Donne/ 
				Una pittrice siciliana e le sue innovazioni 
                Il volume di Luisa Maria Leto, Lia Pasqualino Noto. L'artista 
                  che sfidò il suo tempo (Navarra, Palermo 2018, pp. 
                  160, € 15,00) documenta le vicende umane e artistiche di 
                  un'importante pittrice siciliana del secolo scorso: e lo fa 
                  servendosi di fonti già note ma anche di un prezioso 
                  e inedito epistolario che testimonia la ricca trama degli interessi 
                  e delle relazioni di una straordinaria donna siciliana che, 
                  giovanissima, s'impone nella scena artistica della sua città, 
                  Palermo, per la sua bravura e per la sua capacità di 
                  superare in modo originale i vecchi schemi formali e contenutistici 
                  della pittura ottocentesca. 
                   A 
                  cavallo degli anni '20 e '30, infatti, Lia Pasqualino Noto (1909-1998) 
                  espone con successo le sue opere e promuove, a Palermo, mostre 
                  di importanti artisti di fama nazionale e internazionale, col 
                  plauso e il sostegno del già noto e stimato pittore futurista 
                  Pippo Rizzo. La sua ansia di novità e la sua insofferenza 
                  verso la tradizione (peraltro diffidente verso le donne artiste) 
                  ha trovato modo di venir fuori liberamente, nella frequentazione 
                  di intellettuali e creativi: tra questi vi è il giovane 
                  medico Guglielmo Pasqualino, che diventerà suo marito 
                  e vi sono anche gli artisti Renato Guttuso, Nino Franchina e 
                  Giovanni Barbera, con i quali dà vita ad un sodalizio, 
                  stimolante e fruttuoso per la sua produzione pittorica improntata 
                  ad un rinnovato figurativo, che le darà notorietà 
                  nazionale. 
                  I suoi lavori, però, dopo esaltanti momenti di entusiastica 
                  accoglienza, diventeranno sempre meno ricercati ed esposti, 
                  quando nel secondo dopoguerra le correnti astrattiste della 
                  pittura italiana conquisteranno i favori della critica, le gallerie, 
                  il pubblico. Un ritorno in auge della Pasqualino Noto si avrà 
                  negli anni '60 e '70, grazie ad una serie di mostre antologiche 
                  in varie città italiane, da Palermo a Milano, che ripercorreranno 
                  l'itinerario artistico della pittrice siciliana, accompagnate 
                  ovunque dai rilievi positivi dei critici. In occasione di una 
                  mostra di quel periodo, esattamente del '74, Raffaele De Grada 
                  scrive: “le necessità del mercato hanno spinto 
                  molti artisti all'alienazione. 
                  Come a una catena di montaggio essi fabbricano quadri su quadri. 
                  La critica esercita poi una specie di supervisione del lavoro 
                  fatto, ma si sa bene come i critici, non per colpa loro, non 
                  siano spesso a loro volta espressione di una opinione pubblica, 
                  ma piuttosto di correnti di potere e di mercato. Così 
                  può capitare che una personalità come quella della 
                  Pasqualino Noto possa essere ancora oggi ignorata da gran parte 
                  del pubblico italiano, anche se chi ha una conoscenza effettiva 
                  della storia recente dell'arte italiana, ricorda bene il nome 
                  di Lia Pasqualino come uno di quelli che parteciparono al rinnovamento 
                  dell'arte italiana negli anni Trenta, quando dalla tecnica pesante 
                  del novecentismo si passò a una logica diversa del colore 
                  e della forma. 
                  Raccogliendo gli esperimenti degli anni Venti, la Pasqualino 
                  cercò a sua volta una pittura più libera e più 
                  adatta ad esprimere non più il modello di studio ma i 
                  rapporti perfino stridenti negli accostamenti che venivano da 
                  un'analisi aperta del paesaggio siciliano e della figura nel 
                  paesaggio, con tutto lo studio di inusitati rapporti cromatici 
                  che venivano da accumuli di stoffe o da composizioni di oggetti. 
                  Questa ricerca delle dissonanze, che non può non suggerire 
                  paragoni con fenomeni consimili, per esempio la dodecafonia, 
                  in altre arti, è continuata dalla Pasqualino fino ad 
                  oggi quando certe nature morte nella loro apparente casualità 
                  rivelano invece un metodo quasi matematico sperimentale nell'accostamento 
                  dei colori”. 
                  De Grada riscattava così da un ingiusto oblio la pittrice 
                  siciliana, coraggiosa nelle sue innovazioni, nell'arte come 
                  nella vita – come ben evidenzia la biografia della Leto 
                  – avendo dovuto lottare sempre, per potersi esprimere 
                  liberamente come donna e come pittrice, contro tenaci e retrogradi 
                  retaggi maschilisti e autoritari: in questo sostenuta e confortata 
                  dal marito, proprietario e direttore di una clinica privata 
                  a Palermo che negli anni ostili e tetri del fascismo diede rifugio 
                  ad ebrei e perseguitati politici: tra questi vi fu “un 
                  personaggio notevole che trovò riparo in clinica: l'anarchico 
                  Paolo Schicchi, che a causa delle sue idee e dei suoi comportamenti 
                  era stato condannato a dieci anni di reclusione, di cui quattro 
                  al confino, prima a Ponza e poi a Ventotene” come rivela, 
                  nel suo libro, la Leto, che trascrive la testimonianza diretta 
                  ed inedita di Beatrice Gagliardo di Carpinello Pasqualino, figlia 
                  della pittrice, che dell'anarchico Schicchi conserva sicura 
                  memoria e così ne racconta: “Schicchi era molto 
                  anziano e fiero della sua vita da ribelle. 
                  Avendo avuto bisogno di un intervento chirurgico lo avevano 
                  portato in clinica. Due poliziotti gli facevano sempre da guardia. 
                  Una volta guarito si raccomandò a mio padre perché 
                  non voleva tornare sull'isola: non se la sentiva. Mio padre 
                  dichiarò che le sue condizioni di salute non gli consentivano 
                  di tornare al confino e che sarebbe stato imprudente perché 
                  aveva ancora bisogno di molte cure. Ottenne il permesso e per 
                  molto tempo le guardie continuarono a venire per controllarlo 
                  ma poi a un certo punto non vennero più. Paolo Schicchi 
                  rimase da noi per tutta la sua vita: aveva in clinica una minuscola 
                  stanzetta che le suore riempivano di immaginette con la Madonna 
                  e tutti i santi, sperando di riportarlo sulla via della fede, 
                  lui, che era un terribile mangiapreti”. 
Silvestro Livolsi 
                 
                     
                Tecnologie/ 
				Come una chiave inglese piantata nel terreno non potrà mai crescere 				
				Ci sono libri, come questo, che servono da mappe per riuscire 
                  a orientarci meglio nel mondo in cui viviamo, ma che nello stesso 
                  tempo fanno molto di più: cambiano il nostro modo di 
                  guardare le cose. Tecnologie radicali di Adam Greenfield 
                  (Einaudi, Torino 2017, pp. 336, € 22,00), ci porta nel 
                  cuore di una trasformazione in corso che ha già cambiato 
                  in profondità la nostra vita quotidiana e il nostro modo 
                  di fare esperienza del mondo. Intanto che cos'hanno di speciale 
                  le “tecnologie radicali”? In breve si potrebbe dire 
                  che colonizzano e rimodellano la nostra vita quotidiana a partire 
                  da una sempre più imponente serie di dati raccolti da 
                  una rete sempre più fitta di dispositivi. 
                   L'esempio 
                  sotto gli occhi (e tra le mani) di tutti è lo smartphone 
                  con cui lasciamo continuamente traccia dei nostri spostamenti, 
                  dei siti che frequentiamo, delle nostre preferenze. Ma lasciamo 
                  tracce anche usando il computer, andando al bar a prendere il 
                  caffè ripresi da telecamere ovunque, usando bancomat: 
                  per dirla in modo drastico, anche grazie a queste tecnologie 
                  radicali siamo in una società del controllo così 
                  capillare che nessuno stato prima d'ora avrebbe potuto mai neanche 
                  sognare di realizzare. Il punto più avanzato è 
                  forse il sistema del credito sociale cinese: sulla base dei 
                  dati il governo può punire, incentivare i cittadini che 
                  si comportano bene o male attribuendo loro un punteggio positivo 
                  o negativo a seconda delle azioni che compiono1. 
                  Uno degli aspetti più interessanti che l'autore tocca 
                  è quello del riutilizzo da parte del dominio di tecnologie 
                  che erano state pensate in un'ottica di decentralizzazione, 
                  di democrazia diretta, addirittura di “anarchismo planetario”. 
                  Certo è facile smascherare come fa Greenfield il lato 
                  destro di un certo libertarismo. A proposito della piattaforma 
                  Ethereum creata dal mitico Victor Buterin, come rielaborazione 
                  del modello della Blockchain2, 
                  al cui interno si possono creare “organizzazioni decentralizzate 
                  autonome” (acronimo Dao che suona molto bene), 
                  che dagli entusiasti vengono proposte come il futuro dell'organizzazione 
                  politica dal basso, scrive Greefield: “a fare da forte 
                  contrasto a queste aspirazioni non ci sono solo il forte accento 
                  messo sulla proprietà e una certa definizione dei diritti 
                  di proprietà...” 
