   
                 
                 
                Pierre Mac Orlan/ Dal canto dei marinai al “viaggio immobile” 
                 
                La tradizione per sfondo 
                Una delle più grandi tradizioni della musica popolare 
                  dei porti del nord riguarda le “canzoni dei marinai”, 
                  una tradizione di canti di lavoro e di canti narrativi, canti 
                  collettivi di sole voci (talvolta con qualche accenno di elementari 
                  polifonie) e canti individuali di lunghe e tenebrose storie 
                  accompagnate dall'organetto, o più raramente dal violino 
                  e dalla chitarra. La sua origine - come spesso avviene per i 
                  canti di lavoro - nasce dalla necessità professionale 
                  di darsi il ritmo per compiere una serie di operazioni collettive, 
                  di sforzi necessariamente congiunti: issare l'ancora, ammainare 
                  le vele, calare le scialuppe per la pesca alla balena, ecc. 
                  Le “chansons des marines” sono strutturate con un 
                  solista che lancia una frase «C'est Jean-François 
                  de Nantes» e il coro risponde (agendo contemporaneamente 
                  sull'argano) «Oué, oué, oué», 
                  il solista riprende «Gabier de la Fringante, oh mes bouées» 
                  e il coro «Jean-François».  
                  Sulle navi si cantava per lavorare ma anche per riposarsi, durante 
                  le lunghissime traversate o bonacce si cantavano lunghe epopee 
                  narrative o canto di rivendicazione professionale in equilibrio 
                  fra l'ironia e la protesta, come questo splendido testo relativo 
                  al durissimo lavoro dei “calfattori” (coloro che 
                  impermeabilizzavano il fondo delle navi). 
                   
                  Quando una nave va alla rada 
                  Come quella che vedete là 
                  Non sapete la fatica e la pena 
                  Che si devono dare i ragazzi di sotto 
                  Fra le stoppe incatramate 
                  Guardate bene questi ragazzi 
                  È la mia scialuppa, il mio equipaggio 
                  Sono tutti calfattori 
                  Si vedono dappertutto dei ministri 
                  Senatori e deputati 
                  Carpentieri e falegnami 
                  Persino doganieri in pensione. 
                  Si trovano donne delle pulizie 
                  Nutrici e soldataglia 
                  Manca il lavoro, maledizione 
                  Solo per i calfattori. 
                   
                  Lo giuro sul remo di bordo 
                  Che avevamo tanto da sgobbare 
                  Che vidi la mia scialuppa 
                  Ogni stagione sputare il sangue 
                  Ma oggigiorno, parola mia 
                  Addio mazzuole e gomene 
                  Con tutte le vernici acriliche 
                  Non servono calfattori. 
                   
                  Ora che il bordo è di lamiera 
                  Non c'è più modo di cavare un soldo 
                  Soppressa la calafatteria  
                  Che roba bella questo progresso! 
                  Che schifo di lavori faranno i nostri figli? 
                  Saranno ingegneri o avvocati? 
                  Tanto vale dar fuoco ai remi 
                  Niente più calfattori! 
                   
                  In Francia il luogo d'elezione delle “chansons des marines” 
                  sta in quella costa a Nord-Ovest che va dal fondoschiena della 
                  Bretagna alla fronte martoriata della Normandia, nelle canzoni 
                  stesse abbondano i toponimi costieri: La Rochelle, Lorient, 
                  Concarneau, Brest, Roscoff, Lannion, Saint-Malo, Cancale, Le 
                  Havre, Calais, come quelli di alcune delle principali città 
                  dell'entroterra: Nantes, Rennes, Caen, Rouen. Nella dirimpettaia 
                  Inghilterra si inciampa sovente nelle medesime melodie e nelle 
                  stesse storie, arricchite da canti specifici di pesca e da reminiscenze 
                  della tradizione piratesca (ricordate il celeberrimo “quindici 
                  uomini/sulla cassa del morto/e una bottiglia di rum” dell'Isola 
                  del Tesoro di Stevenson?), il repertorio spesso è 
                  comune e gli scambi anglo-francesi estremamente fluidi, essendo 
                  i marinai sovente poliglotti e arricchendo il loro linguaggio 
                  di infinite influenze, prima fra tutte il gergo specifico dei 
                  porti. 
                 
