Sardegna/ 
In rivolta contro l'assurdità del sistema giudiziario-carcerario 
                Annino Mele è un detenuto sardo che ha cercato, e trovato, nella scrittura, 
                  un mezzo per rileggere il suo passato e per riflettere sulla 
                  sua attuale condizione di ergastolano, denunciando l'inutile 
                  e ingiusta restrizione a vita a cui è condannato, nonostante 
                  il suo percorso, che potremmo definire di auto-riabilitazione: 
                  poiché Mele, super-latitante ricercato per omicidio e 
                  sequestro di persona, da subito dopo l'arresto, ha cominciato 
                  a prendere le distanze dalle sue scelte violente e criminali, 
                  invitando i compagni della sua banda a rilasciare la vittima 
                  del loro ultimo sequestro (cosa che è prontamente avvenuta) 
                  e lanciando un appello a tutti i banditi e latitanti sardi a 
                  non perseguire più la via dei sequestri e dell'illegalità. 
                  Da quel momento - ed era il 1987 - per Mele è iniziato 
                  comunque, nonostante il suo ravvedimento, il calvario della 
                  detenzione con le angherie, i soprusi, le violenza fisiche e 
                  psicologiche a cui sono sottoposti in gran parte e in ogni carcere, 
                  i detenuti. 
                   La 
                  sua rivolta all'assurdità di un sistema giudiziario-carcerario 
                  che reclude e non rieduca, che isola e non reintegra, Mele l'ha 
                  concretizzata nella protesta aspra e decisa contro le inadempienze 
                  delle strutture che di volta in volta l'hanno ospitato e nella 
                  richiesta di rispetto dei suoi diritti di detenuto, ma anche 
                  nell'informare, attraverso i suoi scritti, su cosa avviene nel 
                  mondo “di dentro” alle sbarre, nell'universo concentrazionario 
                  delle prigioni, dove si viene privati non solo della libertà 
                  ma anche della dignità. 
                  Eppure, nell'ultimo libro del detenuto Mele, scritto assieme 
                  alla giornalista Giulia Spada, a stupire è innanzitutto 
                  l'ottimistico titolo, Quando si vuole (Sensibili alle 
                  foglie, Roma, 2016, pp. 128, € 15,00), che testimonia la 
                  fiducia nella possibilità di un cambiamento, individuale 
                  e collettivo, che porti ad una società migliore, nella 
                  quale, nonostante tutto, credono sia Mele che la Spada, che, 
                  nella diversità delle loro situazioni e prospettive, 
                  si riconoscono accomunati dall'appartenenza allo stesso popolo, 
                  quello della Sardegna, del quale rivendicano le secolari ansie 
                  di indipendenza ed autonomia e le singolari tradizioni. 
                  Dalla rievocazione di quest'ultime, in particolare dall'attaccamento, 
                  quasi sacrale, dei pastori sardi ai boschi, inizia il racconto 
                  autobiografico di Mele che costituisce la prima parte del libro: 
                  vengono fuori le memorie della latitanza, fatta di fughe e di 
                  soste nei più remoti anfratti dei fitti boschi dell'interno 
                  della Sardegna; le gesta dei banditi con le loro prede umane 
                  in ostaggio, merce di scambio e di riscatto; i ricordi della 
                  strenua lotta dei contadini e dei latitanti contro il fuoco 
                  che divampava a volte, per la disattenzione di qualcuno, e che 
                  rischiava di compromettere il lavoro degli agricoltori e degli 
                  allevatori e al contempo metteva a rischio i latitanti, “smascherandone” 
                  i rifugi e costringendoli a nuovi ripari, lontani dalle fiamme 
                  e dall'esercito di uomini (forze dell'ordine, pompieri, guardie 
                  forestali) impegnati a spegnerle. 
                  E nelle rievocazioni di Mele, tra minute descrizioni della vita 
                  in clandestinità e ricostruzioni storiche-sociali delle 
                  origini e dello sviluppo del banditismo, ampio spazio trovano 
                  alcune proposte, costruttive, di far ripartire l'economia dell' 
                  Isola non da improbabili e dannosi piani industriali, ma proprio 
                  dalla valorizzazione di alcuni aspetti specifici e persistenti 
                  che l'hanno nel tempo caratterizzata, come, ad esempio: l'allevamento 
                  allo stato brado del suino nero, razza rara e pregiata; la tenace 
                  conservazione dell'habitat naturale; la presenza di paesaggi, 
                  suggestivi e unici, ancora intatti e di paesi dalla vita a misura 
                  d'uomo: tutto questo, argomenta con passione e rigore propositivo 
                  Mele, potrebbe richiamare un turismo misurato e sostenibile, 
                  che, lontano dalle mete e dai consumi di massa, troverebbe nell'Isola 
                  cibi genuini e luoghi d'incanto. La visione e la speranza di 
                  Mele, di una Sardegna liberata dal crimine (non più orizzonte 
                  inseguito dai giovani, finalmente occupati in lavori gratificanti 
                  e redditizi), continua nella seconda parte del libro, con la 
                  contestazione della legittimità e dell'esistenza stessa 
                  dei luoghi che il crimine dovrebbero “combattere” 
                  e non lo fanno: le carceri. 
                  Sempre attraverso la narrazione di vicende personali o direttamente 
                  conosciute, dall'interno da Mele, dall'esterno dalla Spada (studiosa 
                  e autrice di inchieste sul carcere e sulle “retoriche 
                  del corpo recluso”), viene vivisezionata la pratica ottusa 
                  del “sorvegliare e punire” che anima la “giustizia” 
                  carceraria, nell'assenza permanente di una qualsivoglia politica 
                  di prevenzione dei delitti e di remissione giustificata delle 
                  pene. I due autori, mostrando l'orrore dei luoghi, anche moderni, 
                  di detenzione, come il carcere di Opera, nel milanese - dove 
                  violenze e umiliazioni sono all'ordine del giorno e il mancato 
                  rispetto dei sacrosanti diritti umani investe non solo i detenuti 
                  ma anche i loro parenti e amici visitatori - provano a immaginare 
                  un uso possibile e creativo del dismesso edificio che ha ospitato 
                  sino al 2015 il carcere del Buoncammino a Cagliari: nei suoi 
                  enormi spazi, dati in gestione a cooperative giovanili, potrebbero 
                  essere ospitate biblioteche, centri di studio e di progettazione 
                  economica, laboratori artistici e musicali, etc. 
                  Il libro di Mele e della Spada è ricco di note storiche 
                  che aiutano a capire genesi e forme del banditismo sardo, come 
                  reazione alle “chiudende” (le leggi di Re Vittorio 
                  Emanuele I, che privatizzarono, nel 1820, le terre demaniali, 
                  da secoli a disposizione dei pastori sardi) e poi via via come 
                  forma di ribellismo selvaggio e individualistico ad ogni forma 
                  di potere centrale e invasivo; ma contiene, soprattutto, la 
                  lucida testimonianza di un detenuto che altro non cerca che 
                  spazi maggiori di autonomia e libertà, dopo una maturazione 
                  umana e spirituale più che evidente e dimostrata, affidando 
                  questa sua più che legittima pretesa alla volontà 
                  degli uomini che possono (“Quando si vuole...”) 
                  “abbattere le barriere di egoismo e di ignoranza che dividono 
                  e allontanano”. 
                 Silvestro Livolsi 
                   
                      
                Le poesie di Giovanni Marini/ 
Un poeta dietro le sbarre (e dopo) 
                 Come 
                  Giovanni Marini, il poeta dei folli e dei giusti, che 
                  vi nasce il 1 gennaio 1942, anche il curatore del libro Silvio 
                  Masullo è nato a Sacco, nel Cilento interno. Questa “compaesanità” 
                  e la constatazione che la poesia e la poetica di Giovanni Marini 
                  sono state dimenticate, lo ha meritoriamente spinto a curare 
                  e a proporre - insieme all'archeologa Lucia Cariello - una nuova 
                  edizione della raccolta E noi folli e giusti, pubblicata 
                  nel 1975 dall'editore Marsilio di Venezia, Premio Viareggio 
                  nello stesso anno, mentre Marini sconta dodici anni di carcere, 
                  inflittigli per omicidio volontario l'11 luglio 1974 dal tribunale 
                  di Vallo della Lucania. La sentenza è attesa nella notte 
                  da centinaia di compagni e compagne venuti da ogni parte d'Italia, 
                  accampati nei giardini di fronte al tribunale (tra loro, anche 
                  chi scrive, che aveva seguito il processo per la stampa anarchica 
                  italiana, spagnola e francese). 
                  A Sacco, il padre è responsabile del locale ufficio di 
                  collocamento e amministratore comunale con la lista popolare 
                  della Spiga. I contadini vanno a trovarlo a casa anche la sera, 
                  dopo che l'ufficio è chiuso e dopo una dura giornata 
                  di lavoro e, a volte, lo ringraziano per i piaceri che 
                  fa con i prodotti del lavoro e della terra, portandogli un pezzo 
                  di formaggio, ortaggi e le tavolette di cioccolata che mandavano 
                  gli emigranti e che Giovanni - come testimonia il racconto di 
                  Masullo - sottraeva e distribuiva agli altri ragazzi, compagni 
                  di escursione e meno fortunati. 
                  Marini, dopo aver fatto un'esperienza come studente nel lontano 
                  seminario di Vallo della Lucania, con la sua famiglia si trasferisce 
                  a Salerno, dove il padre è stato nominato ispettore del 
                  lavoro. Frequenta l'istituto tecnico-commerciale De Martino, 
                  del quale è preside Raffaele Monaco, originario di Sacco, 
                  ex-partigiano nelle valli di Cuneo. Milita nel PCI e nei gruppi 
                  della sinistra, prima di diventare anarchico attratto - secondo 
                  Masullo - da figure come Camillo Berneri e dalla tragica morte 
                  di Giuseppe Pinelli. Intanto lavora a Monza e a Bologna, poi 
                  rientra a Salerno. 