                  É il wishful thinking (“pia illusione”) di 
                  chi vuole vedere nella tecnologia ciò che non riesce 
                  a realizzare nella realtà: “Vogliamo credere nella 
                  possibilità di una tecnologia che rivendichi nuovi potenti 
                  mezzi per l'azione collettiva, al di fuori del controllo dello 
                  Stato; siamo affascinati dall'idea che, una volta ricostituiti 
                  in un Dao, comitati di quartiere e gruppi di affinità 
                  possano intervenire nel mondo con la concretezza, l'efficacia 
                  e la continuità di qualsiasi altra impresa o organismo 
                  pubblico” 
                  Prima decidiamo cosa vogliamo, poi organizziamoci per ottenerlo 
                  e qualche volta alcune tecnologie ci saranno d'aiuto per ottenere 
                  ciò che abbiamo progettato: “se vogliamo contestare 
                  il potere dello Stato, occorrerà compiere passi concreti 
                  per rivendicare localmente il potere decisionale, anziché 
                  sperare che qualcuno rilasci il codice di una struttura autonoma 
                  che renda istantaneamente obsoleti gli Stati”. 
                  C'è un'altra questione interessante, toccata dall'autore. 
                  Tendiamo facilmente a dimenticare che dietro alle interfacce 
                  amichevoli c'è pur sempre una sequenza (lunga quanto 
                  si vuole) di 0/1 che rende senza alcun dubbio queste tecnologie 
                  più efficaci ma poco attente alle sfumature, alle contingenze 
                  e agli imprevisti. Non basta aggiungere una spruzzatina di fuzzy 
                  logic per cambiare questi assunti di base sottesi alla tecnologia 
                  contemporanea: “la vita quotidiana è qualcosa che 
                  dev'essere mediata da processi di misurazione, analisi e controllo 
                  messi in rete... l'accesso alle risorse e alle opportunità 
                  determinanti può essere equamente ripartito da un algoritmo... 
                  il discernimento umano non risulta più essere adeguato 
                  alle sfide della complessità che ci presenta il mondo”. 
                  Il bello è che raggiunto un certo grado di complessità 
                  negli algoritmi genetici, nessuno è più in grado 
                  veramente di capire il perché di certe scelte. “ 
                  Molti dei sistemi che già stiamo usando ogni giorno funzionano 
                  in modi che i loro progettisti non capiscono completamente”. 
                  Il che ci porta a uno dei tanti paradossi di questo mondo quotidiano: 
                  tanto più diventiamo potenti tanto meno capiamo come 
                  e perché, e tantomeno per quali scopi più generali. 
                  Solo per alcuni “visionari” lo scopo finale sembra 
                  essere chiaro: “trasvalutazione finale di tutti i valori 
                  messa in atto da un codice autonomo che si auto-esegue su una 
                  rete distribuita e globale di dispositivi di calcolo”. 
                  È l'ideologia transumanista dell'irrilevanza umana di 
                  fronte a cui ogni limite fisico, materiale carnale sembra dissolversi, 
                  la stupida intelligenza e arroganza. 
                  Greenfield ci spinge a riflettere su ciò che è 
                  veramente importante per noi: l'IA ad esempio ci porta a indagare 
                  ciò che ci sembra irriproducibile da una macchina (un 
                  silenzio nell'esecuzione di un brano di Chopin, l'emozione che 
                  danno certe frasi apparentemente anodine nei romanzi di Elisabeth 
                  Strout, lo spazio del colore in una tela di Rothko). 
                  Ma tutto questo sembra finito. Chi non vorrebbe ascoltare la 
                  prossima toccata di Bach, o guardare il prossimo quadro di Rembrandt?3 
                  Ma nello stesso tempo sentiamo che c'è qualcosa di osceno 
                  in questi desideri, una sorta di necrofilia da una parte e una 
                  bulimia incolmabile dall'altra. Perché non dovremmo accontentarci 
                  del Bach (immenso) che abbiamo? E se pure ci sono rimasti pochissimi 
                  quadri di Vermeer perché non dovrebbero bastarci? Perché 
                  non si riesce a vedere nel limite qualcosa di grande? Perché 
                  la tecnologia nutre l'onnipotenza infantile, certo. 
                  C'è qualcosa di più, la nascita di un potere senza 
                  sapere, di un'intelligenza meccanica che oltrepassa le capacità 
                  di comprensione umana. E il futuro dietro l'angolo è 
                  nell'integrazione di tutte queste tecnologie radicali in un 
                  modo che non solo ne aumenta enormemente la potenza e la capillarità, 
                  ma che apre scenari impensati e porta a una concentrazione del 
                  potere prima impossibile. 
                  Dai piccoli e apparentemente ormai insignificanti oggetti che 
                  popolano il nostro paesaggio quotidiano l'autore arriva alla 
                  fine del libro a disegnare una serie di scenari globali, egualmente 
                  possibili ma non egualmente desiderabili. E ci mostra in modo 
                  convincente “che possiamo capire quello che davvero fanno 
                  le tecnologie e in che modo funzionano veramente soltanto se 
                  siamo in grado di fare un passo indietro e di soppesare le conseguenze 
                  per tutti gli ecosistemi sociali e naturali ai quali sono legate”. 
                  Un libro acuto e sottile, capace di una critica radicale ma 
                  non tecnofobica della tecnologia che pone sul tavolo con chiarezza 
                  questioni così rilevanti che dovrebbero occupare il primo 
                  posto nella nostra agenda, mentre ci occupiamo delle chiacchiere 
                  da talk show. 
                  Un sano esercizio materialista che ci invita a prendere le distanze 
                  da un pericoloso determinismo tecnologico guidato da forze impersonali 
                  e come un destino cinico e baro destinato a illuderci e a fregarci. 
                  Con in più, e non è poco, l'idea che tutti debbano 
                  almeno cercare di comprendere le poste in gioco della trasformazione 
                  in corso e non solo un gruppo di criptoesperti. Nelle ultime 
                  righe, senza trionfalismi e con tremore, Greenfield afferma 
                  che “un'epoca di tecnologie radicali richiede una generazione 
                  di tecnologi radicali” ma in questo processo siamo tutti 
                  implicati e che anche in questo caso abbiamo bisogno di cambiare 
                  la direzione dello sguardo, dalle vetrine scintillanti ai germi 
                  di modi di vivere alternativi, “semi di futuri possibili, 
                  semi che con impegno e cura potrebbero crescere e diventare 
                  un modo di vivere insieme sulla Terra più saggio, equilibrato, 
                  più giusto e più generoso”. 
				Filippo Trasatti 
				
- Adam Greenfield, Tecnologie radicali, tr. it. M. Nicoli et al., Einaudi, Torino 2017, p. 300s.
 - Troppo complicato da spiegare, chiedete a Ippolita. Oppure leggete la voce “Blockchain” in Ippolita, Tecnologie del dominio, Meltemi.
                  
 - So che non ci credete, ma guardate qui https://www.youtube.com/watch?v=IuygOYZ1Ngo. 
                    E ascoltate la conferenza del capo progettista https://www.youtube.com/watch?v=vxXb4BsEHPY. 
                
  
                
  
                     
                Basaglia misconosciuto/ 
				Psichiatria della miseria o miseria della psichiatria? 				
				Benedetto Saraceno in un libro dal titolo perfetto - Sulla 
                  povertà della psichiatria (Derive Approdi, Roma 2017, 
                  pp. 192, € 18,00) mette a fuoco le principali distorsioni 
                  al pensiero di Basaglia che ne hanno inficiato la diffusione 
                  e la conoscenza e l'applicazione pratica non solo in Italia 
                  ma nel resto del mondo. Distorsioni del suo pensiero che l'hanno 
                  erroneamente assimilato a un antipsichiatra, a un ideologo, 
                  perfino a un filantropo. 
                   Quanta 
                  distanza, invece, tra il pensiero e l'azione radicalmente antipsichiatrica 
                  di Laing e Cooper, mai agganciati a una prassi di liberazione 
                  e trasformazione collettiva, e senza ricadute concrete sulla 
                  legislazione psichiatrica del proprio paese, rispetto all'impresa 
                  basagliana che invece è “sopravvissuta alla sua 
                  morte” e che le ha avute eccome le ricadute legislative. 
                  Quanto è lontano Basaglia dalla “santificazione 
                  del folle” e dalla quasi identificazione dello psichiatra 
                  col malato, laddove i due – Laing e Cooper – arrivano 
                  a dividersi lo spazio – Kinksley Hall o Villa 21 – 
                  “salvo poi perire entrambi, antipsichiatra e paziente”. 
                  I due antipsichiatri che, scrive Saraceno, sono più vicini 
                  alla “tragedia di Artaud che alla battaglia di Basaglia”. 
                  Basaglia non è interessato a santificare il folle, ma 
                  a farlo uscire “dall'ozio dello statuto di matto” 
                  per farlo “rientrare nel neg-ozio dell'inclusione sociale 
                  e dei diritti”. 
                  Basaglia – ancora Saraceno – non fu ideologo. Fu 
                  un nemico dei modelli codificati, fu un trasformatore della 
                  realtà, senza mai fermarsi su un modello che potesse 
                  diventare la nuova tecnica, per questo motivo ricusò 
                  perfino la comunità terapeutica. Non ideologo ma pienamente 
                  scienziato, dove i suoi laboratori di trasformazione furono 
                  i manicomi di Gorizia e di Trieste. Non antipsichiatra non ideologo 
                  non filantropo. È sterile fare di Basaglia un filantropo 
                  indignato per la puzza di manicomio, per la condizione di internato 
                  del malato. La sua è pratica di trasformazione della 
                  realtà. Laddove il fenomenologo che lui accantona – 
                  non del tutto, lo radicalizza, semmai – e i fenomenologi 
                  del suo tempo, molti dei quali dirigevano manicomi senza discuterli, 
                  trovandoli sempre naturali – come la maggior parte 
                  dei fenomenologi del nostro tempo – sono splendidi inarrivabili 
                  narratori della realtà del folle, narratori ma non trasformatori, 
                  egli decise che questa realtà dovesse essere urgentemente 
                  trasformata, prima ancora che narrata. 