                
                  Dalla “chanson réaliste” 
                    ai grandi cantautori 
                 
                Un repertorio così ramificato e significativo, presente nel patrimonio condiviso della memoria orale, rappresenta un'ineludibile fonte di ispirazione e di confronto: abbiamo già alluso a Stevenson, immenso narratore nutrito dalle leggende popolari, nella tradizione francofona lo ritroviamo dai feuilleton di consumo fino alla letteratura accademicamente riconosciuta, nei versi sghembi del maledetto e anarcoide Tristan Corbière (figlio di un capitano e scrittore di storie di marineria), in quelli dell'onirico Gérard de Nerval, ma anche in un poeta eminentemente urbano come Baudelaire. 
Ovviamente è però nella canzone che le “uova poetiche” depositate da Gabbiani e Albatri sono state meglio covate e più si sono dischiuse. Gli ambienti dei porti sono ambienti estremamente equivoci, luoghi per loro natura fuori dal controllo, riverberano dell'ambiguità sessuale che è un topos marinaio, sono fitti di avventurieri, truffatori, giocatori di professioni, contrabbandieri, sono luoghi cosmopoliti, multiculturali, rissosi e frequentati da ogni forma di prostituzione. Una sorta di vivaio di tutto ciò che di più affascinante e spaventoso la borghesia a cavallo fra otto e novecento potesse figurarsi. Non c'è da stupirsi dunque se la “canzone realista”, che conobbe il massimo splendore fra gli anni trenta e quaranta con Damia e Frehel, culminando e finendo con Edith Piaf, riverberi spessissimo atmosfere, reminiscenze e ritmi delle canzoni marinare. I cantautori fioriti fra gli anni cinquanta e settanta tributarono profondi omaggi al genere: Brassens con “La Marine” (da un testo del poeta Paul Fort) e con “Jehan l'Advenu” (Norge-Yvart), Brel con la meravigliosa “Amsterdam” e con la quasi filologica “L'éclusier” (che ricorda molto “Le calfat” che abbiamo citato qualche riga sopra), Ferré con “Rotterdam”, Renaud con “Des Que Le Vent Soufflera” e “Trois matelots”, fino ad arrivare ai giorni nostri col rock dei maledettissimi Noir Desir “Aux sombres héros de l'amer” e la “nuova scena” dei Têtes Raides o della Tordue.  
In verità le leggendarie atmosfere brumose della stessa Parigi, i “quai”, ovvero i larghi moli sul Lungosenna, con le centinaia di chiatte che facevano da abitazione, bar, trattoria, trasformavano anche la metropoli per antonomasia in una sorta di città portuale e la sua Bohème in una collettiva avventura salmastra, soprattutto per merito di tre narratori eccezionali quali Simenon, Malet e il loro “maestro” Pierre Mac Orlan. 
Dagli anni settanta, con la rinnovata passione del folklore e con la sua strumentalizzazione da parte dei movimenti indipendentisti-nazionalisti, le canzoni dei marinai sono divenute un repertorio molto turistico: le si può ascoltare, in meccaniche versioni banalizzate e oratoriali, in ogni pub della costa francese e in alcuni festival appositamente promossi dalle pro-loco bretoni e normanne. 
                Percorsi di un avventuriero immobile 
                Chi più di tutti contribuì a dare nuova linfa 
                  e una precisa identità ai canti dei marinai, alle storie 
