Viaggio verso una destinazione inconsueta (ed altre cinque) 
				
  
                Des Moines 
		        Tutto è dentro di me 
                  Non avrete mai bisogno di ciò che provo 
                  Strade in camera da letto, i giorni che passano 
                  ed io mi sento libero solo nei miei sogni profondi 
                  Dormendo da solo, l'inverno è passato 
                  Ditemi per favore a cosa serve questa vita  
                  Non proverete mai ciò di cui ho bisogno  
                  (da “Daffodils”). 
                 A leggerla sembrerebbe verosimilmente un inedito dei Kina, 
                  lasciata fuori tipo da “Se ho vinto, se ho perso”, 
                  e invece è Des Moines. E se guardiamo, dietro al nome 
                  di Des Moines ci sta nascosto Simone Romei di Reggio Emilia, 
                  che ho potuto incontrare di recente tramite un amico comune, 
                  Egle Sommacal (chitarrista di talento di cui vi ho parlato bene 
                  e ripetutamente, l'ultima volta è stato su “A” 
                  408). Anche Simone, come Egle, suona la chitarra e la suona 
                  molto bene. Ma, diversamente da quello che Egle fa nei suoi 
                  dischi, Simone in più anche canta – testi in lingua 
                  inglese, ne ho riportato un frammento tradotto qui sopra. 
                    
                  “Like freshly mown grass” (“Come l'erba appena 
                  tagliata” è il titolo del cd, l'etichetta è 
                  l'indie We Work - ne è stata fatta una versione su vinile 
                  a cura dei mantovani diNotte Records, www.dinotterecords.com) 
                  esce adesso eppure suona come una cosa di ieri – spero 
                  si capisca che è un complimento sincero, se non si dovesse 
                  capire lo sottolineo. Questo non è il debutto di Des 
                  Moines, ho scoperto gironzolando in rete che prima aveva realizzato 
                  un disco pubblicato soltanto in poche copie e c'è pure 
                  una cassetta con tre pezzi, produzioni rigorosamente indipendenti, 
                  precarie un po' per ideologia e un po' per forza – semisommerse 
                  proprio come piace a me (le ho potute ascoltare qui: simoneromei.bandcamp.com). 
                   
                  Di cose che mi piacciono qui dentro ne trovo parecchie. Come 
                  Simone suona la chitarra, come muove le dita e dispone le note, 
                  il suono complessivo, intanto. Ma prima ancora mi ha incuriosito 
                  e affascinato la costruzione e consistenza di ciascuna canzone, 
                  un'apparenza che inganna: al momento sembrano cosine esili, 
                  invece se si resta lì ad osservarle è evidente 
                  che questo lavoro ha richiesto tempo, che è frutto di 
                  ragionamento e sbattimento e studio e pazienza e ricerca. 
                  In ogni canzone, appoggiati sopra al ricamo della musica, i 
                  versi sono disposti in una forma che li fa avvicinare a certa 
                  poesia intimista: ogni parola è scelta con cura prendendola 
                  da un certo posto dentro al cuore, accostata alla successiva 
                  con dedizione e dopo ripetute riflessioni e incastrata nel testo 
                  finale come un lavoro di cesellatura. Analoga pazienza e cura 
                  sono state dedicate alla costruzione dei suoni, vi dicevo, ma 
                  senza che si sia arrivati a sconfinare nella sovrapproduzione, 
                  come raccogliendoli in mano uno ad uno e trasferendoli in digitale 
                  lasciandogli tutta addosso quella loro colorazione naturale. 
                  Se n'è occupato Egle e pare abbia fatto come si ragionava 
                  e si faceva una volta, mi viene da dire, quando si era alle 
                  prese col nastro magnetico e in studio si pensava a scegliere 
                  i cavi giusti, alle marche e i modelli dei microfoni e a posizionarli 
                  di fino per catturare lo spirito delle voci. Si lavorava anche 
                  e soprattutto con le mani, con le punte delle dita, cercando 
                  l'odore e il gusto dei suoni, la loro forma nell'aria. Usando 
                  occhi testa e anima, oltre che le orecchie. 
                  Penso di aver capito perché mi piace questo disco: me 
                  lo ritrovo vicino, ed ogni volta che lo riascolto mi accorgo 
                  che la sensazione di familiarità perdura. E non è 
                  perché sto vivendo un déjà vu musicale, 
                  ma è che queste sonorità mi fanno sentire a casa 
                  e contemporaneamente mi portano via, proprio dove desideravo 
                  andare: la mia destinazione segreta che ho sempre tenuto per 
                  me, che non ho mai confessato a nessuno.  
                  Pensavo fosse una suggestione passeggera, e invece no: è 
                  stata un'esperienza piacevole che ho cercato di ripetere, e 
                  con una certa preoccupazione addosso, nel senso che mi sarebbe 
                  davvero dispiaciuto non ritrovare negli ascolti successivi certi 
                  fremiti del primo impatto, quando la musica si svela la prima 
                  volta, quelle vibrazioni di sorpresa che ti ritrovi sulla pelle, 
                  spontanee animalesche e senza controllo – per dire, quelle 
                  che ti fanno rizzare i peli della schiena, che ti fanno salivare. 
                  Quel piacere, quello, l'ho ritrovato sempre. 
                  Tornando un momento sul discorso delle vicinanze e della familiarità, 
                  potrebbe essere anche colpa delle parole – se ci fate 
                  caso, già dentro a quella scheggia che ho trascritto 
                  all'inizio (come altrove nei testi: tra le suggestioni “Whipporwill” 
                  che sembra miracolosamente uscita dall'Antologia di Spoon River, 
                  “Love in vain” è una manciata di interrogativi 
                  che pare stretta nella mano destra di Nick Drake) possiamo ritrovare 
                  un certo spaesamento, uno stato che per me è familiare 
                  e che potrei descrivere come la mia difficoltà cronica 
                  di misurare i contorni delle cose. 
                