                  Purtroppo, il pensiero basagliano, proprio per questo equivoco 
                  che connota Basaglia antipsichiatra ideologo e filantropo, a 
                  parte alcuni paesi, è misconosciuto. Vi sono paesi, nel 
                  mondo, alcuni contaminati direttamente dall'esperienza basagliana 
                  – come il Brasile, memore delle sue conferenze – 
                  altri in maniera indiretta, che stanno mettendo in atto processi 
                  di riforma, trasformazione, sviluppo, dei servizi di salute 
                  mentale, con spostamento del focus dell'intervento dall'ospedale 
                  al territorio. Ma nella maggior parte del mondo non vi è 
                  alcun processo di trasformazione nell'assistenza psichiatrica, 
                  se non aumentare enormemente la spesa sanitaria destinata all'acquisto 
                  dei costosissimi psicofarmaci di nuova generazione – e 
                  quanto è ignorante e in malafede questa politica, se 
                  si considera che a un costo sì tanto elevato dei nuovi 
                  farmaci non corrisponde una proporzionale efficacia? – 
                  domina il modello manicomiocentrico, oppure resta centrale l'ospedale 
                  generale a fronte di una limitata cura territoriale. 
                  Questo succede nel mondo. Di questo ci dice il libro di Benedetto 
                  Saraceno Sulla povertà della psichiatria. Il titolo 
                  è bello, è puntuale. La povertà con la 
                  psichiatria c'entra, c'entra sempre. Perché la psichiatria 
                  è, essa stessa, povera. Povera quanto a epistemologia. 
                  Una tecnica che si spaccia per scientifica ma che è arrogante, 
                  e impoverisce molti psichiatri stessi che compiono, nonostante 
                  lei, nonostante la psichiatria, nonostante debbano dichiararsi 
                  psichiatri, un lavoro enorme con i pazienti. La povertà 
                  c'entra con la psichiatria perché dove c'è povertà 
                  c'è sofferenza psichica. Diceva Basaglia che il manicomio 
                  è l'ospizio dei poveri. In manicomio ci finisce chi non 
                  ha, perché il non avere risorse economiche lo fa non 
                  essere. Saraceno per dieci anni (1999-2010) ha diretto il dipartimento 
                  di salute mentale e abuso di sostanze dell'OMS, per cui ha una 
                  visione planetaria come pochi del rapporto tra sofferenza psichica 
                  e povertà. Nel suo libro evidenzia la diversa aspettativa 
                  di vita tra un indiano un filippino e uno scozzese, i primi 
                  due muoiono circa venti anni prima. Nei paesi poveri si vive 
                  meno, e questo si sa. In realtà sono i poveri che vivono 
                  di meno. A Glasgow un abitante di un quartiere povero vive quasi 
                  trent'anni meno di un abitante di un quartiere ricco. Non è 
                  il paese, dunque, ma la povertà nell'ambito dello stesso 
                  paese a fare la differenza. Stesso discorso per la salute mentale. 
                  Povertà, disuguaglianze sociali, scarsa educazione e 
                  debiti sono fattori di rischio per depressione, abuso di alcol 
                  e droghe, suicidio, e altri disturbi psichici. 
                  Stabilito che ci si ammala di più in povertà, 
                  il dato che riporta Saraceno è che se nei paesi poveri 
                  il 70% dei disturbi psichici non riceve una cura, nei paesi 
                  ricchi tuttavia la percentuale non è molto meglio, perché 
                  è il 50% che non viene curato. 
                  Il dato interessante è che quando le persone ricevono 
                  le cure psichiatriche, sia nei paesi ricchi che poveri, queste, 
                  soprattutto per i casi più gravi – quelli che danno 
                  luogo a un ricovero – spesso sono umilianti, degradanti, 
                  disumanizzanti, lesive di diritti e dignità. La psichiatria 
                  hard dei paesi ricchi – anche se si attua in ospedali 
                  belli e attrezzati – è repressiva e concentrazionaria 
                  come la psichiatria hard dei paesi poveri. Come se la poca attenzione 
                  alla dignità e ai diritti umani fosse un dato intrinseco 
                  alla cultura psichiatrica, che non cambia a seconda che si applichi 
                  in Francia o in Marocco. Chiosa Saraceno: “C'è 
                  da chiedersi se sia meglio restare non trattati, se essere trattati 
                  significa essere mal-trattati”. 
                  Continuo a dialogare a distanza con Saraceno attraverso il suo 
                  libro. Domanda: perché i processi di deistituzionalizzazione 
                  e presa in cura territoriale sono più complicati nelle 
                  città, quanto più grandi sono? Risposta: perché 
                  le grandi città sono “acceleratori di contraddizioni”. 
                  La sfida, qui, è rappresentata da “tre gruppi”: 
                  i giovani marginali che “sfidano il comune senso 
                  dell'ordine, della sicurezza” e vengono “fantasmizzati” 
                  e stigmatizzati dalla comunità egemone, le persone 
                  con disturbi psichici e i tossicodipendenti, che pure “sfidano 
                  la ragione comune e creano allarme”, e pure essi sono 
                  temuti come pericolosi, infine gli immigrati, che con 
                  le loro razze, lingue, religioni diverse alimentano pulsioni 
                  xenofobe e miti razzisti. Pertanto: marginali, matti e drogati, 
                  immigrati, rappresentano gli esclusi dalla città. Come 
                  fare per includerli? Come incorporare di nuovo questi vomitati 
                  dalla società? 
                  Basaglia, con la sua critica all'ideologia escludente del manicomio, 
                  con la sua accusa dei luoghi a parte pensati apposta per escludere 
                  i miserabili – e la miseria di “chi non ha non è” 
                  – il pensiero lungo di Basaglia continua a esserci d'aiuto. 
                  Domandarsi, scrive Saraceno, se un soggetto debole, per poter 
                  rientrare nella negoziazione, ovvero nel luogo dello scambio, 
                  debba diventare per forza forte, o invece può riuscirci 
                  anche da debole. Uno dei miti della riabilitazione psichiatrica 
                  è l'autonomia, il paziente che riesce a conseguire l'autonomia 
                  viene premiato, assecondando un modello riabilitativo darwiniano. 
                  Saraceno propone un diverso modello di riabilitazione, dove 
                  l'obiettivo non sia l'autonomia ma la partecipazione: non far 
                  sì che i deboli diventino forti e dunque autonomi, ma 
                  che i deboli possano stare insieme ai forti pur restando deboli. 
                  E propone alcuni principi, su cui costruire l'inclusione sociale 
                  dei deboli e dei poveri e degli esclusi. Tre assi. 
                  Anzitutto l'abitare. Lavorare per includere l'escluso 
                  non può non cominciare dal provvedere a una casa dove 
                  abitare. Questo, quando si decide la terapia del paziente, pillole 
                  o colloqui, sembra marginale. I malati psichici quando sono 
                  gravi o acuti o cronici quasi sempre non abitano case ma “stanno” 
                  in luoghi anomici, negli innumerevoli non luoghi della psichiatria, 
                  SPDC ospedalieri cliniche private o convenzionate residenze 
                  comunità perfino dormitori, luoghi dove si sta, sopra 
                  o attorno a un letto, non si abita. 
                  Non si può non cominciare un progetto terapeutico eliminando 
                  inconsciamente l'abitare. Stare si sta anche in carcere o su 
                  una barella di pronto soccorso. Si sosta. Abitare significa 
                  casa, casa è dopo la pelle una seconda pelle che struttura 
                  l'io di una persona. Mettiamo uno psicotico, senza confini dell'io, 
                  quanto può sentirsi scoperto, a sostare in un luogo dove 
                  ha solo un letto. Quanto può sentirsi alla mercé 
                  del mondo? Trasparente, esposto. “Tutti mi sentono” 
                  mi diceva una ragazza che sentiva le voci. Una casa è 
                  una seconda pelle, è una difesa, una corazza che rinforza 
                  una fragile identità. 
                  I programmi detti di housing first, pensati apposta per 
                  dare a persone con disturbi psichici o senza casa una casa, 
                  sono di per sé terapeutici. Perché la casa deve 
                  essere data anche se la persona rifiuta le cure, non come premio 
                  ricompensa per la sua adesione alle cure. Perché la casa 
                  gli spetta anche se non decide di divezzarsi da alcol e droghe. 
                  Nella prospettiva che con una casa, e con una ritrovata contrattualità 
                  sociale, l'adesione a un programma terapeutico o il divezzamento 
                  da alcol e droghe sarà possibile, o verrà da sé. 
                  Altro principio dell'inclusione è scambiare le identità. 
                  Cosa significa. Significa relazioni. Non necessariamente terapeutiche. 
                  Relazioni e basta. Significa vivere l'agorà. Scambiare 
                  parole con altre persone. Significa il mercato, cioè 
                  il luogo dove si fa il neg-ozio, dove si combatte si vince si 
                  antagonizza l'ozio, l'ozio che è solitudine che è 
                  ripiego nel mondo proprio, l'idios kosmos eracliteo, 
                  il mercato l'agorà è il luogo dove può 
                  declinarsi il koinos kosmos, antidoto alla vita psicotica. 