                  Dopo lo strano incidente della notte del 26 settembre 1970 - 
                  nel quale perdono la vita cinque compagni calabresi diretti 
                  a Roma per consegnare i risultati (spariti nell'incidente) di 
                  un'inchiesta sugli attentati fascisti ai treni che portavano 
                  i lavoratori in Calabria - viene incaricato di indagare sul 
                  camionista salernitano che ha provocato il mortale incidente 
                  e che risulta iscritto al MSI. Salerno, in quegli anni, è 
                  una città con una larga maggioranza fascista e spesso 
                  l'on. Almirante vi teneva comizi. Da allora, per Marini, cominciano 
                  le provocazioni, le minacce e le telefonate anonime e minatorie. 
                  Nella prima serata del 7 luglio 1972, mentre passeggia tranquillamente 
                  sul bel lungomare di Salerno ed è in compagnia di Gennaro 
                  Scariati, viene provocato con una gomitata da un giovane fascista, 
                  ma Marini non reagisce anche perché si è reso 
                  conto che il lungomare è pieno di fascisti, che probabilmente 
                  aspettano la sua reazione per picchiarlo. L'incidente finisce 
                  lì, o almeno così sembra. Più tardi ha 
                  appuntamento con Francesco Mastrogiovanni per andare a teatro. 
                  Percorrendo la strada che li porta a teatro, in Via Velia incontrano 
                  i due fascisti che percorrono l'altro lato. Poco più 
                  sopra c'è la sede del MSI. Marini informa Mastrogiovanni 
                  che sono i fascisti che lo hanno provocato e Mastrogiovanni 
                  lo rassicura: «Non ti preoccupare, adesso ci vado a parlare 
                  io». Attraversa la strada e chiede: «Che volete? 
                  Che vi abbiamo fatto?». Per tutta risposta vede luccicare 
                  la lama di un coltello che lo ferisce alla gamba, sviene e cade 
                  nel sangue. A questo punto interviene Marini, che riesce a disarmare 
                  gli aggressori e, impossessatosi del coltello che ha ferito 
                  Mastrogiovanni, nella colluttazione ferisce Carlo Falvella, 
                  un giovane fascista di 21 anni. I fascisti - di fronte all'imprevista 
                  e coraggiosa reazione - si limitano a soccorrere i due camerati, 
                  mentre Mastrogiovanni, sanguinante per la ferita alla gamba, 
                  ricorre all'autostop per recarsi in ospedale. Poco dopo, Falvella 
                  muore e ai funerali partecipa anche l'on. Almirante, che, pochi 
                  mesi prima, in un comizio a Firenze, aveva invitato i giovani 
                  del Fronte della Gioventù a praticare lo «scontro 
                  fisico». 
                  Marini, costituitosi poco dopo, è dichiarato in arresto 
                  insieme a Mastrogiovanni e Scariati, che si costituirà 
                  dopo alcuni giorni e verrà prosciolto in istruttoria, 
                  mentre Mastrogiovanni sarà scarcerato ma imputato per 
                  rissa, poi assolto. 
                  Il processo, iniziato a Salerno il 28 febbraio 1974, sospeso 
                  il 13 marzo per motivi di ordine pubblico, è spostato 
                  a Vallo della Lucania, dove riprende il 30 giugno e la sentenza 
                  viene pronunziata l'11 luglio 1974. Al processo d'appello - 
                  che si tiene a Salerno dal 2 al 23 aprile 1975 - la condanna 
                  è ridotta a nove anni di carcere. Ne sconta sette. 
                  Durante la dura carcerazione, Marini denunzia le incivili e 
                  aberranti condizioni carcerarie e per punizione è mandato 
                  da un carcere all'altro e nel carcere di Caltanissetta è 
                  rinchiuso in una cella buia e umida. 
                  Nel carcere trova un conforto nella poesia e - con le catene 
                  ai polsi - nel 1975 pubblica il volume E noi folli e giusti, 
                  che ottiene un lusinghiero successo letterario e di pubblico 
                  e vince il Premio Viareggio. Scarcerato nel 1979, continua a 
                  pubblicare per proprio conto dei libricini di poesia, che vende 
                  o dona a un ristretto gruppo di compagni e di amici. 
                  Silvio Masullo e Lucia Cariello hanno il merito di aver riunito, 
                  attraverso un lavoro meticoloso e paziente, in un unico volume 
                  E noi folli e giusti e parte della successiva e introvabile 
                  produzione poetica di Giovanni Marini, che muore a Salerno il 
                  23 dicembre 2001. 
                  La raccolta (Giovanni Marini. Il poeta degli anni di piombo, 
                  Casa Editrice Kimerik, Patti - Me, pp. 234, € 16,00) è 
                  stata presentata a Sacco lo scorso 6 agosto e ha consentito 
                  ai paesani di scoprire la dimensione poetica e umana di quel 
                  loro concittadino finito in carcere. Nell'aula comunale è 
                  presente un numeroso pubblico. Al tavolo, oltre i due autori 
                  e il sottoscritto, il sindaco Claudio Saggese, il dott. Ubaldo 
                  Baldi (che nel 1972 militava ne «Il Manifesto»), 
                  l'ex senatore Alfonso Andria e l'on. Tino Iannuzzi e Mastrangelo 
                  della Banca Cooperativa di Monte Pruno di Roscigno che ha contribuito 
                  alla realizzazione del libro e della manifestazione. Dall'altro 
                  mondo, se c'è, probabilmente l'anarchico Marini ha sorriso 
                  a vedere una banca e esponenti della Democrazia Cristiana di 
                  una volta alla presentazione del suo libro... 
                  Pur apprezzando quest'omaggio e questa iniziativa, mi sia tuttavia 
                  consentito di dissentire da Silvio Masullo quando afferma che 
                  ha voluto solo operare un recupero e una valorizzazione della 
                  poetica di Marini; quando non fa chiarezza sulle responsabilità 
                  dello scontro dichiarando che «non ha alcuna intenzione 
                  di rinvigorire le ferite e le rabbie del passato, offrendo comodi 
                  pretesti a chicchessia, né tantomeno procedere a improbabili 
                  analisi postume delle responsabilità nelle quali era 
                  maturato il delitto»; quando apre la prefazione riportando 
                  l'invito alla pace e alla cessazione di ogni violenza pronunziato 
                  dal padre di Carlo Falvella e quando chiude la cronologia su 
                  Giovanni Marini citando il «Comitato per Carlo Falvella», 
                  che nel giugno del 2014 ha chiesto di fare del 7 luglio un momento 
                  condiviso per «dare dignità ad una comunità 
                  che si sente spiritualmente legata al ricordo di Carlo Falvella», 
                  dimenticando che è stato proprio Giovanni Marini ad essere 
                  vittima della violenza fascista, tant'è che la sera dello 
                  scontro Marini e gli altri due anarchici erano inermi e disarmati 
                  e, a differenza dei fascisti, credevano nel valore della parola 
                  e della convinzione e non delle coltellate e Mastrogiovanni 
                  che va a parlamentare con i fascisti viene accolto dalle 
                  coltellate. 
                  Il volume Giovanni Marini. Il poeta degli anni di piombo 
                  può essere richiesto telefonando al n. 0941.21503 
                  o scrivendo all'email redazione@kimeric.it. 
                 Giuseppe Galzerano 
                 
                    
                Cosa resta dell'Occidente/ 
Tra decadenza inarrestabile e valori imprescindibili 
È uscito per la casa editrice Elèuthera il libro dell'antropologo Franco La Cecla Elogio dell'occidente (Milano, 2016, pp. 176, € 14,00) di cui pubblichiamo l'introduzione. 
                  
                  
                Intendiamoci, l'Europa, l'Occidente, sono anche la sorgente 
                  di buona parte dei mali del mondo. Una storia di prevaricazione, 
                  di assoggettamento, di schiavismo, di distruzione delle culture 
                  e delle economie altrui. Se si legge la storia dell'Occidente, 
                  non c'è massacro, disastro ambientale ed errore umano 
                  attuale che non abbia già avuto un'anticipazione nella 
                  politica, nell'ideologia, nell'arroganza occidentali. 
                  Da questo punto di vista, i complottisti hanno vita facile. 
                   Tutto 
                  ciò che di marcio oggi c'è nel mondo viene in 
                  un modo o nell'altro dall'Occidente. Basta dunque mettersi dall'altra 
                  parte e si è dal lato della ragione, dal lato dell'arrivano 
                  i nostri, dal lato dei buoni contro i sempiterni cattivi 
                  – America ed Europa – accomunati nell'avere creato 
                  il caos che è oggi il mondo, distruttori di paesi che 
                  avevano un loro equilibrio come Iraq, Afghanistan, Libia, tanto 
                  per citare quelli più conosciuti, fautori di distruzione 
                  in buona parte dell'Africa, dell'Asia, dell'America Latina. 
                  E ancora, principali responsabili della crisi ecologica che 
                  il pianeta sta vivendo oggi, orrendi consumatori di risorse 
                  che sarà impossibile rinnovare, inquinatori mai puniti, 
                  esportatori di bubboni e rifiuti tossici, sostenitori della 
                  folle corsa del capitalismo contro il muro del futuro. C'è 
                  parte del mondo più colpevole dell'Occidente? Di fronte 
                  alle responsabilità occidentali, terrorismo, massacri 
                  di fanatici armati, furia devastatrice di folle inferocite sono 
                  tutte azioni giustificabili. Cosa ci si può aspettare 
                  dal resto del mondo quando l'Occidente ha creato l'orrore che 
                  è alla base di buona parte del male odierno? 
