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				 dibattito 
                  
                Oltre la società del lavoro 
                  
                di Franco Bertolucci / foto di Paolo Poce 
                  
                Le trasformazioni economiche, tecnologiche, sociali degli ultimi tempi hanno portato a una vera e propria rivoluzione nel mondo del lavoro. La disoccupazione crescente. Le nuove teorie (e alcune pratiche) contro il lavoro. La questione del reddito sociale. Un dibattito aperto, con mille conseguenze. 
                «L'estetica del lavoro 
                  è lo spettacolo della merce umana» 
                  (Da ZYG-Crescita Zero del gruppo musicale “Area”, 
                  1974) 
				Papa Francesco recentemente in un'intervista al quotidiano 
                  della Confindustria ha rilanciato il messaggio della Chiesa 
                  sulla necessità di un nuovo «umanesimo dei produttori» 
                  aperto e inclusivo che «sappia mettere l'uomo al centro 
                  della società» e «l'impresa» al centro 
                  dell'economia («Il Sole 24 ore», 7 set. 2018). Subito 
                  gli hanno fatto eco i massimi vertici dell'imprenditoria italiana, 
                  a iniziare da Vincenzo Boccia presidente della Confindustria, 
                  plaudendo le sue parole e affermando che «il lavoro creativo 
                  e produttivo» è il «solo» mezzo che 
                  «rende liberi» e «conferisce dignità» 
                  al fine di costruire – soprattutto per i giovani – 
                  il loro percorso di vita («Il Sole 24 ore», 8 set. 
                  2018). 
                  Il sostantivo «dignità» è stato utilizzato 
                  anche dal decreto del governo «giallo-verde» (D.L. 
                  12 luglio 2018 n. 87, convertito con modificazioni dalla L. 
                  9 agosto 2018 n. 96, «Gazzetta Ufficiale» n. 186, 
                  11/8/2018) che apporta notevoli modifiche alla regolamentazione 
                  del contratto a termine e del contratto di somministrazione 
                  di lavoro contenuta nel Jobs Act. Questo intervento del 
                  governo è l'antipasto di un'ulteriore iniziativa del 
                  proprio programma – il cavallo di battaglia dei M5S –, 
                  che dovrebbe concretizzarsi nel varo della legge del «reddito 
                  di cittadinanza». 
Dunque, il tema del lavoro continua a essere oggi al centro del dibattito in ogni sfera della politica, dell'economia e dello «Spirito Santo», ma proviamo un attimo a riflettere bene sulla vera natura e sulla storia di questo confronto che in realtà nasconde nelle sue viscere un conflitto «antico» ma nel contempo attualissimo, quello tra capitale e lavoro. 
                Tutti i lavoratori del mondo 
		        Secondo le Nazioni unite, nel 1800 il mondo aveva 1 miliardo 
                  di abitanti, 5 nel 1990, poco più di 7 al giorno d'oggi 
                  e, secondo le proiezioni attuali, nel 2100 saranno 11. Dai più 
                  recenti rapporti (maggio 2018) dell'Ufficio Internazionale del 
                  Lavoro di Ginevra i lavoratori salariati nel mondo sono circa 
                  il 58,6% della popolazione globale, e il loro numero è 
                  cresciuto negli ultimi anni. 
                  Il numero dei proletari è, dunque, in espansione a fronte 
                  di una borghesia che assume una struttura sempre più 
                  oligarchica, circa 80 milioni di super ricchi, l'1% della popolazione, 
                  detiene un reddito superiore a quello prodotto dal resto dell'umanità; 
                  le classi intermedie declinano, piccoli produttori indipendenti 
                  – per lo più contadini di sussistenza nelle periferie 
                  e nei Paesi del Terzo e Quarto Mondo – piccoli artigiani 
                  e/o commercianti, si avviano gradualmente a essere minoranze 
                  che le condizioni del mercato pongono allo stesso livello dei 
                  salariati. Nelle nuove metropoli capitalistiche dei Paesi come 
                  Cina, India, Brasile, ecc. i lavoratori dipendenti sono da molto 
                  tempo la maggioranza della popolazione attiva. 