                  Ecco che se un luogo così non c'è, un servizio 
                  di salute mentale non medicale lo crea. Ne rappresenta un eccellente 
                  surrogato. Così, raccontano Franco Rotelli e Peppe Dell'Acqua, 
                  era stato concepito il centro di salute mentale triestino, luogo 
                  di scambio, non ambulatorio dove si erogano tecniche, psicoterapie 
                  o farmaci o pensioni, ma mercato, souk, piazza, bar, centro 
                  sociale, luogo sempre aperto anche di notte perfino a Natale 
                  e Capodanno dove trovare qualcuno con cui mettere in gioco la 
                  propria identità. 
                  Altro principio per l'inclusione è il lavoro. 
                  Lavoro come mezzo di guadagno, di sostentamento, di autorealizzazione. 
                  Mai più l'ergoterapia che nella maggior parte dei centri 
                  diurni luogo di parcheggio propaggini manicomiali ancora si 
                  eroga sotto forma di fabbrica di ceramiche bricolage e altri 
                  prodotti da mercatini. Sì alle cooperative sì 
                  alle imprese sociali mai più terapia occupazionale. E 
                  dopo essere stati liberati dal manicomio è necessario 
                  diventare liberi di abitare, di mettersi in gioco, di 
                  scambiare relazioni, di lavorare, di essere cittadini con diritti, 
                  non più utenti infantilizzati. 
                  Insomma, più che riabilitare gli individui, dopo aver 
                  riabilitato, in parte, la psichiatria, occorre riabilitare la 
                  società. Ecco cosa ci racconta, Benedetto Saraceno, in 
                  questo libro necessario. 
				Piero Cipriano 
                 
                     
                Errico Malatesta a Roma (e non solo)/ 
				Atti di un convegno 				
				Il libro curato da Roberto Carocci (Errico Malatesta. Un 
                  anarchico nella Roma liberale e fascista, a cura di Roberto 
                  Carocci, BFS Edizioni, Pisa 2018, pp. 178, € 18,00) nasce 
                  dal convegno “Errico Malatesta. Un rivoluzionario a Roma” 
                  organizzato nel maggio del 2016 dall'Associazione di idee I 
                  refrattari al Cinema Palazzo Occupato a Roma. Il convegno 
                  ha visto una partecipazione di circa 200 persone e “una 
                  tensione che forse nessuno si aspettava e che ha costituito 
                  il fattore più prezioso e più stimolante dell'intero 
                  evento” (p.12). 
                   Il 
                  libro riporta, riviste e ampliate, le relazioni esposte al convegno. 
                  I contributi pongono un'attenzione particolare al rapporto intercorso 
                  tra Malatesta e la città di Roma nel periodo liberale 
                  e durante la dittatura fascista, ma al tempo stesso esplorano 
                  questioni più profonde: il rapporto tra anarchici e il 
                  movimento operaio, la questione della violenza e del suo utilizzo, 
                  le forme di resistenza allo squadrismo, le interpretazioni e 
                  le letture che gli anarchici hanno dato del fascismo e della 
                  sua dittatura. Si tratta di interventi che pongono domande e 
                  indicano spunti per ulteriori ricerche, oltre a suggerire connessioni 
                  con temi di estrema attualità, e questo è uno 
                  dei punti di forza di questa pubblicazione. 
                  Nel primo contributo Carocci offre un'utile panoramica delle 
                  idee di Malatesta sul rapporto degli anarchici con il movimento 
                  operaio e con le organizzazioni sindacali sottolineando come 
                  Malatesta, pur critico delle teorie sindacaliste (si veda il 
                  dibattito con Monatte sullo sciopero generale al congresso anarchico 
                  di Amsterdam del 1907) sia un forte sostenitore della partecipazione 
                  degli anarchici all'associazionismo operaio. Il pezzo si sposta 
                  poi sul rapporto di Malatesta con il movimento anarchico romano 
                  ed offre diversi spunti di riflessione. Il primo è la 
                  raccomandazione di usare cautela quando si investigano le divisioni 
                  all'interno del movimento anarchico romano su questioni di principio 
                  come la partecipazione alla lotta elettorale, una esortazione 
                  che va estesa anche ad altre realtà come quelle delle 
                  comunità anarchiche all'estero poiché il movimento 
                  anarchico era comunque molto fluido e spesso a forti divisioni 
                  si sovrapponevano anche forme di collaborazione. Un altro elemento 
                  di riflessione, sia dal punto di vista storico ma anche della 
                  militanza, che emerge anche nel contributo di Gentili, è 
                  la capacità di Malatesta di legare e costruire rapporti 
                  strettissimi con gli abitanti dei quartieri dove viveva, non 
                  solo a Roma, ma anche per esempio ad Ancona o a Londra dove 
                  fu la mobilitazione popolare del quartiere di Islington ad impedirne 
                  la deportazione nel 1912. 
                  Ugualmente stimolante è il contributo di Sacchetti che 
                  analizza l'evoluzione del pensiero di Malatesta sul ruolo e 
                  l'uso della violenza nell'azione rivoluzionaria. Il saggio individua 
                  e analizza i passaggi chiave di questa elaborazione partendo 
                  dal superamento del metodo cospirativo di tradizione risorgimentale 
                  con quello dell'insurrezione di massa teorizzata da Malatesta 
                  nel 1884, per passare al sindacalismo rivoluzionario ed arrivare 
                  dopo l'attentato al Teatro Diana nel 1921 al concetto di “guerra 
                  civile dispiegata”, idea che andava ad agganciarsi anche 
                  all'esperienza degli Arditi del popolo nella lotta contro il 
                  fascismo. Il saggio si sofferma soprattutto sul primo di questi 
                  passaggi chiave focalizzando l'attenzione sui tentativi insurrezionali 
                  degli anarchici italiani negli anni Ottanta e Novanta dell'Ottocento 
                  e discute, necessariamente in breve, il passaggio al sindacalismo 
                  rivoluzionario, il regicidio di Monza, la Settimana Rossa e 
                  l'attentato al Teatro Diana, suggerendo tuttavia diverse aree 
                  da approfondire. 
                  All'interno del saggio Sacchetti sviluppa un'importante riflessione 
                  sull'inadeguatezza del termine “terrorismo” come 
                  strumento analitico e metodologico. Quest'inadeguatezza non 
                  riguarda solo lo studio di Malatesta, ma anche la sua applicazione 
                  al movimento anarchico in generale che, in modo perlomeno discutibile, 
                  è stato recentemente indicato su riviste accademiche 
                  come precursore del terrorismo jihadista e di Al-Qaeda (si vedano 
                  gli articoli sulla rivista “Terrorism and Political Violence”, 
                  20:4, 2008). 
                  Più breve il contributo di Gentili incentrato su Malatesta 
                  e gli Arditi del Popolo che sottolinea lo stretto rapporto che 
                  l'anarchico intrattenne con le sezioni romane dell'organizzazione 
                  antifascista, nonostante vi facessero parte molti ex interventisti 
                  di sinistra e legionari fiumani. Gentili rimarca l'appoggio 
                  che l'anarchico diede al progetto politico-militare dell'arditismo, 
                  a differenza dei dirigenti socialisti e comunisti che ne boicottarono 
                  l'organizzazione e quindi l'efficacia. 
                  L'analisi delle interpretazioni e delle letture che Malatesta 
                  diede del Fascismo e di come combatterlo è il fulcro 
                  del contributo finale che si incentra sull'ultimo decennio della 
                  vita di Malatesta, dal suo trasferimento nella capitale nel 
                  1922 fino alla morte nel 1932. Malatesta, come ricordato anche 
                  nel saggio di Gentili, era comunque un convinto fautore della 
                  necessità di organizzare, sia politicamente che militarmente, 
                  la difesa contro il Fascismo. Bertolucci offre un'acuta analisi 
                  delle letture elaborate al tempo non solo da Malatesta ma anche 
                  da altri esponenti di spicco dell'anarchismo italiano - Fabbri, 
                  Berneri, Bertoni e Borghi - che vedono il Fascismo come prodotto 
                  della Prima Guerra Mondiale, ne denunciano la funzione di “controrivoluzione 
                  preventiva” in difesa degli interessi di industriali e 
                  agrari, e ne intuiscono la natura eversiva e anticostituzionale. 
                  Al tempo stesso il saggio sottolinea anche i limiti di queste 
                  analisi e l'incapacità di comprendere appieno le profonde 
                  differenze del Fascismo dal precedente sistema liberale, come 
                  per esempio la sua capacità nella mobilitazione delle 
                  masse, o nel percepirlo come un fenomeno di carattere temporaneo. 
                  Un punto di interesse che lega il contenuto del libro con la 
                  realtà odierna è la lettura di Malatesta del Fascismo 
                  come caduta etica. Per Malatesta una delle ragioni del successo 
                  del fascismo era dovuta “alla mancata rivolta morale contro 
                  l'abuso della forza brutale, contro il disprezzo della libertà 
                  e delle dignità umana che sono la caratteristica del 
                  movimento fascista” (p. 92). Caduta di carattere etico 
                  e morale che oggi sembrerebbe dilagare di fronte alla questione 
                  dell'immigrazione, del razzismo, della violenza di genere e 
                  che rende evidente quanto difficile sia da contrastare un tale 
                  processo. La seconda parte dell'intervento si sviluppa attorno 
                  al giornale Pensiero e Volontà i cui scritti rappresentano 
                  “il maggior lascito, dal punto di vista teorico” 
                  di Malatesta che “forse possono essere anche interpretate 
                  come una sorta di testamento politico” (p.76). 