                  Eppure, all'interno dello stesso Occidente c'è una storia 
                  e una geografia che parla d'altro. C'è la storia dell'opposizione 
                  a questa follia, la geografia di individui e di movimenti che 
                  si sono battuti per secoli contro la protervia dei potenti, 
                  contro la devastazione capitalista ed economicista. 
                  C'è la storia di pensieri e azioni che hanno contrapposto 
                  alla follia omicida dell'Occidente la dignità umana, 
                  l'idea della irrinunciabile profondità dello stare al 
                  mondo, la difesa del principio spirituale che insieme a quello 
                  materiale muove l'umanità. Chi non vede che l'Occidente 
                  è il male, e al contempo la costante opposizione a esso, 
                  crede di essere innocente solo perché indica il male, 
                  ma poi è incapace di sostenere il vento della lotta, 
                  della solidarietà, della compassione, della sensibilità, 
                  della costruzione di un bene comune. Questa forma di miopia 
                  è forse un male peggiore del male nemico. È quella 
                  che alimenta il nichilismo, il sadismo, il masochismo in cui 
                  viviamo, è l'omicidio di coloro che «comunque» 
                  sperano e vivono per dare un senso alla speranza. Il pessimismo, 
                  l'analisi spietata della «merda» in cui siamo, sono 
                  probabilmente ideologie che fanno solo bene al male, sono, insieme 
                  al vittimismo, la più grande vittoria della spietatezza 
                  del capitale. 
                  Oggi il vittimismo sembra spesso il diritto a incarnare minoranze, 
                  etnie, lingue oppresse, appartenenze, generi e sessi di vario 
                  tipo che sarebbero emarginati ma a cui basta l'esercizio del 
                  vittimismo stesso. È diventata una pratica talmente diffusa 
                  che chiunque può trasformare la propria identità 
                  in una «comunità oppressa». L'Occidente, 
                  l'Europa, il Capitalismo, la Globalizzazione consentono a chiunque 
                  il diritto di esserne vittima. A scapito di analisi più 
                  dettagliate, di denunce di veri responsabili e di complicità 
                  inconfessate. 
                  A rileggere oggi Ivan Illich ci si stupisce di quanto tagliente 
                  fosse la sua analisi delle professioni debilitanti, delle istituzioni 
                  invalidanti, dei servizi e delle erogazioni atte a creare dipendenze. 
                  E proprio perché le sue non erano analisi «generali», 
                  ma dettagliate, che scoprivano la nostra complicità nel 
                  concreto, nelle dipendenze che ci scegliamo giorno per giorno. 
                  Per sentirsi vittima occorre invece restare «sulle generali», 
                  adoperando slogan e locandine come bandiere. 
                  Mai come oggi sono attuali le parole di Étienne de la 
                  Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria: 
                  Costui che spadroneggia su di voi non ha che due occhi, due 
                  mani, un corpo e niente di più di quanto possiede l'ultimo 
                  abitante di tutte le vostre città. Ciò che ha 
                  in più è la libertà di mano che gli lasciate 
                  nel fare oppressione su di voi fino ad annientarvi. 
                  Da dove ha potuto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli 
                  avete prestati voi? Come può avere tante mani per prendervi 
                  se non è da voi che le ha ricevute? E i piedi coi quali 
                  calpesta le vostre città non sono forse i vostri? Come 
                  fa ad avere potere su di voi senza che voi stessi vi prestiate 
                  al gioco? E come oserebbe balzarvi addosso se non fosse già 
                  d'accordo con voi? Che male potrebbe farvi se non foste complici 
                  del brigante che vi deruba, dell'assassino che vi uccide, se 
                  insomma non foste traditori di voi stessi? Voi seminate i campi 
                  per farvi distruggere il raccolto; riempite di mobili e di vari 
                  oggetti le vostre case per lasciarveli derubare; allevate le 
                  vostre figlie per soddisfare le sue voglie e i vostri figli 
                  perché il meglio che loro possa capitare è di 
                  essere trascinati in guerra, condotti al macello, trasformati 
                  in servi dei suoi desideri e in esecutori delle sue vendette; 
                  vi ammazzate di fatica perché possa godersi le gioie 
                  della vita e darsi ai piaceri più turpi; vi indebolite 
                  per renderlo più forte e più duro nel tenervi 
                  corta la briglia. Eppure da tutte queste infamie che le bestie 
                  stesse non riuscirebbero ad apprendere e che comunque non sopporterebbero, 
                  potreste liberarvi se provaste, non dico a scuotervele di dosso, 
                  ma semplicemente a desiderare di farlo. Siate dunque decisi 
                  a non servire mai più e sarete liberi. Non voglio che 
                  scacciate il tiranno e lo buttiate giù dal trono; basta 
                  che non lo sosteniate più e lo vedrete crollare a terra 
                  per il peso e andare in frantumi come un colosso a cui sia stato 
                  tolto il basamento [Étienne de La Boétie, Discorso 
                  sulla servitù volontaria (1571), Jaca Book, Milano, 1979, 
                  p. 19]. 
                  Sono parole di un'apparente ingenuità, di quella seconde 
                  naïveté che Paul Ricoeur riteneva necessaria per 
                  ricominciare a fare una filosofia del presente. Mai come adesso 
                  sembrano attuali, per chi vede nell'Occidente il pretesto per 
                  la rinuncia alla propria libertà. 
                  Chi non coglie nella storia e nel presente dell'Occidente la 
                  resistenza al male riproduce l'alibi di chi si fa servo volontariamente, 
                  di chi pensa che non c'è niente da fare e con il suo 
                  vittimismo si tira fuori dalla storia e dalla geografia, e pensa 
                  di non «entrarci per nulla». L'anti-occidentalismo 
                  è oggi per buona parte un vittimismo di questo tipo, 
                  una comoda depressione che porta alla contemplazione cinica 
                  del disastro del mondo. Oggi il principio speranza viene sbeffeggiato 
                  proprio da coloro che pensano di essere i più realisti 
                  del pianeta. 
                  La grande tragedia del mondo che dell'Occidente fa parte è 
                  di agire per buona parte influenzato dallo stesso atteggiamento. 
                  Le classi dirigenti, ma anche i terroristi di altri mondi, apprendono 
                  il principio del «tanto peggio» dalla viva voce 
                  di coloro che in Occidente sperano nella palingenesi universale 
                  dell'Armageddon e che pensano che solo nella distruzione definitiva 
                  e totale, nel sangue altrui e proprio versato, c'è la 
                  morale che questa nostra storia si merita. Il vittimismo del 
                  resto del mondo somiglia da presso a coloro che in Occidente 
                  se ne stanno con le mani in mano a leggere le notizie e a dire 
                  che ormai non c'è più niente da fare. E si ritirano 
                  bellamente in luoghi sicuri e nel loro magnifico privato. 
                  In altri continenti, in altri paesi, c'è la scusa supplementare 
                  dell'avere ragione. L'Occidente è decadente, è 
                  alla fine, diamogli il colpo di grazia. Come se altrove che 
                  in Occidente non ci fossero le stesse radici del male, della 
                  crudeltà nei confronti degli altri esseri umani, non 
                  ci fosse la soppressione della voce delle donne e dei diversi, 
                  lo sfruttamento di intere fasce di popolazione ridotte in caste 
                  o in etnie e tribù avverse. 
                  Il ritorno ai sacri valori della comunità di cui il mondo 
                  non occidentale sarebbe il garante è una pantomima idiota 
                  creata dallo stesso Occidente. L'idea che altrove la gente sia 
                  meno colpevole di quello che fa è un insulto alla dignità 
                  umana. 
                  Ancora per quanti anni sentiremo la solfa che l'11 settembre 
                  è una creazione dell'intelligence, perché il mondo 
                  arabo sarebbe incapace di pianificare e portare avanti qualcosa 
                  di simile? Come se la complicità e il doppiogiochismo 
                  non potesse essere patrimonio anche del mondo arabo. Tutto questo 
                  è parte dell'idea della superiorità occidentale 
                  anche nel fare il male, del monopolio, se non reale almeno ideologico, 
                  della nefandezza. È ora di farla finita con questo idiotismo 
                  che percorre l'intero pianeta, con la globalizzazione di un'idiozia 
                  colpevole e miope allo stesso tempo. 
                  Buona parte della visione che vuole tutto il male in Occidente 
                  è l'effetto di un'idea dell'essere umano come incapace 
                  di fare gesti liberi, magnifici o atroci che siano. Da una parte 
                  ci sono i cattivi, capaci di tramare contro tutti, dall'altra 
                  i buoni, vittime di tutto (e in mezzo l'Atlantico, lo stretto 
                  di Gibilterra e il Canale di Sicilia). 
                  La deformazione di un certo materialismo dialettico e la cattiva 
                  lettura del peso dell'economia nella storia hanno creato una 
                  lettura meccanicistica e riduttiva della vicenda umana. E hanno 
                  prodotto un'idea deforme dell'umano. 
                  Nessuno è colpevole, ci sono solo circostanze. Se nessuno 
                  è colpevole, non lo è nemmeno l'Occidente, verrebbe 
                  da dire, e allora restiamo fermi a guardare il «pachinko 
                  flipper» del mondo andare verso l'esplosione. Oggi ci 
                  sarebbe bisogno di un dibattito filosofico e di pensiero che 
                  riprenda tutte le tesi sul libero arbitrio e sulla possibilità 
                  che anche l'ultimo schiavo abbia in sé il principio della 
                  libertà. 
                  Per questo non è un caso che mi sono risolto a scrivere 
                  questo pamphlet per gli amici libertari, perché 
                  nessuno come loro sa che sul crinale del presente è solo 
                  la convinzione della libertà profonda dell'essere umano 
                  che oggi fa la differenza. 