                  Il rapporto OXFAM, uno dei documenti più noti che annualmente 
                  vengono pubblicati, ha certificato che la forbice tra ricchi 
                  e poveri in questi ultimi anni si è estremizzata sempre 
                  di più. «Multinazionali e super ricchi continuano 
                  ad alimentare la disuguaglianza facendo ricorso a pratiche di 
                  elusione fiscale, massimizzando i profitti anche a costo di 
                  comprimere verso il basso i salari», sfruttando a loro 
                  vantaggio ogni conflitto armato, la criminalità e «usando 
                  il loro potere per influenzare la politica». Così, 
                  nel biennio 2015/16 dieci tra le più grandi multinazionali 
                  hanno realizzato complessivamente profitti superiori a quanto 
                  raccolto dalle casse di 180 Paesi. 
                  I paesi economicamente avanzati, con una voracità insaziabile 
                  di materie prime, coprono la propria politica di rapina con 
                  false campagne promozionali per lo sviluppo e il sostegno dei 
                  paesi del Sud del mondo quando in realtà stanno facendo 
                  esattamente il contrario. Non sono i paesi ricchi a sviluppare 
                  i paesi poveri, ma i paesi poveri, di fatto, a sviluppare quelli 
                  ricchi; e lo stanno facendo dalla fine del 15° secolo, come 
                  giustamente ha sottolineato l'antropologo e scrittore Jason 
                  Hickel in un recente libro.  
                  Il divario oggi, però, ha radici ancora più profonde. 
                  Sette persone su dieci vivono in luoghi dove la disuguaglianza 
                  è cresciuta negli ultimi 30 anni: tra il 1988 e il 2011 
                  il reddito medio del 10% più povero è aumentato 
                  di 65 dollari, meno di 3 dollari l'anno, mentre quello dell'1% 
                  più ricco di 11.800 dollari, vale a dire 182 volte tanto. 
                  In Italia, stando ai dati del 2016, i primi 7 super-ricchi posseggono 
                  un patrimonio superiore a quello del 30% più povero mentre 
                  l'1% più ricco può contare su oltre 30 volte le 
                  risorse del 30% più povero e 415 volte quelle del 20% 
                  più povero. Per quanto riguarda il reddito tra il 1988 
                  e il 2011, il 10% più facoltoso ha accumulato un incremento 
                  di reddito superiore a quello della metà più povera 
                  degli italiani. 
                  
                Uso retorico e strumentale 
		        Nella storia della civiltà umana in questi ultimi tre 
                  secoli, il lavoro è diventato una vera e propria religione 
                  e/o ideologia che si è inserita all'interno delle nostre 
                  vite, permeando ogni nostra relazione, al punto che non riusciamo 
                  più neppure a immaginare una vita senza il lavoro. 
                  Il tema del lavoro, incluso l'uso retorico e strumentale 
                  del termine, ha caratterizzato tutto il '900. Ha ispirato la 
                  Costituzione della nostra Repubblica che lo ha dichiarato diritto 
                  e dovere del cittadino, è stato codificato in legge (Statuto 
                  dei lavoratori) e ha trovato centralità anche nel fascismo 
                  con l'enfasi propagandistica sulla «nazione proletaria». 
                  Perfino i campi di concentramento nazisti venivano presentati 
                  cinicamente come campi di lavoro; si pensi, ad esempio, alla 
                  Arbeit Macht Frei sul cancello d'ingresso di Dachau e 
                  di molti altri lager: una funerea ironia per indicare nel lavoro 
                  il raggiungimento della «libertà». Per non 
                  dimenticare poi i famosi campi di «rieducazione» 
                  in URSS e nella Cina di Mao Tse-tung. 
                  Ma è con il passaggio dalla prima alla seconda rivoluzione 
                  industriale e con l'avvento del fordismo, negli anni Trenta 
                  del '900, che il lavoro ha assunto una dimensione totalizzante: 
                  ha portato alla trasformazione radicale della società 
                  e al superamento delle forme di lavoro fondate sull'artigianato 
                  e sull'operaio di mestiere; ha plasmato l'uomo come proprio 
                  strumento (il tempo, l'ambiente, le abitudini, il vivere) e 
                  si è posto non solo come tecnica scientifica di produzione, 
                  ma ha inaugurato un «organico e inedito modello sociale»: 
                  «un sistema integrato di nuove tecniche», ha scritto 
                  Marco Revelli riferendosi all'idea di fordismo formulata da 
                  Gramsci in Americanismo e fordismo, «nuove relazioni 
                  sociali e nuove forme istituzionali focalizzate intorno alla 
                  centralità della produzione». 