                  Il libro si conclude con un'utile appendice – per gli 
                  studiosi e non – dell'indice del giornale Pensiero 
                  e Volontà che permette di avere una panoramica dei 
                  temi trattati nel giornale e dei suoi principali collaboratori. 
                  Il libro è corredato da alcune affascinanti fotografie 
                  che facevano parte della mostra che ha accompagnato il convegno. 
                  La pubblicazione di questo volume offre sia agli studiosi sia 
                  ai lettori che si avvicinano per la prima volta a Malatesta 
                  e al suo pensiero uno stimolante strumento di ricerca e conoscenza 
                  che offre molti spunti di riflessione soprattutto perché 
                  indaga un periodo della vita di Malatesta e il suo rapporto 
                  con la città di Roma che deve essere ancora adeguatamente 
                  studiato. E questo libro rappresenta un ottimo primo passo in 
                  questa direzione. 
				Pietro Di Paola 
                 
                     
                Federazione Anarchica Italiana/ 
				Una storia d'amore e di anarchia 				
				Il corposo volume Con l'amore nel pugno. Federazione Anarchica 
                  Italiana. Storia e documenti (1945-2012) (a cura di Giorgio 
                  Sacchetti, Milano, 2018, Zero in condotta, pp. 367, € 25,00) 
                  ispirato nel titolo a una nota poesia di Leo Ferré è 
                  opera di quattro autori e affronta la storia della terza fase 
                  dell'anarchismo, qui racchiusa cronologicamente tra 1945 (anno 
                  della costituzione della FAI) e 2012 (anno delle mobilitazioni 
                  No MUOS e No terzo valico), attraverso il filo conduttore della 
                  storia della Federazione Anarchica Italiana. Esso si compone 
                  prima di tutto di una Nota del curatore, nella quale 
                  si chiarisce senza indugi oggetto, obiettivo e metodo del volume 
                  – mettere “sotto rigorosa osservazione” la 
                  FAI “in quanto soggetto politico e culturale, archetipo 
                  di sociabilità libertaria del secondo Novecento e in 
                  quanto comunità” (p. 7) tendendo ad una “Storia 
                  reale che deve essere fatta e raccontata anche attraverso fonti 
                  diversificate, «ufficiose» ma vive, raccolte e interpretate 
                  con criteri multidisciplinari” (p. 8) –, e vengono 
                  date al lettore le coordinate necessarie per orientarsi nella 
                  lettura dei tre grandi capitoli “descrittivi” (p. 
                  7) e “corrispondenti ad altrettanti cicli dell'anarchismo” 
                  (p. 9), che seguono. 
                   Il 
                  primo e il secondo capitolo, intitolati rispettivamente Eretici 
                  e libertari. FAI: Dal dopoguerra al Sessantotto (1945-1973) 
                  e I nuovi anarchici. FAI: Dagli anni Settanta alla «fine 
                  del comunismo» (1974-1991) sono opera di Giorgio Sacchetti, 
                  che è anche il curatore del volume. Lasciatosi alle spalle 
                  il buio della guerra e le vicende resistenziali, l'autore riprende 
                  la storia del movimento che ora – scrive – si “rigenera 
                  in una sorta di «neo anarchismo» attraverso contaminazioni 
                  culturali con la sinistra eretica degli anni Cinquanta, con 
                  i movimenti libertari del decennio successivo” (p. 15) 
                  e che tra le questioni salienti che lo attraversano annovera, 
                  appunto, la costituzione della FAI, sin dall'inizio percorsa 
                  da divisioni interne quanto spinte provenienti dall'esterno. 
                  Sacchetti ripercorre così il fitto elenco di congressi, 
                  incontri e discussioni, che acquisiscono corpo e significato 
                  grazie al sapiente intreccio qui proposto con le vicende che 
                  attraversano la storia politica nazionale e internazionale. 
                  Il '68 merita un paragrafo a sé stante: “per la 
                  Federazione è [...] il periodo di metabolizzazione delle 
                  rotture dolorose” e per il movimento il tempo di un evidente 
                  ripiegamento su sé stesso (p. 43), ma “il rapporto 
                  fra «neo-anarchici» e anarchismo otto/novecentesco 
                  si consolida, ed è questa una tappa fondamentale per 
                  future azioni comuni e reciproche «contaminazioni»” 
                  (p. 46), che anticipa la manifestazione di “pratiche libertarie 
                  diffuse che, sebbene non specificatamente promosse dal movimento 
                  anarchico, si dimostrano capaci di coinvolgerlo almeno in parte, 
                  se non di travolgerlo”, con sorprendenti effetti rigeneratori 
                  (p. 49). Il clima incandescente con cui si arriva e che segue 
                  i fatti di Piazza Fontana segnerà una battuta di arresto 
                  per il movimento, che, mantenuto “a tutti i costi [...] 
                  sul banco degli accusati”, ripiega su posizioni difensive 
                  (pp. 57-58), mentre la FAI registra il maggior ricambio generazionale 
                  fra le fila dei suoi militanti attivi ed è costretta 
                  “a ridiscutere le modalità di rapporto sia con 
                  le formazioni dell'estrema sinistra italiana [...], sia con 
                  i gruppi giovanili anarchici stranieri” (p. 65). Con il 
                  1973 – termine ultimo dell'”«età dell'oro» 
                  delle società occidentali” (p. 72) – si apre 
                  il secondo capitolo del volume e “una nuova era del capitalismo” 
                  (p. 72) nella quale “l'occidente si resetta” in 
                  direzione di una globalizzazione mondiale (p. 73). Ma di questo 
                  capitolo mi limito a segnalare il merito di aver dato qualche 
                  spazio a temi di grande impatto sociale riportando, ad esempio, 
                  gli interventi di Aurora Failla e Umberto Marzocchi sulla legge 
                  Fortuna-Baslini, e di aver almeno citato il punto 5 del XIII 
                  Congresso FAI (1977) “Femminismo e suo rapporto con le 
                  lotte sociali” (p. 79), anche se avrebbe meritato qualche 
                  cenno sia la deludente mozione che ne seguì sia le battaglie 
                  politiche delle militanti, in questi anni attente ed attive 
                  guardiane della rivoluzione civile in atto (si vedano al proposito 
                  i documenti 33.1-4 del CD); eccellente anticipazione del capitolo 
                  a venire la ricostruzione di luoghi e momenti delle prime lotte 
                  ecologiche (pp. 93 ss.) che, inaugurate il Italia con il disastro 
                  di Seveso (1976), tanto spazio avrebbero avuto nella storia 
                  più rece te del movimento. 
                  Il terzo capitolo, Libertà, uguaglianza, autogestione. 
                  FAI: Movimenti sociali antiautoritari e globalizzazione (1992-2012), 
                  opera di Massimo Varengo, seguita il racconto a partire dal 
                  1992 con l'apertura della sessione straordinaria del XX Congresso 
                  della FAI, l'inizio della stagione di Tangentopoli, la fine 
                  dell'Unione Sovietica e la caduta del muro di Berlino; è 
                  soprattutto una sfida, prima di tutto storiografica, che rilancia 
                  e anzi alza la posta rispetto alle ultime e nefaste analisi 
                  sul tema. Il movimento, e la FAI, si sintonizzano con le emergenze 
                  politiche del momento e così mentre immigrazione e mondializzazione 
                  diventano gli slogan politici del potere, antirazzismo, ambientalismo, 
                  anticlericalismo e antimilitarismo tornano prepotenti emergenze 
                  dell'attivismo dei militanti anarchici. 
                  Chiudono il volume una utile e puntuale rassegna cronologica 
                  e biblio-documentaria – Cronologia e Bibliografia 
                  e fonti – a cura di Antonio Senta e un corposo apparato 
                  di materiali – Iconografia e Documenti – 
                  offerto ai lettori (insieme al volume in formato pdf) in CD, 
                  con relativo Soggettario per la consultazione, frutto 
                  del paziente e certosino lavoro di Massimo Ortalli e del supporto 
                  tecnico di Claudio Mazzolani; sarebbe a mio avviso utilissimo 
                  mettere on line questi strumenti di lavoro per sfruttarne appieno 
                  il potenziale e invitare alla lettura dei capitoli storiografici. 
                  Curiosa, poi, la sezione intitolata Gli autori, che va 
                  oltre i dati meramente professionali e colloca politicamente 
                  gli autori che ora diventano «osservatori partecipi» 
                  (p. 14) di questa storia, quindi non solo studiosi del movimento 
                  anarchico ma anche soggetti attivi che hanno attraversato e 
                  sono stati attraversati da queste vicende, quindi fonte di studio 
                  essi stessi. 
                  Il volume non è sicuramente di agile lettura, la dovizia 
                  di dettagli con cui vengono descritti gli appuntamenti ed elencati 
                  i temi, del movimento in generale e della FAI in particolare, 
                  possono scoraggiare un lettore svagato, ma è indiscutibilmente 
                  uno strumento seducente per gli appassionati e chi intende approfondire 
                  la storia degli anarchici dal 1945 al 2012. Per questo non limiterei 
                  la sua importanza alla sola analisi della FAI, ma estenderei 
                  il suo valore a quell'ormai ampio apparato bibliografico che 
                  vede come termine ante quem il testo di Pasquale Iuso 
                  (Gli anarchici nell'età repubblicana, BFS 2014) 
                  e termine post quem l'ultimissimo libro di Fabrizio Giulietti 
                  (L'anarchismo in Italia, Galzerano editore 2018) e che 
                  ora attende monografie più attente a temi specifici, 
                  e perché no persino al femminismo anarchico. 