                  dei porti, ai canti di argomento militaresco (in particolar 
                  modo relativi alla Legione Straniera), alle atmosfere “montmartrois”, 
                  fondendo tutte queste diverse scenografie in un'unica epopea 
                  culturale - che noi definiremmo globalmente canzoni della “mala” 
                  o della “leggera” - fu una delle più singolari 
                  (e per noi italiani quasi sconosciuta) figure della letteratura 
                  del novecento francese, Pierre Mac Orlan. Lo fece in un buon 
                  numero di romanzi e novelle (e nei film da essi tratti), nei 
                  saggi rievocativi, negli articoli, ma soprattutto in un canzoniere 
                  non piccolo ma nemmeno sterminato (una cinquantina di brani) 
                  che per valore lo collocano all'apice della storia della canzone 
                  d'autore. Un apice a noi ignoto. 
                  Mac Orlan (pseudonimo di Pierre Dumarchais 1882-1970) era un 
                  provinciale della piccolissima borghesia, sbarcato a Parigi 
                  - come tanti suoi contemporanei in cerca di fortuna - per tentarvi 
                  la carriera di pittore. Fu amico di Apollinaire, di Picasso, 
                  del proto-cantautore Bruant, sposò la figliastra del 
                  mitologico Père Frédé (il padrone del Lapin 
                  Agile, ex Chat Noir, il più famoso dei cabaret di Montmartre). 
                  Quando quell'ambiente non ebbe più niente da dare alla 
                  sua immaginazione si trasferì in una casa di campagna 
                  (dopo la morte divenuta la sua casa-museo) e vi restò 
                  tutto il resto della sua lunga vita, uscendo il meno possibile. 
                  Nei primi anni della fame parigina era sopravvissuto scrivendo 
                  romanzi pornografici, il che gli permise di reinventarsi come 
                  scrittore tout-court di storie d'avventura: “Quai 
                  des brumes”, “Il porto delle nebbie” il suo 
                  libro più famoso, divenne anche un film celeberrimo sceneggiato 
                  da Prévert, diretto da Carné e interpretato da 
                  Gabin. La sua narrativa, al contempo guittesca e metafisica, 
                  fu forse - per interessi e qualità letteraria - l'ultima 
                  grande sintesi di quella tradizione che portava da Villon a 
                  Sue e Hugo, benché già impregnata delle inquietudini 
                  novecentesche. Gli si riconosce uno stile impareggiabile, l'editore 
                  Adelphi negli ultimi anni ne ha riproposto qualche libro in 
                  italiano. Da sempre amante delle canzoni e strimpellatore di 
                  fisarmonica, Mac Orlan, fra gli anni cinquanta e sessanta, compose 
                  - con l'ausilio di qualche musicista fidato e per una sceltissima 
                  rosa di interpreti quali Juliette Gréco, Germaine Montero, 
                  Monique Morelli, Catherine Sauvage - il repertorio che in particolare 
                  interessa noi. 
                