Come ha acutamente osservato il sociologo francese Alain Bihr, l'avvento del fordismo ha avviato la «parcellizzazione e meccanizzazione del processo di lavoro» alterando la composizione socio-professionale (o “tecnica”) del proletariato occidentale e portando alla «totale integrazione dei consumi del proletariato nel rapporto salariale», con la conseguente e progressiva scomparsa della produzione domestica, l'imposizione via via di uno «standard medio di consumo» (alloggi e merci strumentali come le automobili e gli elettrodomestici), l'accesso al «credito al consumo» attraverso la regolazione dei livelli salariali e la «socializzazione del salario grazie allo sviluppo del “salario indiretto”», volto all'individuazione dei servizi sociali gestiti dallo Stato (il Welfare State come fondamento del compromesso fordista). 
                  Non solo: l'accesso al consumo generale e al soddisfacimento 
                  di bisogni indotti ha generato nel proletariato l'aspirazione 
                  a un cambiamento di status sociale in senso borghese, con conseguente 
                  perdita o autolimitazione della propria coscienza identitaria. 
                  La produzione di beni e merci, la stessa tecnica come strumento 
                  di impiego di forza-lavoro, ha persino sovvertito la finalità 
                  e l'uso strumentale del lavoro, arrivando al suo opposto, rivelando 
                  le merci non solo come feticci (come intuito da Marx ben prima 
                  dell'avvio del fordismo), ma presentando la stessa tecnica, 
                  fine a se stessa, come «dialettica negativa della modernità, 
                  che segna, appunto, l'approdo estremo, terminale e non reiterabile 
                  della parabola della razionalità strumentale, rovesciarsi 
                  in radicale distruzione di senso». Hiroshima, in tal senso, 
                  ha costituito l'epifenomeno del «mostruoso» dispiegarsi 
                  della modernità, della produzione e del lavoro ad esso 
                  correlato, in cui l'uomo utilizza la tecnica non più 
                  come mezzo di produzione, ma per produrre la distruzione dell'umanità, 
                  cioè di se stesso. 
Eppure, nelle società avanzate, come quelle dell'Europa e del Nord America, il lavoro è in crisi da molti decenni, almeno dagli anni '70 e '80. Una crisi che rappresenta l'altra rottura che si è avuta con l'avvento del ciclo di mobilitazione della fine degli anni '60, in cui è stata posta seriamente e radicalmente in discussione l'impostazione del compromesso fordista: «sorgeva così», ha sottolineato Bihr, «la cosiddetta “crisi del lavoro”, riguardante insieme la natura del lavoro fordista (rifiuto di un lavoro alienante) e il ruolo del lavoro nell'esistenza individuale e sociale (rifiuto di fare del lavoro il fulcro della propria vita)». 
                Perdita della centralità del lavoro 
		        La crisi ha accompagnato in questo periodo anche la crisi economica, 
                  ambientale e istituzionale, in particolare quella delle cosiddette 
                  democrazie avanzate, del loro modello economico di sviluppo, 
                  una crisi che sta toccando, nell'impatto relativo ai cambiamenti 
                  climatici e nello sfruttamento delle risorse naturali energetiche, 
                  il punto di non ritorno. Inoltre, a questa crisi ne è 
                  seguita un'altra: quella prodotta dalla «rivoluzione tecnologica 
                  informatica». 
L'aumento della tecnologia inserita nei processi produttivi ha creato un nuovo paradigma del sistema di produzione, ora fluido e flessibile, che ha trasformato rapidamente e sostituito i vecchi modelli e ha inaugurato una nuova epoca scandita dal venir meno del fondamento stesso del compromesso fordista: i margini per l'accesso al consumo dei lavoratori si sono progressivamente ristretti, come anche i servizi sociali forniti dallo Stato, mentre il luogo del lavoro si è frammentato. La fabbrica, intesa «come spazio omogeneo e contiguo, separato nettamente da un ambiente esterno considerato potenzialmente ostile o comunque produttivamente inerte», si è disciolta in rivoli sempre più piccoli, si è cioè capillarizzato il «luogo del lavoro» al punto da invadere lo spazio della vita privata, «fino a rendere quasi impercettibile quella differenza tra luoghi della produzione organizzata e luoghi della vita sociale che era stata costitutiva della modernità economica fin dai tempi della prima rivoluzione industriale».  