                  La libertà di fare il bene o il male, non la libertà 
                  retorica, conclamata politicamente, ma la pratica quotidiana 
                  di essa, nelle routine e negli incontri, nelle convivenze e 
                  nelle adiacenze. È la grande storia dell'anarchismo consapevole, 
                  quello che crede nella grana che tiene insieme la società 
                  e non soltanto nell'individuo come monade; è la storia 
                  – per buona parte occidentale, ma esportata nel resto 
                  del mondo – del principio della volontà e della 
                  speranza, che da Carlo Cafiero in Italia a Pëtr Kropotkin 
                  in Russia e in Europa, a Multatuli in Indonesia, a B.R. Ambedkar 
                  in India, a José Rizal nelle Filippine, è stato 
                  il motore di infinite trasformazioni e della creatività 
                  di chi sa che il male è anche dentro di noi e che però 
                  è addomesticabile – perché umano – 
                  e può essere volto in bene. Bisogna difendere questa 
                  storia e questa geografia che sono antropologicamente molto 
                  occidentali, insieme al patrimonio di resistenza e di vita e 
                  di futuro che l'Occidente rappresenta. Senza l'Occidente la 
                  stessa idea di libertà sarebbe molto più dubbia 
                  e incerta, come la storia attuale ci racconta. 
                 Franco La Cecla 
                 
                    
                Tomaso Serra/ 
Un militante anarchico tra antifascismo, Sardegna, Spagna e... 
                Fonti primarie, documenti, articoli, lettere e memorie alimentano 
                  la trama della vita avventurosa dell'anarchico sardo Tomaso 
                  Serra: ecco un'altra bella narrazione biografica che attraversa 
                  il Novecento (Costantino Cavalleri, L'anarchico di Barrali 
                  (quasi) 100 anni di storia per l'anarchia. Biografia di Tomaso 
                  Serra, detto “Il Barba”, Juan Fernandez, Pinna Joseph, 
                  Tomy Casella... 1900-1985, Guasila - Ca, Editziones de su 
                  Arkiviu-Bibrioteka “T. Serra”, 2016, pp. 1088, € 
                  28,00). 
                   L'opera, 
                  oltre mille pagine basate anche su un epistolario di valore 
                  inestimabile, incorpora un progetto editoriale militante bloccatosi 
                  ad un primo volume uscito nel lontano 1992 (e che fermava il 
                  suo racconto ai primi anni Trenta). Sebbene il libro non paia 
                  esente da difetti “tecnici” (editing che poteva 
                  forse essere alleggerito con un CD allegato; scarso utilizzo 
                  della storiografia nello sviluppo del testo), la sua possibile 
                  funzione di strumento eccezionale di conoscenza, ricco di informazioni 
                  e di suggestioni allo stesso tempo, è più che 
                  evidente. In queste pagine ci sono tante esistenze che si intersecano 
                  con quella del protagonista e, come succede in questi casi, 
                  c'è prima di tutto quella dell'autore che ha seguito 
                  amorevolmente e reso avvincente questa storia. 
                  Le due generazioni – di Cavalleri e di Serra – in 
                  fondo si assomigliano e ciascuna, sebbene in contesti e con 
                  modalità differenti, ha per così dire tentato 
                  a suo modo l'assalto al cielo, “inseguendo la vita fino 
                  in fondo”. Sardegna / Europa / Sardegna: il viaggio che 
                  ci viene proposto evoca emozioni e incontri del secolo scorso. 
                  Ed anche noi abbiamo conosciuto bene “Il Barba”, 
                  quell'uomo piccolo di statura ma d'animo grande, ormai vecchio 
                  ma sempre curioso di confrontarsi con i giovani compagni. Dense, 
                  puntuali, precise le sue lettere che tutti ricordiamo, e le 
                  composizioni che distribuiva ai convegni contenevano sempre 
                  messaggi semplici ma ricchi di vena poetica. 
                  Gli uomini, si sa, sono come gli uccelli, e quando sono stanchi 
                  di volare si lasciano docilmente rinchiudere in gabbia, dimenticando 
                  la loro antica selvatichezza di uomini liberi; si spegne così 
                  in essi ogni spirito di indipendenza e di propria dignità. 
                  Ma per fortuna ogni tanto ce ne sono alcuni che, invece di entrarvi, 
                  spiccano il volo verso più liberi e sconosciuti orizzonti. 
                  Mirano in alto guardando alla vita qualitativamente...  
                  Riassumiamo qui di seguito – pensando di fare cosa utile 
                  per i lettori – alcuni passaggi essenziali della vita 
                  del protagonista. Tomaso Serra era nato il 23 marzo 1900 a Lanusei 
                  (Nuoro) da Silverio e Paola Mameli. Secondo di sette figli, 
                  il padre era ferroviere e la mamma bottegaia. Una malformazione 
                  congenita sul viso lo affliggerà per tutta la vita. Svolge 
                  innumerevoli mestieri: boscaiolo, manovale, operaio metallurgico, 
                  carpentiere, minatore e attore di teatro. Emigra in Francia 
                  nel 1916 per motivi di lavoro. Rientra in Italia dopo due anni 
                  per passare la visita per il servizio militare; riformato, espatria 
                  di nuovo. 
                  Nel 1919-1920 è in Svizzera dove conosce e frequenta, 
                  presso la redazione de «Il Risveglio», Luigi Bertoni 
                  che, ben presto, diventa il suo principale punto di riferimento. 
                  In seguito si stabilisce in Francia: prima a Longwy nella Lorena, 
                  poi a Le Cannet in Costa Azzurra. In questo periodo subisce, 
                  incolpevole, una carcerazione di due mesi con l'accusa di rissa 
                  e violenza privata. Insieme al cugino Paolino Puddu mantiene 
                  contatti assidui con Raffaele Schiavina e Paolo Schicchi. Si 
                  occupa del Comitato pro vittime politiche, aderisce alla LIDU 
                  e partecipa alle varie manifestazioni per Sacco e Vanzetti. 
                  Sostiene e diffonde la stampa anarchica italiana edita a Parigi 
                  come «La Diana» e «Il Monito». 
                  Nel 1927 è arrestato per affissione di manifesti sovversivi 
                  e per detenzione illegale di pistola. Espulso dalla Francia 
                  come sospetto terrorista, ripara in Lussemburgo. L'anno seguente 
                  è costretto a rifugiarsi in Belgio. Qui svolge un'intensa 
                  attività antifascista insieme a Puddu, Lorenzo Gamba 
                  e Angelo Sbardellotto. Secondo le fonti di polizia farebbe anche 
                  parte di un gruppo di anarchici denominato “Gli Espropriatori” 
                  insieme a Carlo Girolimetti ed Enrico Zambonini. Nel 1929-1934 
                  vaga tra Francia, Svizzera (ospite del Foyer des réfugés 
                  politiques antifascistes) e Germania; più volte fermato 
                  ed espulso, inseguito da varie denunce e mandati di cattura. 
                  Nel 1936 è in Spagna per arruolarsi nella Colonna Italiana. 
                  Combatte nelle battaglie di Monte Pelato, Huesca e Almudévar; 
                  è inizialmente inquadrato nella batteria comandata da 
                  Libero Battistelli e poi nella “Michele Schirru”. 
                  Coadiuva Giuseppe Bifolchi nelle funzioni di comando ma assolve 
                  anche agli incarichi di furiere, cuciniere e portaferiti. 
                  Politicamente sostiene nella Colonna posizioni di fattiva collaborazione 
                  tra le componenti libertaria e giellista. Pubblica corrispondenze 
                  sui fatti d'arme a cui partecipa in «Guerra di Classe» 
                  di Barcellona e su «Il Risveglio» di Ginevra. Denuncia 
                  in modo aperto il ruolo reazionario svolto dai comunisti staliniani 
                  durante i fatti del maggio 1937 e le loro responsabilità 
                  nell'assassinio di Berneri e Barbieri. Arrestato, è rinchiuso 
                  in una “prigione segreta comunista”, poi nel Carcel 
                  Modelo barcellonese. Nell'agosto del medesimo anno è 
                  accompagnato alla frontiera francese. Ammalato, in questo periodo 
                  subisce un'operazione chirurgica. Dopo un tentativo fallito 
                  di rifugiarsi in Belgio, nel 1939 è arrestato a Lille 
                  e rinchiuso nel campo di Rieucros in zona pirenaica. L'anno 
                  dopo si trova relegato a Vernet d'Ariège insieme a molti 
                  altri reduci dalla Spagna. Consegnato alle autorità italiane 
                  nel dicembre 1941, è subito tradotto nelle carceri di 
                  Nuoro. 
                  Assegnato al confino di polizia per cinque anni come miliziano 
                  rosso e per attività antifascista svolta all'estero, 
                  è destinato all'isola di Ventotene. Trattenuto come internato 
                  a Renicci d'Anghiari (Arezzo) in epoca badogliana. 
                  Dopo l'8 settembre 1943 fugge verso Roma e qui, messosi in contatto 
                  con il conterraneo Emilio Lussu, partecipa alla Resistenza – 
                  compiendo varie azioni di guerriglia e sabotaggio – inquadrato 
                  in una formazione di Giustizia e Libertà. Torna in Sardegna 
                  nel 1947. Svolge un'intensa attività nel movimento libertario. 
                  Nel 1962 fonda a Barrali (Cagliari) la “Collettività 
                  anarchica di solidarietà” (poi Arkiviu-Bibrioteka 
                  “Tomaso Serra”). Partecipa a congressi e convegni 
                  nazionali della FAI fino agli anni Ottanta. Muore a Barrali 
                  l'8 ottobre 1985. 