                 Avete presente quella specie di difetto alla vista che ti 
                  fa apparire il mondo fuori fuoco, coi bordi morbidi quasi come 
                  se ci si fosse ficcati nella nebbia ad affondare le dita dentro 
                  l'aria bianca e densa che sta intorno. Accadeva spesso una volta 
                  qui in Valpadana: nebbia che confonde le direzioni e le distanze, 
                  nebbia che mette addosso un velo di mistero anche alle voci, 
                  ai rumori, ai suoni. Nebbia che a Venezia ti entra dentro col 
                  respiro, che ti fa riconoscere le infinite sfumature del grigio 
                  e te le fa amare tutte. Nebbia che ti scioglie la strada da 
                  sotto le scarpe, che ti fa sbagliare posto quando vai a piedi 
                  e paese quando sei in macchina – che poi non è 
                  che bisogna dare tutta la colpa alla nebbia, è proprio 
                  quello spaesamento mio che mi succede anche con le persone, 
                  vi dirò. Magari succede così anche a Simone, magari 
                  non sempre – ma quelle volte che gli succede lui a quel 
                  sentirsi un po' così ci scrive intorno delle canzoni. 
                  Simone, che fa un disco meraviglioso e lo avvolge con una copertina 
                  grigia venuta fuori un po' sfocata, un po' persa, tipo avete 
                  presente quando sta per arrivare la nebbia, ecco.  
                   
                  Contatti: se seguite il link a Bandcamp che ho riportato più 
                  sopra, oltre che ascoltare il primo disco e la cassetta di Des 
                  Moines potete anche scrivergli cliccando sul posto giusto, presumo 
                  sia il modo più facile per richiedere informazioni e 
                  magari comprare una copia del cd, o chiamarlo a suonare dalle 
                  vostre parti. Vi invito anche a un giro sul suo canale YouTube 
                  dove, fra le altre cose, ha postato una versione groppoingola 
                  di “In Christ there is no East or West” catturata 
                  da un telefonino nel giorno del compleanno di John Fahey. 
                 