				Elena Bignami 
                 
                     
                Luigi Galleani/ 
				Un anarchico militante sulle due sponde dell'Atlantico 				
				Il genere biografico, fra tutti, è quello che più 
                  ci intriga. Perché connette le coordinate spazio-temporali 
                  in maniera quasi sempre sorprendente; perché, stabilendo 
                  un punto di equilibrio fra “i tre tempi” della storia 
                  (geografico, sociale, individuale) ci risolve metodologicamente 
                  il problema dei nessi singolare / plurale e del rapporto tra 
                  iniziativa personale e necessità sociale. Perché, 
                  infine, mentre aggiunge la sua insopprimibile dimensione esistenziale, 
                  ci fa guardare i fatti non solo con gli occhi del protagonista, 
                  ma anche immergendoci a pieno nello spirito dei tempi. 
                   Punto 
                  di arrivo di un approfondito e prolungato lavoro di ricerca, 
                  questo volume si inserisce nell'ambito di una ricca e importante 
                  produzione scientifica dell'autore volta a indagare, con particolare 
                  acribia, sia il tema dell'anarchismo di lingua italiana negli 
                  Stati Uniti che la nota vicenda di Sacco e Vanzetti. Da segnalare, 
                  in tal senso, la curatela dell'edizione italiana (sempre con 
                  Nova Delphi) del famoso libro di Paul Avrich dedicato ai due 
                  emigrati italiani assassinati sulla sedia elettrica nel 1927. 
                  In questa nuova, corposa, pubblicazione (Luigi Galleani. 
                  L'anarchico più pericoloso d'America, introduzione 
                  di Sean Sayers, Nova Delphi Libri, Roma 2018, pp. 290, € 
                  14,00) Senta ricostruisce vita e pensiero dell'anarchico “più 
                  pericoloso d'America”: Luigi Galleani (1861-1931). 
                  Per mezzo secolo sulla breccia del sovversivismo anarchico e 
                  quindi dell'antifascismo, pubblicista e autore prolifico, rivoluzionario 
                  votato all'azione febbrile egli marca, con la sua presenza e 
                  le innumerevoli iniziative politiche e culturali che promuove 
                  in differenziate situazioni ambientali, il radicalismo operaio 
                  e socialista in due secoli e tre continenti. Direttore e fondatore 
                  di importanti giornali come «Cronaca Sovversiva», 
                  autore di veri e propri best seller per l'epoca – tra 
                  cui La fine dell'anarchismo? e La salute è 
                  in voi! (manuale per dinamitardi) – il protagonista 
                  è noto agli studiosi di anarchismo come capofila di quella 
                  corrente di pensiero del movimento che, vantando migliaia di 
                  aderenti negli Stati Uniti, prendeva da lui il nome soprattutto 
                  caratterizzandosi per le posizioni risolutamente violentiste 
                  e insurrezionaliste. 
                  Su «Carmillaonline» Roberto Carocci, recensendo 
                  questo medesimo titolo, ha opportunamente notato come Galleani, 
                  “a differenza di Malatesta, introiettò l'utilizzo 
                  della violenza come elemento positivo” e necessario. In 
                  tal senso – prosegue Carocci – “gli episodi 
                  furono molteplici, come il reiterato spingere alla rivolta gli 
                  scioperi operai, così come l'inviare ripetutamente numerosi 
                  pacchi bomba a giudici, industriali, poliziotti, sindaci ed 
                  esponenti governativi”. Ma si deve, a onor del vero e 
                  per l'opportuna contestualizzazione, precisare che erano gli 
                  anni della cosiddetta “paura rossa” e delle forti, 
                  e altrettanto violente, repressioni statali antisovversive. 
                  Accurata e completa questa biografia, seconda dopo quella pubblicata 
                  da Ugo Fedeli nel 1956 (Quarant'anni di lotte rivoluzionarie), 
                  non solo colma un vuoto storiografico inglobando e aggiornando 
                  anche testi di autori precedenti che, in varia forma e misura, 
                  si erano occupati di studiare e/o raccontare la vita dell'intellettuale 
                  vercellese – da Pier Carlo Masini a Mariella Nejrotti, 
                  a Marco Scavino più recentemente sul Dizionario biografico 
                  degli anarchici italiani – ma si qualifica soprattutto 
                  come originale ricerca condotta compulsando un'importante mole 
                  di carte d'archivio. Si va dai Jacques Gross Papers e 
                  dai Fedeli Papers custoditi all'Istituto di storia sociale 
                  di Amsterdam al fondo L'Adunata della Boston Public Library, 
                  dai documenti di polizia dell'Archivio Centrale dello Stato 
                  a quelli del Ministero degli affari esteri a Roma, dai National 
                  Archives di Washington alla Gallica di Parigi, all'Archivio 
                  Berneri di Reggio, all'ASFAI di Imola e al Centro Studi Libertari 
                  di Milano... Il volume si struttura in ben trenta capitoli nei 
                  quali si snoda la vita errabonda di Galleani, agitatore senza 
                  frontiere, così suddivisi: una prima parte dedicata all'attività 
                  svolta in Italia; un intermezzo sul suo soggiorno in Egitto; 
                  una seconda parte relativa alla presenza in America (fondamentale 
                  e che dura quasi vent'anni); e un epilogo sul ritorno in Italia 
                  (dal “biennio rosso” al fascismo). L'introduzione 
                  è interessante perché racchiude, insieme, memoria 
                  di famiglia e fonti orali. Ne è autore Sean Sayers, biografo 
                  mancato del suo nonno materno. 
                  “Qualche anno fa – scrive Sayers – ho cominciato 
                  a compiere delle ricerche più sistematiche su mio nonno 
                  [...] Quando mi sono reso conto di che personaggio importante 
                  e interessante fosse, ho deciso di scrivere la sua biografia, 
                  così iniziai a leggere e a raccogliere materiale. Ma 
                  lavoravo da solo e presto fui sopraffatto dall'enorme mole di 
                  informazioni che andavo accumulando e dalla difficoltà 
                  del compito in cui mi ero imbarcato. Stavo iniziando a disperare 
                  quando venni messo in contatto con Antonio Senta che, come me, 
                  stava facendo delle ricerche su Galleani e voleva scriverne 
                  la biografia. È molto più qualificato di quanto 
                  lo sia io e presto concordammo che sarebbe stato lui a scrivere 
                  mentre io l'avrei aiutato con le ricerche, se e quando avessi 
                  potuto. Questo libro ne è l'eccellente risultato...”. 
				Giorgio Sacchetti 
                 
                     
                Autobiografie/ 
				Donna curda dalle mille vite (e dai tanti miracoli) 				
				Nella lingua curda esiste una persona verbale che somma in 
                  sé le persone della lingua italiana, dall'io al loro, 
                  includendole tutte in un'unica azione. Una sorta di collettività 
                  estrema che va oltre il “noi”, perché non 
                  lo contrappone alle altre persone plurali; al contrario, lo 
                  ingloba in un insieme capace di comprendere ognuno, intraducibile 
                  letteralmente ma pieno e ricco di suggestioni e utopie. 
                  L'ho imparato leggendo una nota a margine di una poesia di Ezel 
                  Alcu, a pagina 92 di Senza chiedere il permesso – il 
                  mondobastardo (Edizioni END, Gignod - Ao 2018, pp. 124, 
                  € 12,00). Mi ha colpito molto, mi è sembrato che 
                  questa peculiarità linguistica potesse spiegare non solo 
                  quel verso, ma il libro e con esso il mondo, la terra, la storia 
                  di Ezel; e insieme, la nostra. D'altronde in questo libro tutto, 
                  ma proprio tutto, è collettivo e plurale. 
                   È 
                  un testo di prosa, poesia, narrazione e fotografia; è 
                  un'autobiografia scompigliata e cruda, drammatica e ironica; 
                  narra di rivolta, fuga, gioco e gratitudine; la sua autrice 
                  ha due nomi, due date di nascita, due paesi. Il libro di Ezel 
                  è molti libri, perché Ezel è molte donne. 
                  Né potrebbe essere diversamente, dato che a 28 anni ha 
                  già vissuto l'equivalente di molte vite. 
                  Ezel Alcu è un'attivista curda, rifugiata politica in 
                  Italia dal 2009. 
                  Nata in una famiglia di attivisti segnata da tortura fuga e 
                  povertà, Ezel è l'ottava di dieci figli, la quinta 
                  femmina. “Figli da battaglia”, come li definisce 
                  il padre. Da crescere a pane (poco) e coraggio, per dare forza 
                  al popolo curdo e cuore alla sua rivoluzione. 
                  Così la storia di Ezel è la storia tenera scanzonata 
                  di una bambina in precoce crisi d'identità a causa dei 
                  suoi due nomi – Ezel, che in lingua farsi significa “universo 
                  infinito”, e Ceylan che significa “gazzella” 
                  – con un padre politico e una madre dittatrice; ed è 
                  insieme la storia drammatica e difficile di un popolo tormentato 
                  da guerre e massacri, da sempre alla ricerca della propria autonomia 
                  e da sempre perseguitato da chiunque, da Saddam Hussein all'Isis, 
                  da Erdogan all'occidente. 
                  Una terra-non terra, l'antica Mesopotamia, bellissima e ricca 
                  di suggestioni; aspra e montuosa, distesa tra fiumi leggendari, 
                  orlata di monti mitologici, come l'Ararat – che in lingua 
                  turca, guarda caso, significa “montagna del dolore”; 
                  fertile di grano e di cultura millenaria. 