                  Il libro, scorrevolissimo e accattivante nella lettura, si suddivide 
                  in quattro corpose sezioni con la Spagna a fare giustamente 
                  da cesura centrale. A seguire la transizione con il lungo dopoguerra 
                  e, infine, l'ultima parte della vita di Tomaso dedicata agli 
                  incontri e alle esperienze comuni con un'altra generazione “contro”. 
                 Giorgio Sacchetti 
                 
                    
                Tra Spagna e Svizzera/ 
Una madre, una figlia, la verità 
                L'amico anarchico e bravo critico fumettistico Boris Battaglia 
                  dice sempre che i fumetti non si leggono: si guardano. Penso 
                  proprio abbia ragione. E la recentissima graphic novel di Lorena 
                  Canottiere, Verdad (Coconino press, Bologna, 2016, pp. 
                  160, € 19,00) lo conferma appieno: senza una certa disposizione 
                  dell'occhio – una pazienza, persino una devozione – 
                  gran parte del fascino dell'opera resta nascosto.  Guardate 
                  dunque, guardate intensamente queste pagine in tempi di soddisfazioni 
                  effimere – godete del suo segno caldo, della varietà 
                  di particolari e di impostazioni delle tavole, del mix di strumenti 
                  usati tecniche usate (acrilico, pastelli, grafica digitale), 
                  e soprattutto dei colori: il rosso scuro, brunito, ramato; il 
                  giallo che vira quasi al verdognolo; gli inserti improvvisi 
                  di celeste. 
                  Insisto su questo elemento perché la storia, in Verdad, 
                  è volutamente e costantemente resa “liquida” 
                  da una gestione della trama che procede per lo più tramite 
                  suggestioni e salti temporali. Protagonista è una giovane 
                  guerrigliera anarchica, impegnata nella guerra di Spagna contro 
                  i franchisti: Verdad, appunto. Il suo nome contiene un omaggio 
                  a un altro luogo classico del cosmo libertario, il Monte Verità 
                  in Svizzera. È qui che la madre della protagonista ha 
                  vissuto, sperimentando nuove forme di aggregazione sociale e 
                  attirando su di sé l'ira e la condanna della famiglia. 
                  Una madre che Verdad non ha mai conosciuto (l'ha abbandonata 
                  quand'era piccola), ma di cui serba il ricordo e l'ispirazione 
                  sia durante l'infanzia sia nei giorni duri del combattimento. 
                  Scrive Ettore Gabrielli su Lospaziobianco.com: “L'adesione 
                  entusiastica e quasi sacrificale alla resistenza antifranchista 
                  diventa quindi non solo la lotta per un ideale di libertà 
                  ma un tentativo di riscatto personale, la ricerca di un proprio 
                  posto nel mondo e un modo per dimostrare alla madre di poter 
                  essere se stessa e di poter essere viva senza scappare dalle 
                  proprie responsabilità.” 
                  C'è però un'ambivalenza. (Tutto questo fumetto 
                  è percorso da ambivalenze, da forze contrastanti, da 
                  solitudini e comunità, da amori e disamori). Enrique, 
                  il suo compagno, non ama quel nome perché ritiene che 
                  la verità sia la fine della ricerca: la posseggono i 
                  preti, i capi, i padroni: “tutti quelli che ti vogliono 
                  comandar la vita!”, grida. E non è un caso che 
                  questo fumetto proceda di continuo senza mai fermarsi, sia come 
                  animato da una forza di fuga continua; è in transito 
                  come sempre in transito dovrebbe essere il momento rivoluzionario, 
                  nelle parole di Enrique. Non contiene verità, e non la 
                  conterrà nemmeno nel finale (ci arriviamo fra poco). 
                  A fungere da sfondo di tutte queste vicende, ma con autentiche 
                  virtù di personaggio, è la montagna del sud spagnolo, 
                  disegnata da Canottiere con una forza e una semplicità 
                  commoventi. I boschi, le caserme dei combattenti, i sentieri, 
                  i villaggi, la grotta dove Verdad si rifugia per continuare 
                  solitaria la sua lotta – è difficile trovare qualcosa 
                  di meglio nella produzione fumettistica recente. 
                  Ma c'è di più. Su questo tronco di realismo – 
                  non c'è nulla di banale o raffazzonato nelle scene di 
                  guerriglia antifranchista – Canottiere innesta un ramo 
                  di fantasia. La storia trascolora nella fiaba, sostenuta da 
                  un mito elementare per cui il mondo è diviso fra predatori 
                  e prede. Verdad stessa si muove su questo bilico. Come spiega 
                  bene Serena di Virgilio nella sua recensione per Panorama.it, 
                  l'indipendenza della protagonista “fa di lei una “volpe”, 
                  una sorta di strega che vive da sola tra i monti, un bandito 
                  a cui non è permesso uscire allo scoperto perché 
                  il regime e la gente le sono ostili.” 
                  Verdad, con la sua fragilità e la sua determinazione, 
                  non sopravviverà al destino che sembra richiudersi sopra 
                  di lei. Ma come dicevo, il finale è caratterizzato dall'assenza 
                  di una verità definitiva, di una morale. Già: 
                  questo racconto di due donne libere, una madre e di una figlia 
                  che non si ritrovano, questa storia di anarchia e autonomia, 
                  non termina in maniera chiara. L'epilogo ci riporta di nuovo 
                  nel mito: una panoramica di valli e foreste, che si stringe 
                  lentamente su una casa abbandonata dentro cui vediamo una volpe 
                  serrare fra i denti una preda. A fungere da supporto c'è 
                  solo qualche didascalia, breve ma estremamente intensa: ciò 
                  che resta è “l'acceso rimorso che lascia solo l'amore 
                  e la vertigine di chi non vuole credere che sia tutto inutile.” 
                  Ostinarsi a non credere che sia tutto inutile: difficile trovare 
                  parole migliori per raccogliere la vita di Verdad – e 
                  per lanciare un monito che suona terribilmente urgente, terribilmente 
                  attuale. 
                 Giorgio Fontana 
                 
                    
                Quando lo stupro è etnico/ 
Il caso Serbia 
                Il saggio di Simona Meriano Stupro etnico e rimozione di 
                  Genere. Le vittime invisibili (Edizioni Altravista, Pavia, 
                  2015, pp. 162, € 18,00) offre uno sguardo antropologico 
                  al fenomeno degli stupri etnici, alle complesse implicazioni 
                  sociali, culturali, politiche e giudiziarie che li portano ad 
                  essere rimossi da tutte le storie di guerra. Gli stupri di massa 
                  vengono altresì considerati nel rapporto tra potere e 
                  memoria. 
                   Simona 
                  Meriano inquadra la tematica nel più ampio contesto della 
                  storia del Novecento. Se nel secolo XX lo spostamento delle 
                  azioni violente di stupro è avvenuto passando da “diritto 
                  momentaneo”, concesso dopo le conquiste di un centro abitato, 
                  a strategia politica militare già prestabilita, dopo 
                  la guerra di Bosnia-Erzegovina, gli stupri di guerra costituiscono 
                  un'emergenza planetaria. 
                  Cinquant'anni dopo Auschwitz, il conflitto nei Balcani si è 
                  tramutato in un piano di sterminio della popolazione civile. 
                  Per creare la grande Serbia, i villaggi vengono depurati dalla 
                  popolazione civile musulmana, gli uomini mutilati e uccisi, 
                  le donne stuprate. Tra il 1992 e 1995, lo stupro di massa, la 
                  violenza sulle bambine, le gravidanze forzate creano l'illusione 
                  di poter modificare la composizione etnica della Bosnia Erzegovina 
                  costringendo le donne musulmane a partorire figli di “razza 
                  pura serba”. 
                  Tuttavia fallisce il tentativo di creare un nuovo stato etnico 
                  puro, poiché i bambini nati dagli stupri sono invisibili, 
                  anche se l'identità abortiva risulta ancora più 
                  perdente dell'identità invisibile. 
                  L'autrice parte dall'assunto che considera lo stupro etnico 
                  espressione sintomatica della finzione identitaria voluta da 
                  un “noi” maschile, sedicente superiore, che sceglie 
                  e definisce l'alterità due volte, in base a criteri etnici 
                  e di genere. Nello specifico, nello stupro etnico in Bosnia- 
                  Erzegovina, l'identità di genere dominante maschile e 
                  l'identità di etnia superiore serba sarebbero arbitrariamente 
                  costruite e armate contro la donna, due volte “altra”. 
                  Infatti, nell'immaginario maschile serbo, le donne bosniache 
                  musulmane assumono le sembianze delle femmine turche. Colpevoli 
                  di tradimento a causa della conversione all'islam da parte dei 
                  loro antenati, sono utilizzate per attuare la pulizia etnica 
                  in nome della vendetta serba. 
                  Interessante la ripresa della questione sollevata dall'antropologo 
                  Ugo Fabietti (1995) sull'ambiguità del concetto di etnia. 
                  Designerebbe, infatti, gruppi dotati in modo fittizio di una 
                  irriducibile identità linguistico-storico-culturale. 
                  Nel momento in cui si crea e definisce un “noi”, 
                  nascono i “loro”, entità sociali costruite, 
                  ma vive, che interagiscono e hanno un ruolo nella storia. Il 
                  processo mentale di differenziazione potrebbe indurre a un allontanamento 
                  fisico e simbolico dell'altro, per spingersi fino alla sua soppressione. 
                  L'origine della violenza di genere andrebbe quindi ricercata 
                  nell'etnicità. 
                  L'uomo serbo che intende conquistare la terra e sterminare il 
                  nemico di fatto si identifica con lui attraverso il corpo violentato 
                  della donna resa madre, colmando così lo spazio che separa 
                  la vittima dal suo carnefice. 
