoni 
                  e performance libertarie, purché nel rispetto reciproco. 
                  Però... 
                  Le ultime chiacchere, le ultime canzoni con Tolek, che mi svela 
                  il lato più intimo del suo repertorio e la metafora dell'aquilone 
                  con la quale ha raccontato la morte della sua mamma... la commozione 
                  è lì a due passi, maledetti slavi emotivi! Riparto 
                  a malincuore per Milano, con una folla di idee per la testa, 
                  con una lingua in più da imparare, e con la precisa sensazione 
                  di aver allargato non solo la famiglia musicale ma anche quella 
                  dei miei affetti. 
				Alessio Lega                 
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