                  Terra senza dignità geografica, senza un posto ufficiale 
                  nelle carte e nei mappamondi, condannata ad esistere clandestinamente 
                  e solo in virtù del suo popolo fiero e combattivo, protagonista 
                  di una rivoluzione che non ha eguali nel mondo – poiché 
                  le comprende tutte. 
                  Un paese che, come scrive Ezel, da qualche anno a questa parte 
                  sta vivendo la terza guerra mondiale, scoppiata per il petrolio, 
                  raccontata poco e male dai media occidentali, gestita da burattinai 
                  più o meno oscuri che non amano sporcarsi le mani e preferiscono 
                  servirsi di strumenti disumani come l'Isis, cancro cresciuto 
                  da cellule nutrite di paure e stereotipi. Una guerra “che 
                  non si combatte più dichiarandosi, ma facendo finta di 
                  non combattere... magari le nazioni non schierano eserciti, 
                  ma foraggiare chi ci bombarda equivale a fare la guerra e questo 
                  è ciò che succede”. 
                  Migliaia e migliaia di morti, giovani, donne e bambini; la massa 
                  spettrale di interi villaggi scomparsi, lo sguardo impietrito 
                  e la voce furiosa di chi sopravvive, fiumane di persone costrette 
                  ad emigrare, usate come merce di minaccia e di scambio, private 
                  di radici e dignità. 
                  “Non sono una ragazza piena di miracoli” dice di 
                  sè Ezel nella prefazione. Ma se non è un miracolo, 
                  senza dubbio quella che si sprigiona dai suoi occhi scuri è 
                  un'energia che pare inesauribile, tremendamente contagiosa. 
                  Finita in carcere all'età di 13 anni, per vincere la 
                  paura – tanta – Ezel si inventa un gioco: 
                  “Quando cadeva il buio, mi mettevo vicino alla finestra 
                  dove potevo vedere solo il cielo e i condomini altissimi che 
                  stavano vicino al carcere. Cominciavo così a sentire 
                  il fischietto del militare e contavo dodici fischi: ogni quindici 
                  minuti i militari si comunicavano con il fischietto per dire 
                  che tutto andava bene. Con il buio facevo io il primo fischio 
                  poi seguivano gli altri dodici fischi dei militari, così 
                  succedeva un casino perché i fischi erano tredici, non 
                  più dodici, e continuavo a fischiare così tutta 
                  la notte”. Niente male, come debutto nell'età dell'adolescenza. 
                  Da lì in avanti (non che prima non lo fosse) la sua vita 
                  diventa una sequenza di (dis)avventure senza fine: fughe, scontri 
                  con la polizia, arresti, dolore per la perdita violenta di tanti 
                  compagni, altro carcere con l'accusa di essere una kamikaze. 
                  Finché la famiglia la spinge a trasferirsi in Italia; 
                  così Ezel a 19 anni diventa una curda valdostana. 
                  Rifugiata in un paese dove “non c'è lavoro neanche 
                  per gli italiani”, in mezzo a tanta bella gente che “non 
                  è razzista ma”. Tra le Alpi di Heidi studiate a 
                  scuola, in una città che ai suoi occhi è minuscola 
                  (Aosta), dove il centro è finito dopo cento passi. Dove 
                  il caffè è la colazione, non una sciccheria borghese 
                  come nel suo paese, e la pasta non è una torta, come 
                  nella sua lingua, ma è “makarna”, i maccheroni. 
                  Dove impara a dire le parolacce e un sacco di cose che non si 
                  possono dire, e chissà perché poi, dato che invece 
                  si dicono. Scontrandosi con una lingua che si ostina a dividere 
                  i generi, il maschile dal femminile, mentre Ezel al genere non 
                  attribuisce importanza alcuna. 
                  Perché lei è per l'uguaglianza, lei dà 
                  importanza all'essere vivente, non al genere! “Mia sorella 
                  mi dice: Vai a provare. L'Europa è bella, è grande 
                  l'Europa... la democrazia e l'uguaglianza, i servizi sociali 
                  e i diritti umani!” 
                  Ezel ora lo sa, che non è proprio così. Che l'Europa 
                  è come “la scena di un circo: quando si chiudono 
                  i tendoni non si parla più di democrazia”. Lo ha 
                  imparato in fretta, che pure in Europa e in Italia si deve lottare 
                  ogni giorno per mantenere conquiste che parevano acquisite, 
                  riconquistarsi diritti dati ingenuamente per scontati. Lo sa, 
                  lo ha imparato, abbracciando a cuore aperto le ribellioni di 
                  qui, i nostri no, le lotte per riprenderci la terra che ci appartiene, 
                  la Valsusa, l'acqua, l'umanità. 
                  Ezel lo ha imparato, noi dobbiamo muoverci. Dobbiamo inventarci 
                  anche noi, nella nostra lingua, un pronome collettivo estremo. 
                  Perché, tra le altre cose, Senza chiedere il 
                  permesso è dedicato “a chi piace combinare 
                  guai”. 
                  A Ezel piace. A noi pure, piace, lo so. 
                  Spas, Ezel, grazie per questo libro, per la tua rabbia 
                  e per la tua incoerente allegria. 
				Claudia Ceretto 
                 
                     
                Il '68 in Italia/ 
				Movimento (anarchico) e movimenti 				
				Diego Giachetti con il suo lavoro Il '68 in Italia le idee, 
                  i movimenti, la politica (BFS edizioni, Pisa 2018, pp. 218, 
                  € 20,00) completamente rinnovato rispetto alla edizione 
                  di vent'anni fa, ha scritto uno dei migliori libri sul quel 
                  periodo. La bibliografia, l'indice dei nomi citati, dei periodici, 
                  dei movimenti e dei partiti politici aggiungono un ulteriore 
                  pregio al libro, per chi volesse approfondire le diverse tematiche 
                  trattate. 
                   L'autore 
                  ritiene che il '68 sia stata la conseguenza della scolarizzazione 
                  di massa e dei nuovi equilibri geopolitici dovuti alle migrazioni 
                  di massa degli anni '50/'60 dal Sud al Nord, nel triangolo industriale 
                  del nostro Paese. 
                  In sintonia con il vento di rivolta contro l'autoritarismo dei 
                  padri e delle società ingessate dell'epoca, che andava 
                  sollevandosi fra la gioventù studentesca, sia ad Est 
                  che ad Ovest della cosiddetta cortina di ferro, anche in Italia, 
                  nel '67, nacquero movimenti giovanili ribelli. Essi si riferivano 
                  alle esperienze dei Provos olandesi, dei Beats nordamericani, 
                  sentivano l'eco che proveniva dal movimento della libera parola 
                  iniziato alla Università di Berkeley nel 1964. Successivamente 
                  prevalse l'aspetto politico della contestazione. 
                  Il lavoro si articola attorno a diversi nuclei tematici, dei 
                  quali qui se ne citano soltanto alcuni: l'opposto giudizio sulle 
                  conseguenze del '68, le ragioni della nascita della sinistra 
                  extraparlamentare, il fenomeno del leaderismo e la critica puntuale 
                  degli anarchici al movimento studentesco inteso come mezzo di 
                  affermazione in funzione dirigente del ceto medio intellettuale 
                  a scapito delle precedenti classe egemoni, le relazioni tra 
                  il '68 studentesco ed il '69 operaio, la figura sociale dello 
                  studente e quella del coetaneo operaio, l'operaio-massa della 
                  catena di montaggio della FIAT, la repressione, la strategia 
                  della tensione, le differenze tra il movimento del '68 e quello 
                  del '77, i caduti dell'uno e dell'altro movimento, la nascita 
                  e l'evoluzione dei gruppi extraparlamentari di sinistra e del 
                  terrorismo di sinistra, il fenomeno delle Riviste che hanno 
                  preceduto ed accompagnato il '68 e che sono state il terreno 
                  di formazione dei leader del '68. 
                  Molto interessante è il capitolo “La sociologia 
                  dei gruppi della nuova sinistra”, che mostra in modo chiaro 
                  la complessità e le intricate vicende dei gruppi. L'autore 
                  spiega che la nascita dei gruppi fu dovuta all'esigenza di non 
                  vedere dispersa l'imponente disponibilità studentesca 
                  dopo l'apice di partecipazione alle occupazioni e alle manifestazioni 
                  sulle questioni studentesche ed esprime un giudizio positivo 
                  su questo tentativo di organizzazione dei vari gruppi marxisti 
                  della sinistra rivoluzionaria. Attribuisce la loro disgregazione 
                  e dissoluzione all'emergere del femminismo, della nuova tipologia 
                  giovanile e alla sconfitta nelle elezioni politiche del 1976, 
                  quando i gruppi si contarono sul piano parlamentare. 
                  Agli anarchici sono riservate pagine molto chiare che fanno 
                  giustizia ad una presenza nel movimento, quasi sempre tenuta 
                  sotto traccia nelle trattazioni sul '68. Non sono dimenticati 
                  i radicali e i movimenti dei diritti civili. L'ultimo capitolo 
                  “Dal '68 al '77”, che tratta il passaggio da un 
                  movimento all'altro, che definisce i caratteri salienti del 
                  movimento del '77 e che individua un confronto tra i due movimenti, 
                  conclude il libro nel quale non si evidenzia alcun intento celebrativo 
                  dell'anno di svolta della società contemporanea. 
                  L'autore fornisce ragioni e spiegazioni di come questo grande 
                  movimento di rinnovamento esistenziale si sia politicizzato 
                  in Italia e di come, diversamente dal Maggio Francese, sia durato 
                  pressoché dieci anni, cosi da meritarsi l'appellativo 
                  di maggio strisciante. 