                  Viene messa altresì in evidenza la legittimazione di 
                  pratiche violente pianificate da parte di un'oligarchia politica. 
                  Mosso da odio e desiderio, lo stupro etnico è considerato 
                  sempre uno stupro di gruppo. L'essere collettivo sovrasta l'uomo 
                  singolo. Il gruppo che stupra, connotato etnicamente, si sintetizza 
                  nel mito del centauro: la regressione della mascolinità 
                  al branco animale e alla forza fisica data dal numero, come 
                  risposta allo smarrimento dell'identità maschile. Inoltre, 
                  il gruppo sovrasta l'uomo singolo. È un “noi” 
                  che decide e interagisce, nel quale però si perdono responsabilità 
                  individuali e penali. 
                  Quindi, lo stupro di gruppo non come patologia individuale, 
                  ma come potenziale comportamento nei maschi, rituale collettivo 
                  per ristabilire la gerarchia di genere e la supremazia etnica. 
                  Se il ricorso alla memoria può mantenere viva una cultura 
                  dominante maschile, lo stupro etnico cancella ogni memoria di 
                  emancipazione e libertà femminile: stupratori si accaniscono 
                  contro le donne bosniache musulmane più colte e con ruoli 
                  nel mondo del lavoro, come sindacaliste, burocrati, insegnanti, 
                  segretarie, presenze nei quadri dirigenziali o intermedi. 
                  Parimenti, l'attenzione dell'autrice si focalizza sulle vittime 
                  invisibili. Nonostante nel 1993, la risoluzione n. 827 del consiglio 
                  di sicurezza dell' Onu abbia istituito il tribunale penale internazionale 
                  per la ex Jugoslavia con sede all' Aja, con il compito di giudicare 
                  i responsabili dei crimini contro l'umanità e genocidio 
                  nelle guerre balcaniche, e nel 2001 lo stupro venga riconosciuto 
                  come un crimine contro l'umanità includendo il reato 
                  di schiavitù sessuale, solo nel 2008 il consiglio di 
                  sicurezza dell'Onu assumerà una ferma presa di posizione 
                  contro gli stupri come arma di guerra. 
                  Ma sussiste ancora oggi il problema del riconoscimento dello 
                  status di vittime civili di guerra. Infatti, lo stupro contamina 
                  in modo irreversibile chi lo subisce, distrugge l'identità, 
                  tuttavia non ne crea un'altra: donne bosniache musulmane sopravvissute 
                  allo stupro di massa sono emarginate dalla loro gente, ma nemmeno 
                  vengono accolte nella comunità serba. Gli stessi bambini 
                  nati dalle violenze non incarnano affatto la “pura essenza 
                  serba”, sono individui dall'identità inafferrabile, 
                  rifiutati, spesso abbandonati ai margini della società. 
                  Inoltre, si sottolinea quanto nelle società patriarcali, 
                  come quella balcanica, venga esercitato il controllo sessista 
                  sull'informazione e sui contenuti dei ricordi, favorendo il 
                  perdurare della supremazia maschile, il silenzio e il distacco 
                  della memoria, mezzi di oppressione per privare un gruppo o 
                  una minoranza della propria coscienza identitaria. 
                  Il riferimento al contributo dell'antropologo Arjun Appadurai 
                  (2001) consente di cogliere meglio gli effetti della comunicazione 
                  di massa sull'immaginazione nella costruzione di soggetti sociali 
                  e le connessioni tra la propaganda bellica e immagini dello 
                  stupro. 
                  La riflessione è condotta sugli stupri di guerra documentati 
                  in rete ai quali non corrisponde un adeguato sviluppo dell'empatia, 
                  condizione indispensabile per superare la passività nei 
                  confronti del potere sociale e culturale, ed esercitare la responsabilità 
                  individuale. 
                  Simona Meriano chiama in campo gli obiettivi della Piattaforma 
                  di Pechino approvati nella IV Conferenza mondiale sulle donne 
                  (1995). Nel documento si ribadisce un principio fondante: mantenere 
                  la prospettiva di genere al fine di integrare le tematiche delle 
                  relazioni tra maschile e femminile in tutti gli obiettivi strategici 
                  che si intendono perseguire, dalla soluzione dei conflitti armati, 
                  alla costruzione di politiche per la pace. 
                  A più di vent'anni dalla conferenza di Pechino, seppur 
                  nel variegato e accidentato percorso, la prospettiva glo-cale, 
                  con iniziative promosse dal basso che coinvolgano il quotidiano 
                  in proposte concrete, è da incoraggiare e incentivare, 
                  in un continuo dialogo cercato e coltivato con la componente 
                  maschile. Auspicabile partire, ancora, da un approccio educativo 
                  e formativo mirato, per aiutare a cogliere anche forme occulte 
                  di discriminazione e violenza simbolica veicolate dalla cultura 
                  dominante maschile, segnali anticipatori di aumento progressivo 
                  di violenza agita. 
                  Una pratica per riconoscere e contrastare modelli convenzionali 
                  stereotipati introiettati in modo a-critico nell'immaginario 
                  collettivo, che confermano e rinforzano l'omologazione ai prototipi 
                  tradizionali. 
                 Claudia Piccinelli 
                 
                    
                 
                
                   
                    Kurdistan/ 
                        Per i bambini del Rojava 
                        
                       
                      Il 
                        Kurdistan non esiste, o almeno non sulle carte mondiali 
                        fatte da confini, nazioni e continenti. Il Kurdistan è 
                        soltanto terra, è un vasto altipiano medio orientale 
                        parte di quella regione che un tempo vide fiorire grandi 
                        civiltà, chiamata Mesopotamia. 
                        La questione territoriale curda risale a tantissimi anni 
                        fa: basti pensare che la sua prima spartizione ebbe luogo 
                        nel 1639, con il trattato di Qasr-e Schirin stipulato 
                        tra l'Impero Ottomano e la Persia. La sua dissoluzione 
                        territoriale definitiva ebbe luogo nel 1923 con la modifica 
                        del trattato di Sevres, causata dall'insoddisfazione turca 
                        in seguito alla spartizione dell'impero ottomano. 
                        Con la stipula del trattato non solo la Turchia, l'Iran, 
                        l'Iraq e la Siria diventavano stati nazionali, ma assieme 
                        alla loro nascita si assisteva alla scomparsa dei diritti 
                        per i curdi: questi da allora hanno subito accuse e discriminazioni 
                        da parte dei quattro stati nazionali. 
                        In risposta alla condizione curda, nel 1978, quello che 
                        fino ad allora era stato un movimento diventava un partito 
                        politico: il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). 
                        Sotto la guida di Abdullah Öcalan questo soggetto 
                        politico si rifaceva alle teorie marxiste-leniniste per 
                        avvicinarsi, attualmente, alle posizioni di un socialismo 
                        libertario con il sogno del confederalismo democratico. 
                        Nell'ultimo decennio infatti il movimento per la liberazione 
                        curda ha subito una vera e propria trasformazione ed ha 
                        posto come suoi fondamenti l'autonomia, il femminismo, 
                        la democrazia diretta e l'ecologia. 
                        Nella Rojava, regione del Kurdistan siriano, tristemente 
                        nota per gli attacchi e i massacri compiuti per mano di 
                        Daesh (ISIS per gli occidentali), si sta assistendo ad 
                        una vera e propria rivoluzione rispetto alla partecipazione 
                        popolare e alla creazione di forme di autogoverno. 
                        Proprio per sostenere e raccontare questa resistenza, 
                        questo esperimento rivoluzionario, nasce il progetto “Rojava 
                        Resiste: cuori e mani per il Kurdistan”. Il gruppo 
                        è formato da alcune attiviste e da alcuni attivisti, 
                        artisti di Milano e dintorni appartenenti a diverse realtà 
                        sociali dell'autogestione. 
                        Nell'ottobre 2015 il gruppo decide di compiere un viaggio 
                        nel Bakur, Kurdistan settentrionale, in Turchia, per raccontare 
                        la scelta coraggiosa di un popolo, denunciare le prevaricazioni 
                        del governo turco e portare solidarietà tra le 
                        strade assediate, tra i campi profughi e nelle zone liberate 
                        che hanno proclamato l'autonomia. 
                        Proprio da questa esperienza è nato un reportage 
                        a vignette realizzato da “Rojava Resiste” 
                        e “Vermi di Rouge” dal titolo Cuori e mani 
                        per il Kurdistan. Con la prima edizione, uscita nel 
                        febbraio 2016, ed esaurita in qualche mese, sono stati 
                        raccolti 2.660 euro che sono stati donati al progetto 
                        “Bimbi di Kobane” (www.bimbidikobane.com), 
                        associazione nata per aiutare i bambini della città 
                        di Kobane che hanno perso i genitori combattendo contro 
                        l'ISIS. 
                        A dicembre 2016 è uscita una nuova riedizione di 
                        questo lavoro. L'opera, composta da 46 pagine, è 
                        stata arricchita con nuove tavole che non raccontano solamente 
                        la situazione curda, ma anche alcuni momenti del viaggio: 
                        dai campi profughi al coprifuoco imposto dal governo turco, 
                        fino alle manifestazioni di piazza. 
                        Inoltre il volume reca un piccolo “glossario” 
                        in cui vengono riportate le sigle ed i nomi dei diversi 
                        movimenti che animano la resistenza e i nomi Kurdi di 
                        alcune zone, una mappa che riporta la spartizione del 
                        territorio ed una breve cronologia dei principali eventi 
                        che hanno influenzato la lotta curda negli ultimi due 
                        anni. 
