   
                 
                 
                  
                Dylan e il Nobel 
                Che pasticcio: per la prima volta il Premio 
                  per antonomasia viene assegnato a un grande cantautore che però 
                  non lo rifiuta, ma peggio, lo snobba. 
                 Questa rubrica è nata per parlare di musicisti (per 
                  lo più) stranieri, quelli che non passano mai alle radio, 
                  che non si trovavano mai nei negozi di dischi (quando questa 
                  rubrica è nata, quindici anni fa, ce n'erano ancora parecchi 
                  di questi negozi, ed erano un vettore importante di diffusione 
                  della musica), e così abbiamo parlato di francofoni, 
                  ispanici, slavi, ci ripromettiamo sempre di farlo anche di greci, 
                  di mediorientali (se non lo abbiamo fatto è solo perché 
                  ancora si fatica a superare certe barriere linguistiche per 
                  avere alcune minime informazioni). 
                  Poco o addirittura pochissimo abbiamo fatto per i cantanti di 
                  lingua inglese, non perché non ce ne siano a caterve 
                  che amiamo follemente (così per dire i primi che mi vengono 
                  in mente Phil Ochs, Woody Guthrie, Randy Newman, ecc.), ma nella 
                  convinzione che questa rubrica servisse a rompere il silenzio 
                  su un mondo intero che cantava in lingue la cui musica era per 
                  noi sconosciuta, e che invece chi canta in inglese, anche da 
                  una posizione ribelle, outsider, minoritaria, abbia sempre avuto 
                  modo di contare sulla più potente possibilità 
                  di diffusione. 
                  È per questo che non abbiamo mai sfiorato una vetta imprescindibile 
                  della cultura del secondo novecento: Bob Dylan. Ma ora - in 
                  un momento di frivolezza - vogliamo cogliere proprio l'occasione 
                  dell'assegnazione del Premio Nobel e della surreale sarabanda 
                  mediatica che è seguita sul Premio in sé - per 
                  la prima volta assegnato a un cantante folk e rock - e sulla 
                  stranissima reazione di Dylan, che per un bel po' s'è 
                  reso irreperibile (Sic) e poi ha detto che, pur essendone onorato, 
                  non si sarebbe presentato di persona a ritirarlo, adducendo 
                  pretesti (“impegni precedenti”) che nella loro vaghezza 
                  sono risultati pretestuosi, se non propriamente scandalosi. 
                  Proviamo ad intenderci, Bob Dylan è un genio, un poeta 
                  violento nelle immagini, raffinato linguisticamente e di una 
                  ricchezza creativa persino imbarazzante. Ha rivoluzionato il 
                  linguaggio in cui ha lavorato tre o quattro volte. Ragazzino 
                  ebreo proveniente da una provincia immobile e per nulla florida 
                  dell'America profonda, è arrivato a New York al principio 
                  degli anni sessanta sull'onda di una piena che portava centinaia 
                  di aspiranti artisti a partecipare agli albori di una rivoluzione 
                  di costume che aveva nella musica (e in particolare nella musica 
                  folk) la propria avanguardia. Fame di successo e sincera rabbia 
                  di vivere, affermazione personale e dinamiche generazionali 
                  sono gli inestricabili fattori che hanno fatto di Dylan il cantore 
                  più rappresentativo di un'epoca, l'artista che pur non 
                  svelandoci nulla e rifiutando ogni ruolo, è il prisma 
                  che tutto assorbe e attraverso cui tutto si scompone. Dylan 
                  era della generazione che, cresciuta nella miseria culturale 
                  degli anni del maccartismo (amplificata dall'appartenenza a 
                  una minoranza e dal confine provinciale), aveva percepito la 
                  propria affermazione fisica nel rock and roll di Elvis che presupponeva 
                  un'indicibile radice nera, ma si era poi raffinata e irrobustita 
                  culturalmente e politicamente con la poesia beat, le battaglie 
                  contro la discriminazione, la riscoperta di una controcultura 
                  popolare che aveva nel già malatissimo Woody Guthrie 
                  il proprio mito fondativo. 
                   Quando 
                  Dylan arriva quell'ambiente già brulica, ma vi è 
                  qualcosa di più radicale nel suo cantare sgraziato e 
                  memorabile, nel suo suonare perentorio e senza virtuosismi, 
                  nella capacità di scrivere in modo allegorico e narrativo 
                  assieme. Un pugno di canzoni di protesta scritte in meno di 
                  un lustro permangono a distanza di oltre cinquant'anni così 
                  solide nell'immaginario da far definire “menestrello sociale” 
                  un artista che ha smesso da allora di assumere posizioni leggibili. 