                  Diego Giachetti affronta nodi storiografici, non ancora sciolti, 
                  concernenti la domanda su che cosa sia stato il '68 in Italia. 
                  Un movimento che interessò buona parte degli anni '70, 
                  al quale il blocco di potere dell'epoca rispose con la feroce 
                  repressione che conosciamo, recuperandone gli aspetti più 
                  appariscenti e di costume. Non si può che condividere 
                  la precisazione di Giachetti che scrive: “L'odierna società 
                  è nata dalla sconfitta della contestazione dei movimenti 
                  degli anni '60”. 
                  A questo punto ci si chiede se il non avere raccolto in termini 
                  progressivi, da parte della classe dirigente dell'epoca, la 
                  grande partecipazione civile e politica che il '68 rappresentò 
                  per quasi 10 anni, non sia stata davvero un'occasione mancata 
                  per la modernizzazione e lo sviluppo civile del nostro Paese. 
				Enrico Calandri 
                 
                     
                Emigrazione anarchica/ 
				Calabresi in Argentina 				
				Il libro di Paolo Attanasio e Angelo Pagliaro (Libertari 
                  cetraresi in Argentina. Dall'Aggruppazione libertaria cetrarese 
                  a Umanità Nova (1923-1932), Edizioni Erranti, Cosenza 
                  2018, pp 256, € 15,00) ricostruisce la storia del “Gruppo 
                  libertario cetrarese” e dei suoi aderenti nel decennio 
                  a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, precisamente 
                  tra il 1923 e il 1932. È un periodo cruciale, quello 
                  che coincide con la fase matura dell'associazione, la più 
                  consistente e rilevante tra quelle create dagli anarchici calabresi 
                  in Argentina. 
                   Negli 
                  stessi anni, infatti, il paese latinoamericano vive la fase 
                  tormentata del passaggio dai governi del radicale Hipolito Yrigoyen, 
                  che sembra farsi interprete dei bisogni delle classi popolari 
                  suscitando attorno a sé un grande entusiasmo a quello 
                  ben più autoritario di José Fèlix Uriburu, 
                  salito al potere con il golpe del 1930 e dimessosi appunto nel 
                  febbraio 1932. Mentre in Italia, negli stessi anni, il fascismo 
                  passa dalla parvenza di legalità successiva alla Marcia 
                  su Roma alla vera e propria dittatura edificata dopo l'assassinio 
                  di Giacomo Matteotti. Gli italiani che animano l'associazione 
                  vivono dunque, oltre alla loro condizione di esuli, una realtà 
                  politica che, sia nella vecchia patria che nella nuova, gli 
                  è avversa e contro la quale combattono. 
                  I calabresi fondano in Argentina associazioni (molte delle quali, 
                  come il nucleo cetrarese, si richiamano nel nome ai paesi d'origine, 
                  ma hanno una forte connotazione politica), giornali, sodalizi 
                  artistici; creano occasioni di incontro e iniziative culturali, 
                  animano le discussioni politiche ed entrano ben presto nell'immaginario 
                  collettivo come emigrati e ribelli e con questa connotazione 
                  vengono per lo più descritti dalla letteratura e dai 
                  canti popolari. Nel testo, che riprende il filone di ricerca 
                  già percorso dai due studiosi, le vicende del gruppo 
                  si intrecciano alle storie di vita dei suoi affiliati, così 
                  come le storie di vita dei più noti Errico Malatesta, 
                  Pietro Gori e Severino Di Giovanni convivono con quelle dei 
                  molto meno noti e con quelle dei senza storia. 
                  In tal modo, Ciccio Barbieri, Angelo Antonucci, Salvatore Niesi, 
                  Salvatore Cortese e Francesco Attanasio, assieme a tanti altri, 
                  compongono l'umanità diversificata e complessa, a tratti 
                  sofferente, nella quale tutti hanno uguale dignità e 
                  concorrono, tra vittorie e sconfitte, tra fraternità 
                  e divisioni, tra scontri e riappacificazioni, al tentativo di 
                  realizzare il grande sogno. Accanto ai nomi, ci sono i volti. 
                  Il testo è infatti arricchito da numerose foto d'epoca 
                  che mostrano le facce, l'atteggiamento, in parte il linguaggio 
                  non verbale dei corpi, l'abbigliamento, gli elementi del paesaggio, 
                  tutte testimonianze non accessorie, ma – al contrario 
                  - fondamentali per la comprensione più profonda dei fatti 
                  narrati. Anche la riproduzione del materiale di propaganda (per 
                  lo più volantini e fogli di giornale, ma anche lettere 
                  autografe) rende più attuale la materia trattata. Completano 
                  il lavoro le biografie degli appartenenti al gruppo tratte dai 
                  fascicoli personali del Casellario politico centrale, 
                  che costituiscono la sintesi delle loro esistenze oltre che 
                  della loro attività politica, per come emerge dalle carte 
                  di polizia. 
                  Assieme alle vicende umane, tanti altri fili, di diverso spessore, 
                  si riannodano. Fatti noti come la semana tragica, l'introduzione 
                  della Ley de residencia, l'attentato al Consolato generale 
                  d'Italia, la vicenda di Sacco e Vanzetti si intrecciano con 
                  la quotidianità e le battaglie degli anarchici cetraresi. 
                  Proprio per questo, il lavoro di Attanasio e Pagliaro ha il 
                  merito di illuminare e rendere coerenti vari aspetti: gli orientamenti 
                  dell'opinione pubblica, i rapporti con i compagni, la vita familiare, 
                  i ruoli femminili e maschili, il comportamento che il governo 
                  assume nei loro confronti nel corso degli anni e delle differenti 
                  situazioni e molto altro ancora. Come ad esempio l'esperienza 
                  del teatro militante grazie alla costituzione della filodrammatica 
                  “Senza patria”, che serve non solo all'autofinanziamento, 
                  ma soprattutto a svolgere l'azione di educazione e propaganda 
                  e a rafforzare la crescita culturale caratteristici dell'anarchismo. 
                  Come pure l'attenzione e la capacità di dar vita a pubblicazioni 
                  che esprimono la linea politica del gruppo e che vengono diffuse 
                  e distribuite dai militanti in un'opera di incessante proselitismo. 
                  L'impressione che si ricava scorrendo anche solo rapidamente 
                  il testo è quella di un grande affresco al cui interno 
                  si svolgono i destini degli uomini e le parabole dei processi 
                  storici. Lo sfondo che, allo stesso tempo, li racchiude e li 
                  contestualizza, è la Grande Emigrazione, la vera protagonista 
                  di questa e di altre storie. È il grande esodo a fornire 
                  la spinta iniziale, a fungere da detonatore. È nei luoghi 
                  di arrivo, dove emigrano in cerca di lavoro e di una vita migliore, 
                  che i calabresi, per gran parte, si politicizzano, confluendo 
                  nelle organizzazioni libertarie al cui interno ricoprono ruoli 
                  spesso importanti. La storia dell'anarchismo calabrese si svolge 
                  in effetti quasi sempre fuori dalla regione: nel resto d'Italia 
                  e, soprattutto, all'estero. 
                  Gli anarchici calabresi scelgono in gran parte l'Argentina e 
                  la sua capitale come patria d'adozione. Sono braccianti, operai, 
                  ma soprattutto artigiani (calzolai, sarti, barbieri, tipografi) 
                  i soggetti verso i quali si indirizzano le attenzioni dei tutori 
                  dell'ordine e della legalità del paese che li accoglie. 
                  La loro capacità di inserimento e di reazione politica, 
                  nelle mutate condizioni socioeconomiche, sorprende per la rapidità 
                  e per la convinzione con le quali si esprimono. 
                  Circa l'influenza dell'immigrazione italiana sul movimento anarchico 
                  argentino è stato detto e scritto molto. La presenza 
                  e l'azione di personaggi come Errico Malatesta e Pietro Gori 
                  tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento contribuì 
                  in maniera determinante all'affermazione dell'associazionismo 
                  operaio e sindacale di ispirazione libertaria, fornendo ai lavoratori 
                  una risposta concreta alle loro richieste e alle loro aspettative. 
                  Teorizzando strategie di lotta alternative rispetto ai metodi 
                  praticati dalle organizzazioni sindacali di orientamento riformista, 
                  il movimento anarchico riuscì a incanalare energie e 
                  consensi intorno a un progetto di democrazia diretta, di solidarismo 
                  e di azione rivoluzionaria che intendeva fornire una risposta 
                  concreta alle richieste pressanti degli ultimi. In un paese 
                  in cui i lavoratori salariati erano automaticamente esclusi 
                  dalla partecipazione alla vita pubblica, con un sistema politico-istituzionale 
                  fondato su una ristretta base sociale, la protesta contro le 
                  istituzioni era assoluta e trovava la sua forma naturale di 
                  espressione nei metodi propri dell'anarchismo. Lo stile con 
                  il quale le vicende vengono ripercorse e analizzate è 
                  immediato, lontano da quello del libro di storia tradizionale 
                  e del trattato scientifico. Ma non per questo superficiale. 
                  Quella che si coglie è – accanto alla passione 
                  per la ricerca - la vivacità dei particolari, la visione 
                  potremmo dire a colori degli avvenimenti e delle persone, delle 
                  quali emerge un vissuto individuale e collettivo ricco di sfaccettature, 
                  dove l'esperienza individuale fa parte e si collega a elementi 
                  di identità sociale e collettiva più o meno forte. 
                  Il testo che viene dato alle stampe costituisce un ulteriore 
                  tassello di quella storia diversa che i due studiosi – 
                  ne sono certa – continueranno a scrivere. 
				Katia Massara 
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