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				 architettura 
                  
                Né servi né padroni: utopie realizzabili 
                  
                di Franco Bunuga 
                    
                Recentemente sono stati pubblicati in traduzione italiana due libri fondamentali per capire l'opera di Yona Friedman, grande architetto utopico, inventore della Ville Spatiale e propugnatore delle Utopie Realizzabili. 
                  
                  Il primo, fresco di stampa è: 
                  Yona Friedman, Utopie Realizzabili, (Quodlibet Bis, Macerata, 
                  2016, pp. 240, € 14,00) con l'aggiunta di un'importante 
                  postfazione di Manuel Orazi che non era presente nella prima 
                  edizione di Quodlibet del 2003. Il corpo principale del saggio 
                  era apparso per la prima volta in Francia nel lontano 1974 e 
                  viene da molti considerata l'opera più significativa 
                  di Friedman. 
                  Con una prosa semplice, senza note o citazioni specialistiche, 
                  adiuvandosi di molti schemi e diagrammi, Yona Friedman dimostra 
                  come sia possibile organizzare un ambiente urbano partendo dalla 
                  comunità, da piccoli gruppi autogestiti che in autocostruzione 
                  definiscono e formano il proprio ambiente. In questo testo Friedman 
                  supera criticamente l'idea di Ville Spatiale che lo aveva 
                  reso celebre internazionalmente e si sofferma sull'analisi dei 
                  movimenti marginali esistenti nella società che possono 
                  essere produttori di utopie. Mette in guardia dalla differenza 
                  sottile tra utopie positive e negative (distopie o cacotopie) 
                  e considera funzionali al suo progetto urbano quelle utopie 
                  non paternaliste, libertarie ed egualitarie e non gerarchiche. 
                  Yona Friedman, ebreo, nato nel 1923 a Budapest segue i corsi 
                  di architettura con un permesso speciale, come auditore, senza 
                  poter conseguire la laurea a causa delle leggi razziali in vigore 
                  in quegli anni nell'Ungheria fascista alleata con Hitler. Fondamentali 
                  per la sua formazione saranno anche i seminari che seguirà 
                  a Budapest di due grandi intellettuali emarginati dal regime: 
                  Kàrol Kerényi, il grande studioso della mitologia 
                  greca e il fisico Werner Karl Heisenberg. Incarcerato per motivi 
                  politici e poi liberato dall'Armata Rossa nel '45, si trasferirà 
                  ad Haifa in Israele, dove finalmente si laureerà in architettura 
                  e progetterà rifugi provvisori per gli immigrati e, allo 
                  scoppio della guerra con gli arabi, trincee e linee di difesa. 
                  Architetture mobili e provvisorie, la base di tutte le sue teorie 
                  architettoniche ed urbane sino ad oggi. 
                  Ad Haifa verrà in contatto anche con gli architetti del 
                  razionalismo internazionale e con le teorie utopiche e libertarie 
                  all'interno del Sionismo. Orazi ci ricorda che durante il mandato 
                  inglese in Palestina, 1917-1948, “erano però presenti 
                  linee di pensiero e di azione eterogenee e in molti casi alternative, 
                  sia sul piano politico sia su quello architettonico: per esempio 
                  l'opera di Erich Mendelsohn, molto legato al sionismo culturale 
                  di Martin Buber, o ancora l'ideologia anti-urbana della città 
                  giardino favorita nei primi anni Venti, in particolare dai sionisti 
                  tedeschi, poi applicata da Richard Kauffmann e culminata nell'adozione 
                  del piano di Patrick Geddes per Tel Aviv del 1924.” Teorie 
                  che influenzarono le prime ricerche di Friedman. È forse 
                  in questo ambiente che Friedman verrà a conoscenza della 
                  Scuola di Edimburgo nata da Geddes e che risale alle radici 
                  anarchiche di Pëtr Kropotkin ed Élisée Reclus. 
                  Certo Yona Friedman non può essere considerato anarchico, 
                  ma i suoi contatti con Michel Ragon a Parigi, all'epoca divenuto 
                  figura preminente nella Federazione Anarchica Francese, che 
                  lo inviterà nel gruppo di architetti libertari GIAP e 
                  più tardi con Giancarlo De Carlo che lo ospiterà 
                  spesso su Spazio e Società e col quale spesso 
                  viene accomunato per la pratica della partecipazione, fanno 
                  di lui un libertario, tanto che alcuni critici non esitano a 
                  definirlo, in modo un po' superficiale, un anarchico individualista. 
                  Certo, considerando il titolo di uno dei suoi libri Comment 
                  vivre avec les autres sans être chef et sans être 
                  esclave? (Come vivere con gli altri senza essere servi né 
                  padroni) almeno qualche slogan fondamentale con noi lo condivideva. 
                