L'età della globalizzazione è l'età della genericità e della mancanza di riferimenti sia spaziali (come la fabbrica di una volta), sia temporali (non esiste più nella maggioranza dei casi il lavoro come posto fisso e con un orario stabilito), sia funzionali (oggi nella vita di un salariato è diffusa la possibilità di svolgere più mansioni e più professioni). Questo è l'effetto della flessibilità di un mercato che ha come regola l'assenza di regole. 
                  Negli ultimi due decenni del '900 si è sviluppato in 
                  Occidente un dibattito sulla perdita della centralità 
                  del lavoro nelle società avanzate. Alcuni intellettuali 
                  si chiedevano se questa crisi della società del lavoro 
                  dovesse essere intesa come la fine della possibilità 
                  della rivoluzione del lavoro. Tale riflessione nasceva dalla 
                  constatazione che era in atto un processo di riduzione sostanziale 
                  della classe operaia industriale, si profetizzava la «fine 
                  del proletariato», con tutte le conseguenze teoriche e 
                  politiche derivanti da questa formulazione. Jeremy Rifkin, economista 
                  e sociologo statunitense, nel 1995 pubblicava La fine del 
                  lavoro che divenne subito un bestseller internazionale. 
                  Rifkin prevedeva la prossima e definitiva affermazione delle 
                  macchine sul lavoro umano, proponendo possibili soluzioni per 
                  ridurre l'impatto sociale e anzi trarre vantaggio da questa 
                  trasformazione. Più o meno in questi anni iniziavano 
                  anche a uscire varie nuove riflessioni contro il lavoro. 
                  Una delle prime è stata quella del Gruppo della redazione 
                  della rivista tedesca «Krisis» che, nel 1999, ha 
                  pubblicato il Manifesto contro il lavoro. La tesi sostanziale 
                  di questo gruppo è quella per cui la società odierna 
                  si trova nel bel mezzo di una crisi senza ritorno della società 
                  del lavoro. La merce-lavoro, infatti, scarseggia, e nessuna 
                  politica di welfare, così come nessuna opzione 
                  di stampo liberista, riusciranno a restaurare il mito decadente 
                  del lavoro. La disoccupazione, dovuta principalmente al progresso 
                  tecnologico e informatico, diverrà sempre più 
                  massiccia, mettendo così in forse non soltanto la sussistenza 
                  materiale dei cittadini-lavoratori, ma anche la capacità 
                  stessa del capitale di progredire nel processo di accumulazione. 
                  Il lavoro, in sostanza, starebbe scomparendo, e il capitalismo, 
                  di conseguenza, si starebbe avviando verso la sua crisi definitiva. 
                Espansione (senza precedenti) della disoccupazione 
		        A ben guardare, però, in questi anni si è invece 
                  realizzata una palese espansione del lavoro salariato, a partire 
                  dall'enorme ampliamento del processo di salarizzazione nel settore 
                  dei servizi: si è verificata una significativa eterogeneizzazione 
                  del lavoro, espressa anche mediante la crescente incorporazione 
                  di un ampio contingente di manodopera femminile e minorile nel 
                  mondo operaio, ciò in modo particolare nel sistema produttivo 
                  asiatico che rappresenta sempre più l'asse portante dell'economia 
                  mondiale; nel contempo si è anche intensificata una sottoproletarizzazione 
                  – grazie all'espansione del lavoro part-time, precario, 
                  subappaltato, interinale, che caratterizza la società 
                  duale nel capitalismo avanzato – della quale il lavoro 
                  in nero è un esempio, così come l'enorme contingente 
                  di lavoro immigrato che si dirige in un flusso inarrestabile 
                  verso il Primo mondo, alla ricerca di ciò che rimane 
                  del welfare occidentale – in verità ben 
                  poco –, rovesciando il flusso migratorio dei due secoli 
                  precedenti, che dal centro del mondo economico in sviluppo si 
                  dirigeva verso la periferia. 
                   Il 
                  più brutale risultato di queste trasformazioni in particolare 
                  in Europa, è stata l'espansione, senza precedenti, della 
                  disoccupazione che va di pari passo alla crescita demografica 
                  dei paesi sottosviluppati e che colpisce il mondo su scala globale. 
                  Un periodo storico, questo, caratterizzato da una costante politica 
                  militarista e guerrafondaia funzionale al controllo delle risorse 
                  energetiche ma che nel contempo ha alimentato politiche fondamentaliste, 
                  non solo in campo religioso ma anche in quello più propriamente 
                  politico dove tendono a emergere movimenti sovranisti e nazionalisti. 
