Parole per vivere 
                Mi è capitato per le mani un romanzo di Jòn Kalman 
                  Stefansson, scrittore islandese della cui esistenza non avevo 
                  alcuna idea, splendidamente tradotto da Iperborea e intitolato 
                  Paradiso e inferno. Storia di marinai lettori, nella 
                  difficile terra nordica di fine '800, la vicenda alla fine racconta 
                  di come si possa essere salvati dall'amore per la letteratura. 
                  E a un certo punto, il ragazzo protagonista, che non ha nome 
                  e che è rimasto solo, pensa che “Le parole non 
                  servono per sopravvivere. Servono per vivere”. Mi è 
                  sembrata una verità profonda, che nel tempo e in questo 
                  difficile XXI secolo rimbalza in testi diversi, determinando 
                  oggi alcune forme inedite di prigionia. 
                  Prendiamo l'opera prima della regista franco-marocchina Houda 
                  Benyamina, Divines (2016). Il film è stato premiato 
                  a Cannes come migliore opera d'esordio e racconta la storia 
                  di una ragazzina meticcia di 15 anni, Dounia, che vive in un 
                  campo nomadi a Les Pyramides, nella desolazione dei poveri che 
                  nulla meritano. Dounia fa quello che fa per togliersi di dosso 
                  una parola: il nomignolo “bâtarde” (bastarda), 
                  che le è stato affibbiato e che lei detesta. È 
                  un bel film, che ragiona su tante questioni importanti: spazi 
                  interstiziali, non appartenenza, degrado urbano e sociale, meccanismi 
                  del potere e ipotesi di riscatto. E tuttavia, questa specifica 
                  caratteristica mi interessa ora: il peso di una parola nella 
                  scelta di un destino, la maledizione di un'etichetta non voluta, 
                  e, alla fine, l'impossibilità di sottrarsi al recinto 
                  simbolico che quella parola istituisce. 
                  Mi sono detta che alla fine, in molti casi e nel mondo reale, 
                  questo facciamo rispetto agli stranieri, quei migranti dei quali 
                  tanto abbiamo paura. Li incaselliamo, imprigionandoli nell'area 
                  semantica – spesso confusa e in trasformazione - designata 
                  da termini sempre inadatti, sempre incompleti, costantemente 
                  privati del loro aggancio col reale. L'arrivo degli stranieri 
                  – migranti? Rifugiati? Richiedenti asilo? Che cosa? – 
                  coincide con la loro reclusione in strutture di varia denominazione. 
                  I più noti sono i C.I. E, Centri di identificazione ed 
                  esplulsione: in sostanza, prigioni, nelle quali chi arriva attende 
                  che gli sia appuntata addosso una parola, e da questa parola 
                  dipenderà un destino. 
                  Il percorso che conduce a ultimare l'attribuzione del termine 
                  giusto è costellato di altre parole, che corrispondono 
                  a procedure giuridiche e amministrative, delle quali spesso 
                  chi arriva è in grado di comprendere poco o nulla, in 
                  parte per mancanza di conoscenze linguistiche, e in parte perché 
                  spesso anche un madrelingua fa fatica a comprendere il lessico 
                  complicato della legge (in Italia e in Europa). È un 
                  fatto che il sistema giuridico europeo abbia dovuto “inventare” 
                  una intera terminologia capace di preservare l'equilibrio tra 
                  i fanatici della purezza (e dunque accaniti sostenitori del 
                  respingimento) e i buoni samaritani, che per certo sono importanti 
                  e fanno un lavoro spesso utile, ma di nuovo finiscono per assecondare 
                  la catalogazione di chi migra come infraumano: qualcosa di più 
                  di un animale ma qualcosa di meno di un essere umano. 
                  
                 Come quello giuridico, anche il lessico delle pseudo-solidarietà 
                  di cui ci racconta Paul Gilroy, studioso militante originario 
                  della Guyana, è costruito su un sottile mascheramento, 
                  potenzia la pietà invece di orientare la comprensione, 
                  presume tacitamente che chi viene assistito si affidi, si lasci 
                  guidare e “sposi”, alla fine, l'ideologia d'arrivo, 
                  abbandonando quella di partenza. 
                  In un mondo e nell'altro (quello giuridico e quello del volontariato), 
                  disponiamo di un lessico limitato, nel quale peschiamo in ogni 
                  circostanza quel che, con un grado plausibile di approssimazione, 
                  si avvicina a rappresentare non una vera protezione per lo straniero, 
                  ma soprattutto una rassicurazione per noi e per il nostro sistema. 
                  In un mondo e nell'altro, quel che in fondo ci interessa stabilire 
                  è un modello di inclusione differenziale, capace di identificare 
                  un ugualmente differenziale accesso ai diritti e ai doveri dello 
                  stato accogliente (o respingente). 
                  Nel 2011, Jurgen Habermas ipotizza l'esistenza fattuale di un 
                  “federalismo europeo” reso coeso solo dalle pratiche 
                  di respingimento, e il medesimo principio ricompare, nel 2013, 
                  in Etienne Balibar, quando lo studioso nota il progressivo edificarsi 
                  di una forma di Apartheid europeo. In questo sistema, che di 
                  recente si è fatto anche intensamente militarizzato, 
                  l'esclusione non è fatta solo di muri, ma anche di un 
                  corredo di “parole” che designano, modellano, rendono 
                  invisibile o annebbiano l'identità di chi si vuole escludere. 
                  Come scrive Raymond Williams nel 1985, prima che arrivassimo 
                  al punto in cui siamo ora, le parole hanno un significato, sono 
                  intensamente vincolanti, modellano specifiche forme di pensiero. 
                  E dal pensiero discende l'azione. Parole belle non possono mascherare 
                  pratiche poco civili. E su questo credo che dovremmo riflettere. 
                 Nicoletta Vallorani      
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