                   
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                    |   Brescia, Galleria Minini, 2009 - Franco Bunuga e Yona Friedman  | 
                   
                  
                Autocostruzione e autogestione 
                Friedman presenta nel '56 il suo Manifeste de l'architecture 
                  mobile al X Congresso Internazionale di Architettura Moderna 
                  di Dubrovnick dove partecipa alla dissidenza del Team X. Si 
                  trasferisce definitivamente a Parigi nel '57, nell'appartamento 
                  che ancora occupa, e lì rielaborerà il suo modello 
                  di Ville Spatiale: una megastruttura a scala sia urbana 
                  che regionale composta da pilastri con ascensori verticali e 
                  una piastra con ascensori orizzontali. Una grande struttura 
                  tecnologica che si sviluppa al di sopra del paesaggio e delle 
                  preesistenze urbane. Una sorta di Megastruttura – progettata 
                  dagli architetti – sulla quale si diffonde una variegata 
                  struttura abitativa progettata in autocostruzione ed autogestione 
                  dai futuri abitanti, una “architettura mobile”. 
                  Questa struttura ovviamente aveva bisogno di una grande fonte 
                  di energia e fu presa molto sul serio dalla amministrazione 
                  francese che negli anni del dopoguerra aveva un grande problema 
                  di insediamenti abitativi e una disponibilità energetica 
                  molto alta grazie al piano delle centrali nucleari, anche se 
                  poi nulla venne realizzato. 
                  La pubblicazione del testo Utopie Realizzabili fu anche 
                  una presa di distanza di Friedman dal nucleare e un recupero 
                  delle tecnologie alternative in un forte senso comunitario. 
                  L'affermazione più importante di Yona Friedman in Utopie 
                  Realizzabili è che solo l'autodeterminazione dell'utente 
                  della struttura, dell'abitante, permette il corretto funzionamento 
                  di un insediamento. L'autodeterminazione dell'abitante è 
                  superiore a qualsiasi pianificazione che venga dall'alto e risolve 
                  i problemi che nessun governo o progettista è in grado 
                  di risolvere. 
                   L'insediarsi 
                  (così definisce il processo di autocostruzione da parte 
                  dei settlers) è una sorta di atto rivoluzionario, 
                  è un voto attraverso gli atti. I problemi dell'insediamento 
                  non possono essere risolti da altri se non dalla comunità 
                  degli effettivi utenti. Friedman prevede anche la costruzione 
                  di orti urbani autosufficienti ed introduce il concetto di Urban 
                  Village, il villaggio urbano come entità politica 
                  e sottodivisione di ogni città di grandi dimensioni che 
                  permetta la partecipazione dal basso ed una sorta di federalismo. 
                  Murray Bookchin proporrà idee molto simili nella sua 
                  teoria della Citification. Tutte queste proposte sono 
                  ancora oggi attuali e veramente rivoluzionarie. 
                La diluizione dell'Architettura 