                  Il rifiuto, quanto meno del mito del lavoro, negli ultimi anni 
                  di fatto si è andato saldando, anche praticamente, a 
                  situazioni di miseria ed estrema precarizzazione che, ad esempio 
                  in Grecia ma pure in alcuni casi nella Torino degli Squat o 
                  di altre metropoli europee, hanno visto la nascita e lo sviluppo 
                  di «economie» altre – o «pirata» 
                  – che prescindono, anche se forzatamente, dal lavoro produttivo. 
                  Soluzioni «illegali» – di recupero, di organizzazione 
                  della marginalità, di fuoriuscita dal ciclo della merce, 
                  di mutua solidarietà, di cultura del dono, delle coltivazioni 
                  urbane etc. – che, se da un lato si muovono sul ristretto 
                  terreno della mera sopravvivenza, dall'altro più o meno 
                  consapevolmente prospettano e praticano una società che 
                  non ha più al centro il binomio lavoro/consumo e le sue 
                  relazioni di potere. 
                  Resta ovviamente da capire quanto l'autogestione della miseria 
                  possa tornare utile a uno Stato, non più in grado di 
                  fornire alcun welfare, per scongiurare conseguenze/insorgenze 
                  sociali ben più gravi. Ma al di là del rifiuto 
                  del lavoro e della possibilità di costruire isole di 
                  resistenza del non lavoro – esperienze che possono nascere 
                  in particolari condizioni sociali ed economiche – per 
                  affermare la propria identità etica «alternativa», 
                  oggi più che mai s'impone la necessità di aggredire 
                  la divisione sociale del lavoro e la sua gerarchia offrendo 
                  una prospettiva politica d'uscita. 
                Riduzione del tempo di lavoro a parità di salario 
		        Urge ripensare la critica al lavoro, di rinnovare le basi teoriche 
                  «per concretizzare l'utopia della fine del lavoro» 
                  al fine di avviare una riduzione sostanziale del lavoro socialmente 
                  necessario, del tempo che la società nel suo insieme 
                  – e dunque ciascun membro – deve consacrare alla 
                  riproduzione materiale e organizzativa. Ad esempio, per Bihr 
                  «questa prospettiva corrisponde a una aspirazione e a 
                  un sogno tra i più antichi dell'umanità, che oggi 
                  cessa di essere pura utopia grazie allo sviluppo delle nuove 
                  tecnologie elettroniche» grazie alle quali a fronte di 
                  un incremento delle potenzialità della produttività, 
                  offrono l'occasione di «lavorare (molto) meno». 
Fa parte di questa considerazione la consapevolezza che oggi il capitalismo sta realizzando questa «utopia», trasformandola però in un vero incubo. «Infatti, la riduzione del tempo di lavoro necessario, reso ineluttabile dallo sviluppo tecnologico, prende la forma di un massiccio sviluppo della disoccupazione e del precariato». D'altronde, «la produzione sociale resta prigioniera di rapporti capitalistici e la riduzione del tempo di lavoro necessario costituisce soltanto un mezzo per aumentare il pluslavoro (il plusvalore)». Questa condizione di forte subalternità dei proletari che al giorno d'oggi gioca sulla «frammentazione» – ovvero su una molteplicità di figure socio-giuridiche eterogenee, risultato di una crescita della disoccupazione e del precariato – è una minaccia costante ai diritti dei lavoratori e alla loro unità, che si frappone nettamente all'idea di «lavorare meno, lavorare tutti e a parità di salario». 
                  Ogni aspirazione di ogni giovane che si affaccia al mondo del 
                  lavoro, e che aspiri non solo a un salario decente ma anche 
                  a un'attività «socialmente utile», «attraente» 
                  e gratificante, è frustrata da una condizione concreta 
                  dove si mantiene un forte livello di alienazione nel processo 
                  produttivo, con alta precarietà e bassa qualità 
                  del lavoro. Va ricordato che «lavoro utile» è 
                  quello che porta alla formazione di valore d'uso ed è 
                  perciò condizione necessaria per l'esistenza umana; in 
                  questo senso è indipendente dalla forma di società 
                  in cui si svolge, essendo il suo scopo quello della mediazione 
                  nel rapporto tra uomo e natura. 