                   
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                    |   La copertina del libro di Pierre Mac Orlan Le chant de l'equipage  | 
                   
                  
                «Mac Orlan inventa ricordi per chi non ne ha» 
                Questa lapidaria definizione di Brassens, che frequentò Mac Orlan negli anni sessanta, inchioda Pierre al suo ruolo più geniale e subdolo: strappate dal contesto e dall'equilibrio di una pagina letteraria, le storie appena accennate delle sue canzoni scavano qualcosa dentro, comunicano la nostalgia del non provato. Vi si trova la sapienza del miniaturista che in pochi versi dipinge un destino, la finezza psicologica del grande conoscitore di anime, la potenza evocativa del canto popolare. Ecco che il bagaglio condiviso delle “chansons de marines”, della loro semplicità misteriosissima, dei movimenti ritmici e melodici essenziali, diventa il sottofondo su cui si muovono questi personaggi dei quali conosciamo il nome e pochissimo altro. Ma dietro un nome c'è sempre un volto e col volto un destino. Prostitute che hanno smesso di fare quella vita, che si sono vendute a un solo marito che non amano, ma che non hanno più ritrovato la purezza del loro primo giro sui cavallini di legno di una giostra di paese, come nel capolavoro “La chanson de Margaret” (interpretata in modo sublime da Juliette Gréco). Nelly - stesso nome del personaggio femminile del “Porto delle nebbie” - che prende l'ultima sbronza prima di veder sparire nella bruma il suo amore sorto dal nulla, inghiottito da una legione straniera. Rose-de-bois con i suoi occhi ribelli da zingara, che combatte la fame sempiterna raspando nelle gamelle dei soldati.  
Mac Orlan sa bene come ogni parola, più che svelare, approfondisce il mistero dell'esistenza. Questo reazionario raccontava solo storie di sottoproletari in rivolta, questo avventuriero - con pochissime eccezioni - non usciva mai di casa, quest'uomo non parlava mai di sé, ma per tutta la vita ha inseguito con la scrittura il fantasma del fratello anarchico, arruolato nella legione straniera e morto in battaglia col cranio trapanato. 
                Mac Orlan a Sanremo 
                Le canzoni di Mac Orlan - nemmeno a dirlo - sono in Italia del tutto sconosciute, un continente da esplorare. Su cortese sollecitazione del Premio Tenco, io e i miei collaboratori, abbiamo deciso di presentarne un piccolo florilegio, in versioni cantate in italiano, appositamente approntate per l'occasione. Oltre ai brani di Mac Orlan, qualche frammento di “Chanson des marines” e di canzoni d'autore a quelle ispirate, proveranno a fornire una mappa per quest'ennesimo viaggio nell'isola del tesoro della canzone mondiale. Se il prossimo 18 ottobre passate da Sanremo (dove si terrà la quarantunesima edizione della celebre Rassegna), proveremo a guidarvi in questa scoperta. 
 
Fu più o meno nel ventisei 
che Jean della Provvidenza Dei 
entrò nel bistrot di soppiatto 
la fronte bruciata dal sole 
la bocca di poche parole 
il sacco pesante sul petto 
ma il vento si arrese sui fiordi 
nel bar dei miei vecchi ricordi 
c'era Langlois, Tizio e anche Coso 
e c'ero io: la tipa francese 
in cinque eravamo a riposo 
nella taverna dell'irlandese 
Coso e poi Tizio, al tempo che 
c'era Langlois, l'Irlanda e me 
* 
Il vento che soffia dal mare 
ci prende e ci fa navigare 
così due ripresero il volo 
un giorno dopo molti mesi 
nel nulla sparirono quasi 
avessero il diavolo al culo 
così contemplammo l'assenza 
Langlois, io e La Provvidenza 
Facciamo i conti: restavo io 
Langlois e poi questo Jean di Dio 
senza un soldo più per campare 
Langlois andò a riprendersi il mare 
così restammo lì sulle spese 
Jean della Provvidenza e la francese 
* 
Mi chiamano “Bocca Cucita” 
mi disse guardando l'uscita 
col cuore a una nave distante 
se l'alba s'impone allo scuro 
la sfida scavalca ogni muro 
le troie si credono sante 
puntando la vela sui flutti 
partì come fanno un po' tutti 
prima Langlois, Coso e poi Tizio 
restavo io, sola come un vizio 
che cerca compagni e bottiglie 
nel bar delle mie meraviglie 
ne scolai due per conto mio 
per Jean e il resto alla grazia di Dio 
* 
Ma dove saranno i compagni 
i giorni brevi come sogni 
che gli anni poi hanno disfatto 
Tizio e Coso andarono via 
nella vuota scenografia 
del vento più isterico e matto 
che soffiando sui sogni miei 
portò la Provvidenza Dei 
e quando il vento fa tremare 
quelle taverne dei porti di mare 
e gonfia le vele al rimpianto 
come un organetto col canto 
negli anni venti, nei giorni passati 
dove s'incontrano gli innamorati. 
                 Alessio Lega 
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