                Nel 2015 era già uscito per i tipi della Park Books di Zurigo il saggio Yona Friedman The diluition of architecture a cura di Nader Seraj e con un doppio autore, Yona Friedman e Manuel Orazi (pp. 582, € 48,00). Un testo indispensabile sia per chi, come me, credeva di sapere tutto su Yona Friedman che per chi vuole accostarsi all'opera del grande maestro inventore della Ville Spatiale, uno dei guru di noi architetti sessantottini e grande riscoperta degli ultimi anni insieme a molti dei rappresentanti dell'architettura utopica e radicale a cavallo degli anni '60 e '70. 
Questo libro nasce dalla pubblicazione della tesi di dottorato del 2007 di Manuel Orazi in Storia dell'Architettura e della Città presso la Fondazione di Studi avanzati in Venezia (SSAV) alla quale si aggiunge il testo di Yona Friedman The diluition of architecture nel quale l'architetto espone i principali temi della sua ricerca divisi per tipologie e argomenti. Completano il tutto una lunga intervista dello steso Orazi a Friedman nella sua casa parigina e come introduzione un bel servizio fotografico di Stefano Graziani che riproduce gli interni dell'abitazione, una delle poche opere esistenti dell'architetto che si va trasformando nella sua casa-museo. 
				Yona risorto (dentro la balena) 
                Yona, come il suo omonimo, è rispuntato dal ventre della 
                  balena che l'aveva inghiottito per un lungo periodo. Negli ultimi 
                  anni abbiamo assistito ad una riscoperta della sua opera. Più 
                  da parte del mondo dell'arte che dell'architettura. È 
                  stato invitato nel 2009 alla Biennale d'Arte Contemporanea di 
                  Venezia dove all'ingresso delle Corderie venne allestita una 
                  sua installazione sospesa, Visualisation of an idea. 
                  Nello stesso anno alla Galleria Minini di Brescia è stata 
                  allestita una sua personale dal titolo Cartoline postali 
                  dove ho avuto il piacere di intervistarlo.1 
                  Da quel momento è stato tutto un nuovo fiorire di interesse 
                  per la sua opera: ripubblicazione dei suoi libri, studi su di 
                  lui, mostre, installazioni ed eventi. Ultime opere di quest'anno: 
                  No man's Land con Jean-Baptiste Decavéle, un'installazione 
                  a Loreto Aprutino, Pescara e La Montagne de Venise sempre 
                  con lo stesso collaboratore ed un gruppo di studenti di Architettura 
                  e arti visive dello IUAV. Quest'ultima una struttura galleggiante, 
                  una sorta di piccola montagna realizzata con la tecnica delle 
                  space chains, elementi leggeri uniti a catena per formare 
                  strutture tridimensionali circolari. 
                  La montagna galleggiante ha percorso dal 28 al 30 settembre 
                  i canali veneziani, per approdare poi il primo ottobre all'interno 
                  della Biennale di Architettura nel bacino dell'Arsenale. Con 
                  mia grande sorpresa, e piacere, negli ultimi recentissimi anni 
                  sono tornati in voga temi quali partecipazione, autocostruzione, 
                  shelter, spazi collettivi, tecnologie povere, argomenti 
                  che sembravano ormai retaggio di un folcloristico mondo hippy 
                  spazzato via dalla dura realtà del mercato globale. Anche 
                  l'ultima, interessante Biennale di Architettura appena conclusa, 
                  affidata ad Alejandro Aravena, si è aperta a questi temi. 
                  E insieme a Yona, quest'anno è risorto anche Christò, 
                  entrambi profeti di un mondo utopico negli anni '60 e '70 e 
                  riscoperti oggi come puro fenomeno artistico e inseriti nel 
                  circo mediatico dell'arte contemporanea. 
                