                  D'altronde, nell'età dell'automazione e della terza rivoluzione 
                  industriale, il solo mezzo per rispettare il principio di un 
                  lavoro per tutti è la riduzione del tempo del lavoro 
                  a parità di salario. Nel sistema economico capitalista, 
                  il capitalista acquista col salario non il lavoro svolto dal 
                  produttore ma una parte del suo tempo; la quantità di 
                  tempo necessaria per fabbricare un oggetto misura il suo valore 
                  di scambio; la misura del tempo quindi è «un dato 
                  indispensabile» alla produzione e si concreta nei calcoli 
                  relativi alla giornata lavorativa, basati sui tempi del 
                  lavoro socialmente necessario e sulla forza produttiva o produttività 
                  del lavoro, che dipende dal grado medio di abilità dell'operaio 
                  e dal grado di sviluppo tecnologico degli impianti. Quanto maggiore 
                  è la forza produttiva, tanto minore è il tempo 
                  di lavoro necessario per produrre una data quantità di 
                  merce nell'unità di tempo; ciò indica che per 
                  ottenere una certa produzione giornaliera si può ricorrere 
                  tanto al miglioramento degli impianti quanto a un aumento delle 
                  ore lavorative nella giornata. 
                Quale reddito sociale? 
		        Il capitalismo, nella sua lunga storia, è ricorso e 
                  ricorre indifferentemente alle due soluzioni. La durata della 
                  giornata lavorativa è stata ed è calcolata sulla 
                  base di pure esigenze economiche: l'uomo è qui semplicemente 
                  il mezzo per raggiungere uno scopo a lui estraneo, cifra di 
                  un calcolo economico in cui, fino a quando non riguarda l'entità 
                  del profitto, la durata della vita della forza-lavoro è 
                  priva di interesse. Il calcolo infatti deve limitarsi a prevedere 
                  un logoramento «normale» di tale forza; ma che cosa 
                  significa normale? Il termine è molto vago e su questo 
                  si sviluppa una controversia tra classe operaia e capitalisti 
                  per definire la durata contrattuale della giornata lavorativa 
                  «normale», che solo la forza può decidere. 
                  In questo senso riprende vigore e attualità nella battaglia 
                  per il superamento della divisione sociale del lavoro – 
                  ma anche per l'allargamento e la radicalizzazione del processo 
                  per una vera democrazia sociale – il superamento della 
                  divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale che richiede 
                  inevitabilmente un'imprescindibile «democratizzazione 
                  delle competenze» (come profeticamente sottolineato a 
                  suo tempo da Bakunin e Kropotkin), che a sua volta presuppone 
                  una formazione permanente, generale, professionale, inconcepibile 
                  senza una riduzione sostanziale del tempo di lavoro necessario. 
                  La democratizzazione delle capacità costituisce anche 
                  una delle condizioni affinché un maggior numero d'individui 
                  possa accedere all'esercizio di mansioni professionali qualificate, 
                  complesse e creative. E, nondimeno, una condizione per accedere 
                  ai processi politici decisionali, così come all'autogestione 
                  dei compiti collettivi e alla produzione sociale nel suo complesso, 
                  processi fondamentali per l'avvio di un percorso di transizione 
                  da una società ineguale a una egualitaria e libertaria. 
                  Liberarsi dal lavoro necessario, riducendolo al minimo indispensabile, 
                  non impedisce tuttavia di cercare di liberarsi da ciò 
                  che ne resterà, ossia di cercare di trasformarne profondamente 
                  i modi e i contenuti. Insomma, se occorre lavorare meno per 
                  poter lavorare tutti, si tratta nello stesso tempo di lavorare 
                  in maniera diversa. 
                  Inoltre, ogni politica di riduzione del tempo di lavoro prevede 
                  dunque necessariamente, in una forma o in un'altra, un «reddito 
                  sociale garantito». Nelle mani della classe dominante, 
                  il reddito sociale garantito diventa un «salario di disoccupazione 
                  e di precarietà», un «aiuto caritatevole» 
                  che la società capitalista concede a coloro che essa 
                  stessa emargina. In questa versione, il reddito sociale garantito 
                  ha unicamente lo scopo di rendere l'esclusione sopportabile, 
                  permettendo a questa società di perpetuarsi e scongiurare 
                  rischi della crisi economica e politica. Al contrario, la forma 
                  di reddito sociale garantito che il movimento operaio e le forze 
                  rivoluzionarie dovrebbero rivendicare, dovrebbe avere un'altra 
                  natura. 