                        All'interno vi sono poi alcune fotografie delle opere 
                        di street art realizzate dall'artista “Vermi di 
                        Rouge” sul territorio italiano nelle sedi di collettivi 
                        ed associazioni. Al centro del volume compare il bellissimo 
                        murale realizzato, o meglio iniziato, durante il viaggio 
                        nel centro culturale curdo di Dicle-Firat di Diyarbakir. 
                        Infatti l'attuazione del dipinto, realizzato a quattro 
                        mani da Vermi di Rouge e da un'artista locale, Yesim, 
                        insegnante d'arte, è stata bruscamente interrotta 
                        dal coprifuoco, imposto per due giorni nella città 
                        vecchia. Comunque l'opera non è rimasta incompiuta: 
                        vedere per credere! 
                        Troverete il volume in vendita durante gli incontri informativi 
                        organizzati da “Rojava Resiste” oppure potete 
                        acquistarlo on-line sul sito del progetto (www.rojavaresiste.org) 
                        o direttamente da quello di “Vermi di Rouge” 
                        (www.vermidirouge.com). 
                        Il costo è di € 5,00 e gli introiti saranno 
                        così divisi: 1/3 per i costi di stampa, 1/3 all'autore, 
                        1/3 a sostegno del progetto (donazioni superiori a € 
                        5,00 verranno devolute interamente al progetto “Bimbi 
                        di Kobane”.) 
                        Per chi già conosce l'artista ritroverà 
                        il suo stile inconfondibile: vermi gialli, arrabbiati, 
                        sfacciati e senza troppi peli sulla lingua. Una satira 
                        di cui ora più che mai abbiamo bisogno non solo 
                        per ridere, ma per riflettere. Riderete... perché 
                        a volte bisogna ridere... per non piangere! 
                       Camilla Galbiati  
                 | 
                   
                 
                 
                
  
                Biografie/ 
Anarchica, femmina, creativa, animalista, individualista 
                È uscito da poco un bel fumetto sulla vita-romanzo di 
                  Leda Rafanelli (Leda. Che solo amore e luce ha per confine, 
                  Coconino Press-Fandango, Roma, 2016, 21,5 x 29 cm, pp. 212, 
                  € 19,50) ispirato dalle sue opere edite e inedite e da 
                  alcuni saggi sulla polimorfa anarchica-futurista-musulmana, 
                  così come ormai veleggia la rapida biografia rafanelliana. 
                  Sara Colaone e Francesco Satta, rispettivamente disegnatrice 
                  e scrittore dei testi, potrebbero essergli stati sulle ginocchia, 
                  ascoltando quanto scrive sul «Corrierino dei Piccoli» 
                  mentre l'altro coautore Luca de Santis, non è ancora 
                  nato quando la protagonista muore a 91 anni a Genova. La storia 
                  su Leda, vera ed evocata, non tralascia alcuno degli elementi 
                  ormai biografati. Qualche dubbio emerge in merito alla asserita 
                  crisi che avverrà con la morte dell'unico figlio e con 
                  i conseguenti dubbi sui suoi fermi convincimenti. 
                   Conoscendola 
                  per averla frequentata, anche se solo da storico, non credo 
                  che Leda ne abbia avuti. Le sue convinzioni sono granitiche 
                  e le contraddizioni, lette dall'esterno, sono per lei forza 
                  e sintesi del suo sentire, e questo vale in politica come negli 
                  affetti. Ha vissuto integralmente la sua vita senza tentennamenti, 
                  gli altri o l'hanno accettata o rifiutata. Questo vale anche 
                  per le scelte spirituali, testimoniate da studi e analisi. L'adesione 
                  al sufismo l'ha, intelligentemente, largamente posta al riparo 
                  da limiti imposti dalle dottrine e dai dogmi, rendendola libera 
                  di darsene, quando ha voluto, chiamandoli “doveri”. 
                  I principali protagonisti citati o presenti nel fumetto sono 
                  segnalati con foto e breve biografia in una sorta di “titoli 
                  di coda”. Questa ulteriore opera sulla poliedrica autrice 
                  che da diversi anni sta riscuotendo successi, deborda dalle 
                  carte depositate nel Fondo a lei intestato, presso l'Archivio 
                  Berneri-Chessa di Reggio Emilia dove, anche in questo 
                  caso, la curatrice Fiamma Chessa si è adoperata per la 
                  migliore riuscita del lavoro. 
                  Leda, primadonna dell'Archivio, ha, contrariamente a quanto 
                  scritto da Gino Cerrito, contribuito e contribuisce a far emergere 
                  il proprio, ed anche nostro, anarchismo, dalla stretta cerchia: 
                  e lo testimonia l'ormai interesse pluridecennale. La vita 
                  è un romanzo ricorda l'incipit, e di romanzi 
                  è ricco il suo fondo, che la rappresenta, e che con certezza, 
                  affermiamo, continuerà a far fiorire ricerche, lavori, 
                  e chissà, pièce teatrali e film. 
                  Per i lettori di “A” non ci addentriamo nella biografia, 
                  trattandosi di una figura assai nota, e chi vuole può 
                  agevolmente muoversi fra le schede del Dizionario degli Anarchici, 
                  o del Futurismo cercando elementi che tratteggino più 
                  e meglio che in questa sede, la sua particolare, multiforme, 
                  ed intensa vita. Anarchica, donna e femmina, vegetariana, 
                  creativa, animalista, individualista, militante attivissima, 
                  grande lavoratrice, ha interessato, dai rari lavori di Pier 
                  Carlo Masini di molti anni fa, una folla di storici, in particolare 
                  donne, che via via hanno scoperto la prolifica scrittrice ed 
                  animatrice culturale e politica. Negli anni sono stati prodotti 
                  molti saggi e articoli, racconti e interpretazioni, tesi e mostre. 
                  Il sottotitolo del fumetto del quale oggi parliamo (non mi piace 
                  graphic novel) è preso pari pari dal logo 
                  della Libreria Editrice Sociale, nelle sue diverse versioni, 
                  definizioni e luoghi fisici di attività. Un simbolo di 
                  Arte&Anarchia da lei praticata come tipografa militante 
                  e disegnato come altri, dall'allora pittore anarchico (anni 
                  Dieci del Novecento) Carlo Dalmazzo Carrà, anch'esso 
                  attratto e innamorato di Leda. La LEF, in origine Polli-Rafanelli, 
                  inizia a Firenze per spostarsi a Milano, dove prosegue essenzialmente 
                  con l'apporto, anche affettivo, di Giuseppe Monanni, dal quale 
                  avrà l'unico figlio Aini (Marsilio). 
                  Questa toscana di Pistoia, sposatasi con il fiorentino Luigi 
                  Polli “conosciuto ad Alessandria d'Egitto” in quella 
                  comunità anarchica derivante dai lavori per l'apertura 
                  dello stretto di Suez, ha avuto frequentazioni con Masini, ma 
                  anche con Maurizio Antonioli, Nico Berti e altri, i quali hanno 
                  avuto più volte modo di parlarne e scriverne. 
                  Oggi la incontriamo attraverso una grafica morbida, a pennarello 
                  acquarellato, con copertina bohémien leggermente 
                  nouveau. Il fumetto è stampato su carta pesante, 
                  in grande formato, con 210 pagine in bianco/nero dove solo la 
                  copertina ha leggeri segni di colore, come un femminile piccolo 
                  trucco. Il fumetto vero e proprio si sviluppa su 198 pagine, 
                  con strisce o disegni volanti a pagina intera o frammenti con 
                  dialoghi inseriti in nuvole di forme continuamente diverse, 
                  in qualche caso con scritte fluttuanti, o concentrate in ritmi 
                  ad effetto collage. I disegni, con bordi a pennarello, 
                  sono spesso ampiamente acquarellati e sfumati. Il testo racconta 
                  le sue vicende di vita, di lavoro anche politico, che è 
                  bello vedere e gustare senza alcuna mediazione del recensore. 
                  Ormai novantunenne, “fa le carte” ad una cliente, 
                  e da qui, come in una sorta di flash back, torna più 
                  volte con la memoria al proprio percorso di vita. 
                  Dall'infanzia con l'amato fratello Metello, al lavoro in tipografia, 
                  all'incontro con la politica e la spiritualità, alla 
                  lotta e l'impegno: agli amori. Non ho intenzione di raccontare 
                  un racconto, lasciando libero il lettore, invitandolo a 
                  questo compito. Solo due appunti su tutti i possibili. 
                  Il primo riguarda il “passaggio” da Alessandria 
                  d'Egitto, fonte inesauribile del suo essere donna anarchica 
                  e musulmana Sufi. C'è stata veramente? E quanto? Gli 
                  autori, in maniera sagace, risolvono la questione in questo 
                  modo. Durante un importante e movimentato sciopero a Firenze, 
                  l'emozione, il coinvolgimento, la massa, la folla roboante e 
                  vociante, estrania Leda, che viene catapultata in una felice 
                  Babele di lingue e di figure, di incontri definitivi. Nel dubbio, 
                  gli autori scelgono un viaggio tutto mentale, ed a nostro parere, 
                  la scelta è felice. 
                  Secondo appunto (forse per ragioni di notorietà del coinvolto), 
                  il fumetto si sofferma troppo, rispetto all'insieme, sul rapporto 
                  intrattenuto con Benito Mussolini. 
                 Alberto Ciampi 
                 
                    
                Il cibo, un diritto per tutti/ 
Tre volte al dì 
                Ho iniziato a leggerlo pervaso da un po' di sano scetticismo. 
                  Temevo pregiudizialmente che si trattasse dell'ennesimo trattato 
                  para/universitario, infarcito di una buona dose di saccenteria 
                  accademica. Sono invece stato preso dalla lettura fino a convincermi 
                  che al contrario si tratta di un “gran libro” (Cibo 
                  e utopia – l'eterna lotta tra carnevale e quaresima, 
                  di Pierpaolo Pracca e Edgardo Rossi, Aracne editrice, Ariccia 
                  - Rm, 2015, pp. 332, € 20,00). 