                   
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                    |   Loreto Aprutino (Pe) - No man's land, di Yona Friedman e Jean-Baptiste Decavéle  | 
                   
                  
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                L'epoca dei BOX 
                Ho avuto il piacere di ascoltare la presentazione di Manuel Orazi di questi due suoi bei testi nella mia vecchia facoltà di architettura, lo IUAV ai Tolentini, a Venezia e proprio nell'aula a gradoni, dove ci affollavamo per ascoltare incantati le lezioni ipnotizzanti del grande Manfredo Tafuri di Storia dell'Architettura. 
Mentre salivo le scale che ho percorso da studente migliaia di volte cercavo qualche sensazione di nostalgico déjà vu ma non riuscivo a comunicare con gli spazi (con i cessi sì, non sono cambiati negli ultimi quarant'anni...), non affioravano ricordi anche se cercavo qualche luogo noto, qualche aula riconoscibile. 
Tutto è stato rimaneggiato. Gli spazi sono funzionali, razionali, ma chiusi. La Biblioteca non comunica con gli altri spazi, i corridoi sono divenuti ambienti di servizio. E tante porte, chiuse. Le vecchie stanze in un'infilata di porte comunicanti sono diventati luoghi privatizzati, dedicati, sono nati nuovi corridoi, separazioni, barriere, materiali e visive, come nei peggiori restauri speculativi dei vecchi palazzi nobiliari; sono diventati spazi rigidi che respingono, intimidiscono e mettono in riga. 
I Tolentini che ricordo sarebbero piaciuti a Yona Friedman: le stanze erano ancora quelle quattrocentesche, ampie e comunicanti. Corridoi zero. E dalla fine degli anni '60 ai primi '70 questi ampi spazi luminosi contenevano un villaggio medievale, meglio una Bidonville o una Favela alla veneziana. Qualcuno li definì un Souk. 
Per recarsi da una parte all'altra dell'Istituto si percorrevano stretti vicoli risultanti dalle costruzioni abusive realizzate dagli studenti: piccoli spazi con due o tre tavoli da disegno, una porta chiusa da un lucchetto - i furti di materiale erano all'ordine del giorno - e fuori una targhetta con il nome del gruppo e dei suoi componenti. Sopra il cielo luminoso del soffitto. Non si andava noi a mostrare i lavori ai docenti, i docenti e gli assistenti passavano nei Box e nelle stanze occupate (dai gruppi più importanti e numerosi) a discutere e suggerire modifiche. 
Un'occupazione che sanciva il rispetto per la vecchia struttura e la creazione di un nuovo ambiente mobile, nomade e collettivo che cambiava forma al cambiare dei gruppi e delle necessità. 
Una Piramide Rovesciata (come recitava un testo di De Carlo sull'università di quegli anni) al vertice della quale stavano le esigenze degli studenti/settlers occupanti attivi che piacevano tanto a Friedman. Un'epoca di creatività eccezionale in cui si lasciava spazio alla genialità così come all'opportunismo (gli esami erano collettivi e spesso solo pure formalità). 
Poi appena il Movimento Studentesco divenne solo un po' più debole, durante una pausa estiva, si demolirono tutti i box e ai Tolentini si iniziò a dividere gli spazi: mura divisorie, porte chiuse e corridoi. Uno spazio che più non riconosco. 
L'architettura di Yona Friedman era possibile in quegli anni con quella fantasia e voglia di cambiare gli spazi e ribaltare le gerarchie, la rivoluzione dei “Boxers dei Tolentini” ne è stato un piccolo esempio. Le architetture di Yona Friedman ci parevano la logica conseguenza della nostra vita quotidiana, erano – e vogliono ancora essere – Utopie Realizzabili. Ma allora esisteva un “popolo utopico” e una forte pulsione al cambiamento sociale. 
				Quei benefattori di Bill Gates e Silvio Berlusconi 
                Quali utopie possiamo immaginare oggi? Forse solo lucide e terrorizzanti distopie o meglio cacotopie. I nuovi modelli di abitare collettivo sono le bidonville per rifugiati diseredati. I rifugiati per cui lavorava il giovane Friedman erano volontari e avevano in mente il sogno di Israele e la comunità socialista e spesso libertaria dei Kibbutz. Le idee nascevano dal desiderio di crescita e di comunità. Gli stessi spazi e strutture oggi sono pensati per essere finalizzati alla decrescita, al controllo sociale e alla frantumazione degli individui estirpati dalla propria comunità. La progettazione di case popolari diviene compito di programmi di charity, non più diritto per cui lottare ma beneficenza, concessione del ricco che non vuole essere disturbato troppo “a casa propria”. 
                  Da Bill Gates a scendere, i ricchissimi del pianeta hanno scoperto 
                  il business e l'utilità sociale delle charity 
                  come prevenzione del dissenso radicale. Anche da noi, come testimonia 
                  l'Espresso: “Santo Papi: Berlusconi si lancia nella beneficenza. 
                  Il progetto della più grande charity del mondo. 
                  Finanziata con fondi personali. L'ex Cavaliere offrirà 
                  un tetto agli italiani colpiti dalla recessione. Le residenze 
                  saranno realizzate con criteri avanzati. Una Milano 2 destinata 
                  ai nuovi poveri per cancellare il bunga bunga e le studentesse 
                  bisognose di via Olgettina”.2 
                 Franco Bunuga 
                
                   
                  - Da: Libertaria, anno 12, n° 1-2, gennaio-giugno 
                    2010 
                  
 - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2016/09/23/news/santo-papi-berlusconi-si-lancia-nella-beneficienza-1.283961?twitter_card=20160929083251 
                
  
                
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