                CTRL 
				 Guarda 
                  un po' come vanno le cose. Quest'estate Lucia ed io torniamo 
                  per un paio di settimane in Sicilia, arriviamo a Catania e ci 
                  prendiamo un paio di giorni per rivedere amici e compagni e 
                  ritornare nei posti che ci piacciono. Fra questi una libreria 
                  minuscola, si chiama Vicolo Stretto ed è facile trovarla 
                  – uno di quei posti di cui ci si innamora, un posto da 
                  dove poi esci e ti ritrovi in tasca la voglia di tornarci come 
                  fosse sabbia fina dopo un pomeriggio a camminare col vento in 
                  riva al mare. 
                  In libreria prendo una rivista, una di quelle che non ho mai 
                  visto in giro su da noi – no, dico meglio: in quei posti 
                  dove gironzolo abitualmente. Penso che sia una produzione locale, 
                  ma mi sbaglio di grosso: ho preso a Catania una rivista pensata 
                  e fatta a Bergamo! Si chiama CTRL, praticamente come il tasto 
                  che sta qui in basso a destra sulla tastiera mentre scrivo. 
                  In quei giorni passati in Sicilia l'ho letta tutta, poi una 
                  volta a casa mi sono messo a ficcanasare e ho scoperto che quella 
                  che io credevo una “rivista” è invece il 
                  punto di arrivo e insieme di ripartenza editoriale di un progetto 
                  precedente.  
                  Copio adesso da qualche parte del loro sito: “(...) CTRL 
                  magazine è una rivista che nasce gratuita e cazzara. 
                  E dopo 3/4 anni diventa adulta e migliore, rimanendo cazzara 
                  e gratuita. Distribuita a Bergamo, con incursioni a Brescia 
                  e Milano, gioca con i concetti di “altezza culturale” 
                  e “bassezza”, e li mescola senza ritegno, ma con 
                  un impegno profondo e una tensione ostinata verso la qualità. 
                  Mescola letteratura, arte, cinema, interviste e pornografia 
                  e recensioni di messe, ad esempio...”. Purtroppo per me, 
                  non ho mai letto e guardato i numeri precedenti ma, diversamente 
                  da quanto raccontano e soprattutto stando all'idea che mi sono 
                  fatto partendo dalla coda di questo ultimo numero, non mi sembra 
                  affatto una rivista cazzara. 
                  Questo numero speciale di CTRL si chiama “Stiamo scomparendo” 
                  e racconta un viaggio nell'Italia in minoranza, anzi dico meglio 
                  cinque viaggi nelle zone dove si parlano il walser, l'arbëreshë, 
                  il grico, l'occitano e il tabarchino, cioè in alcuni 
                  di quei posti in Italia dal Salento fino alle valli sopra Vercelli 
                  dove la lingua madre non è l'italiano. Si tratta di reportage 
                  brevi ma intensissimi, sembrano racconti di quelli che mentre 
                  li leggi ti entrano dentro in casa senza bussare e si sistemano 
                  tranquilli in salotto a rovistare la tua raccolta di libri e 
                  dischi, roba da far alzare il sopracciglio del tuo professore 
                  che ti aveva commissionato una ricerca e tu gli porti invece 
                  una scatolone stracolmo di incontri, di avvicinamenti, di persone, 
                  di ritratti, di sguardi, di teste che pensano, di vite che vanno 
                  avanti e mani che si stringono. Lavori fatti così sono 
                  come fari accesi per capire dove si sta andando, sono come cannocchiali 
                  per avvicinare l'orizzonte. Fatene presto un altro, e altri 
                  ancora – per favore. 
                  Mi sembrava sbagliato appiccicare per forza dei suggerimenti 
                  per una qualche colonna sonora: “Stiamo scomparendo” 
                  mi sembra più un affare di silenzi, di basso volume, 
                  di frequenze sotterranee come vibrazioni appena sotto la soglia 
                  dell'udibilità. E invece Lucia è tornata a casa 
                  giusto l'altro ieri con un cd meraviglioso: “Eschandihà 
                  de vita” (ed. Felmay) di Silvio Peron, cuneense organettista 
                  (lui preferisce dirsi sounàdur) ma anche cantastorie. 
                  Se vi aspettate le cose occitane di sempre siete fuori strada: 
                  queste sono canzoni di oggi che affondano sì le radici 
                  nel passato, ma che fioriscono gioiosamente scombinando i foglietti 
                  del calendario, abitate da danze e cantate nella variante linguistica 
                  propria della zona di ciascuno dei protagonisti. 
                
                 La storia in copertina racconta un'esperienza di trent'anni 
                  fa, quando Silvio aveva accompagnato come animatore un gruppo 
                  di anziani della Val Stura ad un soggiorno al mare: tra questi 
                  Petou, quasi ottant'anni, che il mare non l'aveva mai visto 
                  ed è corso ad assaggiare l'acqua per vedere se era salata 
                  per davvero come gli avevano raccontato. 
                
                   
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                    |   La 
                        cover di “Eschandihà de vita”  | 
                   
                 
                Contatti: www.ctrlmagazine.it, 
                  Silvio Peron lo raggiungete qui silvio@peronsemiton.it. 
                Marco Pandin 
                  stella_nera@tin.it                
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