                   La 
                  sua insita bellezza deriva da ciò che riesce a trasmettere. 
                  Pracca e Rossi, i due compagni autori, non solo si sono accinti 
                  a studiare il rapporto, molto politico ovviamente, tra “utopia” 
                  e “cibo”, ma hanno scritto con tensione e gran passione, 
                  totalmente immersi nell'inquietudine utopica che caratterizza 
                  tutti gli amanti, fanatici come direbbe Bakunin, della libertà, 
                  insoddisfatti, fino a essere incazzati, del presente che continua 
                  a sommergerci tirannicamente. 
                  È un testo dotto senz'essere dottrinario e profondo, 
                  vissuto con mente lucida e intensa emozione. Cerca di scoprire 
                  la “pentola” delle tensioni umane, le quali, sebbene 
                  stimolate dal bisogno biologico di cibarsi, da sempre non si 
                  accontentano semplicemente di riempirsi la pancia, mentre pretendono 
                  e sognano di farlo animati da spirito di emancipazione, spinti 
                  dal desiderio di emergere dagli stati di subordinazione cui, 
                  nei millenni del cammino collettivo della specie, sono stati 
                  costretti e continuano ad esserlo. Una ricerca che conferma 
                  ampiamente ciò che, senza esserlo affatto, può 
                  esser travisato come banale: il sogno di vivere bene; l'utopia 
                  insomma, si combina ed è strettamente legata alla voglia 
                  e al bisogno di mangiare al meglio, perché il vero desiderio 
                  che preme dal profondo delle pulsioni biologiche è proprio 
                  quello di vivere felicemente e di conoscere soddisfazioni il 
                  più possibile. 
                  La connessione tra “cibo” e “utopia”, 
                  come mette bene in risalto il sottotitolo L'eterna lotta 
                  tra carnevale e quaresima, è un rapporto carico di 
                  conflittualità e manifesta tensioni radicalmente opposte 
                  tra loro. Da una parte la ricerca, fin dall'antichità, 
                  di pulizia e purificazione, di bisogno di emendarsi, che si 
                  riconosce in diete vegetariane che rifiutano la contaminazione 
                  delle carni in tutte le loro varianti. Dall'altra la rappresentazione 
                  di succulenti desideri traboccanti opulenza, dove la sovrabbondante 
                  enormità dei cibi sognati manifesta il bisogno di uscire 
                  dall'indigenza e dalla penuria imposti dalla prepotenza dei 
                  potenti. 
                  “Una cosa è certa: il cibo nei mondi Utopici diventa 
                  un marcatore culturale, un principio identitario, in quanto 
                  ciò che si mangia è il riverbero dell'impianto 
                  ideologico sul quale si fonda un determinato immaginario sociale; 
                  il cibo quindi, come insegna Claude Lévi-Strauss (1908 
                  – 2009), deve essere non solo buono da mangiare, ma anche 
                  buono da pensare. Ed è esattamente per questo motivo 
                  che, nella storia dell'umanità, il sogno della riforma 
                  sociale è andato di pari passo con l'idea di una riforma 
                  alimentare” (pag. 31). 
                  Com'è giusto che sia, il viaggio comincia dall'antichità, 
                  dai primordi, dalla mitologica e agognata “età 
                  dell'oro”. Dai cibi dei primi racconti allegorici delle 
                  religioni, “la storia delle religioni è ricca di 
                  riferimenti a bevande magiche, a pozioni, a cibi divini” 
                  (pag. 34), a Esiodo, al Platone de “La Repubblica”, 
                  al ricco cibo effettivamente mangiato dall'aristocrazia romana 
                  opposto a quello povero delle plebi, che di contrasto sognavano 
                  banchetti luculliani. “Pare evidente il netto contrasto 
                  tra la reale vita quotidiana della plebe e l'opulenza della 
                  classe patrizia che da una parte vedeva la miseria e dall'altra 
                  una alimentazione eccessiva capace di cagionare gravi malattie 
                  da eccesso. [...] Il cibo diventa un marcatore culturale, sociale 
                  ed anche politico capace di evidenziare le differenze tra classi. 
                  Non è un caso che a Roma spesso il politico in cerca 
                  di consensi spesso offrisse il famoso panem, talvolta unito 
                  al circenses” (pag. 64). 
                  È un excursus, fondamentalmente incentrato sull'occidente, 
                  che ne attraversa tutte le epoche culturali, confrontandosi 
                  anche di tanto in tanto con altre civiltà. Dal significato 
                  del cibo per gli ebrei, per i quali “l'alimentazione ha 
                  costituito un segno fondante dell'alleanza tra uomo e Dio” 
                  (pag. 73), alle diete della cristianità, dove assume 
                  un'importanza predominante l'utopia agostiniana della “Città 
                  di Dio”: “si passa dall'idea platonica di stato 
                  come governo retto dai filosofi a quello stato inteso quale 
                  strumento della divina provvidenza” (pag. 87). Scelta 
                  sostanzialmente legata alla penitenza, perché tutta l'utopia 
                  cristiana è impregnata del senso del peccato originale, 
                  coincidente con un peccato di gola per aver mangiato il pomo 
                  della conoscenza proibito da Dio. 
                  Un dettato teologico che contraddice in modo vistoso le tavole 
                  dei nobili medioevali, riccamente e viziosamente imbandite, 
                  spudoratamente contrastanti con la povertà dei contadini. 
                  “Per il popolo la razione di cibo giornaliera spesso era 
                  scarsa, la netta divisione sociale si manifestava in maniera 
                  eclatante sulle tavole, o troppo ricche di cibo, o molto povere 
                  [...] se da un lato si inseguivano sogni miranti ad un'alimentazione 
                  pura o benedetta, dall'altra non si esitava a nutrirsi in abbondanza 
                  contravvenendo le regole che la Chiesa imponeva [...] il Medioevo 
                  fu un periodo di eccessi dove carnalità e spiritualità 
                  si confrontavano e si mescolavano dando vita a sogni infiniti” 
                  (pag. 92). 
                  Questa condizione rappresentò una spinta irrinunciabile 
                  per “una contro utopia che si propone immediatamente come 
                  il rovesciamento della concezione quaresimale”. Presero 
                  così forma i vari miti e le diverse fantasie che ostentavano 
                  il sogno di un'abbondanza e di un benessere negati, che assumevano 
                  la forma di magnificenze gastro/culinarie. I più noti 
                  sono il “Paese di Cuccagna” e il “Regno di 
                  Bengodi”. Tensioni e contrapposizioni sovversive che si 
                  perpetuano, attraversano il Rinascimento e continuano a propagarsi 
                  evolvendosi. Significative le smisurate abbuffate dei giganti 
                  Gargantua e Pantagruele descritte da Rabelais nel cinquecento, 
                  che fra l'altro danno forma all'abbazia di Theleme, insuperato 
                  luogo immaginario dove vige una libertà anarchica totale 
                  e in cui l'unica regola è: fa ciò che vorrai. 
                  “L'utopia di Theleme è un attacco in piena regola 
                  all'insegnamento tradizionale” (pag. 142). 
                  Cibo e utopia sottolinea in continuazione come il cibo, approntato 
                  e consumato, mostri in ogni epoca le differenziazioni di classe, 
                  prova prima dell'ingiustizia sociale che beneficia i privilegiati 
                  e condanna i deboli e sofferenti. Allo stesso tempo il cibo 
                  immaginato e desiderato rappresenta una autentica forza sovversiva, 
                  uno stimolo fondamentale per dare forma a utopie sociali dove 
                  si realizzano giustizia e benessere per tutti nella realtà 
                  negati. 
                  Il libro prosegue fino ai giorni nostri, attraversando l'Illuminismo, 
                  le diverse utopie politiche della rivolta moderna e delle tensioni 
                  rivoluzionarie otto/novecentesche. Si addentra con disinvoltura 
                  e colta consapevolezza nella controcultura americana degli anni 
                  sessanta del secolo scorso in uno splendido capitolo, “La 
                  controcultura americana e l'assalto al paradiso - la droga come 
                  cibo degli dei”, che ritengo sia una delle cose migliori 
                  scritte sulla “beat generation”. S'inoltra pure 
                  nel meraviglioso viaggio delle avanguardie artistiche, fino 
                  alle performance della Mail-art e di Fluxus, dove il cibo è 
                  elemento fondante di autentiche provocazioni. “Fluxus 
                  vuole far regredire il mito dell'artista elevando l'arte ad 
                  espressione elementare di un desiderio creativo che non è 
                  più appannaggio di una elite culturale ma è alla 
                  portata di tutti” (pag. 276). 
                  Non poteva che finire dicendo con forza che i due autori hanno 
                  un “desiderio potente”, antitetico al modello di 
                  sviluppo attuale, ma che si protende ugualmente verso un'utopia 
                  che spererebbero possibile. Di fronte al mondo attuale, che 
                  sembra irrimediabilmente finalizzato a soddisfare un'esigua 
                  minoranza che s'impone prepotentemente su tutti gli altri, l'utopia 
                  desiderata è proposta con queste parole: “Vogliamo 
                  un mondo dove a tutti i popoli, a tutti i singoli uomini, donne 
                  e bambini, vengano garantiti tutti i giorni tre pasti, e con 
                  un cibo sufficiente a nutrire il loro corpo e la loro mente. 
                  Un cibo che sia sano, buono e giusto e permetta a tutti di essere 
                  migliori, perché il cibo deve essere un diritto condiviso, 
                  non un privilegio o un lusso e neanche uno strumento di commercio” 
                  (pag. 316). 
                 Andrea Papi             
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