                  Occorre difendere un'idea di reddito sociale garantito come 
                  diritto riconosciuto dalla società a ciascuno per tutta 
                  la durata della vita, come controparte dell'obbligo di partecipare 
                  al lavoro socialmente indispensabile che necessariamente e progressivamente 
                  si ridurrà. Solo in questa forma, il reddito sociale 
                  garantito rispetta la dignità e, soprattutto, la libertà 
                  dell'individuo conferendogli un diritto sulla società 
                  come contropartita dell'adempimento dell'obbligo sociale. Le 
                  forme di «reddito minimo» proposte, o messe in atto, 
                  costringono invece la persona nella condizione di proscritto, 
                  a cui è impedita la possibilità di condurre una 
                  normale vita sociale a cui degli organismi, pubblici o privati, 
                  possono in ogni momento chiedere conto. 
                  Da un punto di vista rivoluzionario e libertario, la proposta, 
                  ad esempio, del «reddito di cittadinanza» andrebbe 
                  liquidata come l'espressione moderna dell'antico sogno piccolo 
                  borghese di un capitalismo per soli borghesi. Si immagina infatti 
                  un mondo con più redditi senza porre la domanda dell'origine 
                  del valore. La produzione di merci non interessa, l'importante 
                  sono i soldi. Idolatria del denaro in versione hardcore, 
                  o come ha scritto l'economista punk-marxista Giulio Palermo, 
                  un «nuovo feticcio dell'economia volgare»! Pretendiamo 
                  dai giovani lavoro senza retribuzione (tra stage, tempo di lavoro 
                  a scuola, volontariato ecc) però si pensa di dare un 
                  reddito in cambio di nessun lavoro che è comunque una 
                  forma di marginalizzazione delle nuove generazioni. 
                  Il lavoro, la civiltà del lavoro, dunque, che si è 
                  affermata dalla Rivoluzione industriale ai nostri giorni non 
                  è, e non può essere, il fine principale del futuro 
                  dell'umanità. Questo abbiamo il dovere di comunicare 
                  e trasmettere alle presenti e future generazioni. Lo sviluppo 
                  dell'umanità e la sua felicità dipenderanno, al 
                  contrario, da quanto riusciremo a liberarci dal lavoro come 
                  esso è inteso oggi, per riconquistare il nostro tempo, 
                  la nostra vita, rivendicando anche il «diritto all'ozio». 
                Franco Bertolucci 
                Questo testo è un estratto della relazione presentata al Festival 
                  Con_Vivere, Carrara, 6-9 settembre 2018. 
                 
   
                
                   
                     Leggere il lavoro 
                      A. 
                        Accornero, Il lavoro come ideologia, Bologna, Il 
                        mulino, 1980. 
                        Id., Era il secolo del lavoro, Bologna, Il mulino, 
                        2000. 
                        R. Antunes, Addio al lavoro? Metamorfosi del mondo 
                        del lavoro nell'età della globalizzazione, 
                        Pisa, BFS, 2002. 
                        M.A. Bakunin, Libertà, uguaglianza, rivoluzione, 
                        Milano, Edizioni Antistato, 1976. 
                        M. Bergamaschi (a cura di), Questione di ore. Orario 
                        e tempo di lavoro dall'800 ad oggi, Pisa, BFS, 1997. 
                        C. Berneri, Il lavoro attraente, Ginevra, C. Frigerio, 
                        1938. 
                        A. Bihr, Dall'«assalto al cielo» all'«alternativa». 
                        La crisi del movimento operaio europeo, Pisa, BFS, 
                        1995. 
                        B. Black, L'abolizione del lavoro, Torino, Nautilus, 
                        1992. 
                        A.M. Bonanno, Distruggiamo il lavoro, Opuscoli 
                        provvisori – 4, 2013. 
                        C. Cafiero, Compendio del capitale, Pisa, BFS, 
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                        Roma, Edizioni lavoro, 1994. 
                        J. Hickel, The Divide. Giuda per risolvere la disuguaglianza 
                        globale, Milano, Il Saggiatore, 2018 
                        Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, Roma, 
                        DeriveApprodi, 2003. 
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                        J. Rifkin, La fine del lavoro: il declino della forza 
                        lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato, 
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