                  Poi era già il tempo della “svolta elettrica”, 
                  che gli guadagnò l'epiteto di “Giuda”, poi 
                  una ridda di mutamenti che potevano comprendere talvolta un 
                  vago fulmineo ritorno a una battaglia sociale, talvolta conversioni 
                  a qualche setta cristiana. Su tutto un artista inclassificabile, 
                  anticonformista, sfuggente, che certo dagli anni ottanta non 
                  ha più prodotto solo capolavori, ma che ha avuto modo 
                  di dimostrare che qualche capolavoro poteva pur sempre produrlo 
                  (a modesto avviso di chi scrive, l'ultimo fino a oggi “Love 
                  and theft” del 2001). 
				Il giorno delle locuste 
                Se c'era un rocker, uno solo, a cui fosse possibile assegnare il Nobel, questi non poteva essere che lui, non si poteva iniziare che da lui, quasi fosse scontato, quasi lo avesse già vinto e l'annuncio che inevitabilmente ne doveva venire non dovesse che ratificare un'eccellenza che chiunque o quasi si sia occupato di canzoni gli aveva già riconosciuto da così tanto tempo che era quasi scontato sostenerlo. “È come appuntare una medaglia sul monte Everest”, ha commentato con un pizzico di civetteria Leonard Cohen (un altro cui molti ritenevano potesse andare il sommo riconoscimento letterario) pochi giorni prima di morire. 
È qui che l'artista che ha sempre scelto di non essere rassicurante, che non concede nulla al suo pubblico stravolgendo, talvolta in modo interessante per lo più straziandole, canzoni fra le più importanti mai scritte, ma che vive letteralmente la sua vita in una tournée “infinita” che non conosce requie dal 1988, è proprio qui che Dylan ha sparigliato ulteriormente le carte, negandosi con quello che molti hanno interpretato, prima in modo quasi divertito poi con un isterico dispetto, come un supremo atto di snobismo, come una mancanza di rispetto inqualificabile. 
C'erano forse troppe attese collettive per questo Premio - che ratificava una volta per tutte che la Canzone è letteratura - per poter permettere a Dylan di assumere un comportamento che, a ben guardare, è coerente con la propria storia: questo era un Premio percepito come collettivo, un Premio alle decine di musicisti che hanno influenzato milioni di persone, Dylan sarebbe dovuto essere solo il rappresentante della categoria. Ma lui non rappresenta nessuno, avendo smarrito da lungo tempo persino se stesso. 
La posizione a dir poco ambigua di Dylan riguardo ai premi è nota sin dal '63, quando il suo manager Albert Grossman riuscì a collocarlo come ospite d'onore alla cerimonia di consegna del Tom Paine Award dal National Emergency Civil Liberties Committee, un premio importante in un ambiente radical chic e danaroso, una sorta di precoce consacrazione per un artista di 22 anni. Lì, durante il suo discorso di ringraziamento - in cui peraltro diede l'impressione di essere completamente ubriaco - suscitò un vero scandalo: “Vorrei non vedere voi qui davanti, gente senza capelli, che dovrebbe essere in spiaggia a nuotare... dovreste essere a riposo, dovreste essere in vacanza a rilassarvi... questo non è un mondo per gente vecchia... quando i vecchi perdono i capelli dovrebbero togliersi dai piedi... guardo quelli che mi governano e vedo che non hanno capelli in testa... e parlano dei negri, e parlano dei bianchi e dei neri... e parlano di rossi, blu e gialli” e concluse con uno scioccante riferimento all'assassinio di Kennedy avvenuto solo tre settimane prima: “Devo ammettere che l'uomo che ha ucciso il Presidente Kennedy, Lee Oswald, non so esattamente cosa pensasse di fare, ma devo ammettere onestamente che anche io vedo qualcosa di me stesso in lui” finì subissato dai fischi. 
La posizione di allergia alle cerimonie fu poi ribadita con veemenza nella canzone “Day of the Locusts” del 1970, nella quale si faceva riferimento alla Laurea ad honorem ricevuta a Princeton: “I banchi erano stinti / per le lacrime e per il sudore / gli uccellini volavano / di albero in albero / non c'era molto da dire / non c'era conversazione / mentre io salivo sul palco / per ricevere la mia laurea / e le locuste cantavano / l'oscurità era dappertutto / si sentiva odore di tomba / dismisi la toga / presi la laurea / e la mia ragazza / ed insieme guidammo / dritto verso le colline nere del Dakota / mentre io ero ben felice / di esserne uscito vivo / e le locuste cantavano / dandomi un brivido”. 
Dati questi precedenti noti a tutti, non sarà che allora la spocchia non è in Dylan, ma in chi pensa di piegarlo alla volontà dell'Accademia? 
				Se lo sai non lo premi, ma se non lo sai perché lo premi? 
                La prima volta di un cantautore al Nobel, dicevamo, ma Dylan è propriamente un cantautore? Per noi senza dubbio sì, ma è come tale che lui si percepisce? 
Il concetto che sta dietro il lemma “cantautore” non è del tutto esportabile: con delle non insignificanti differenze lo potremmo attribuire, oltre che agli italiani, agli spagnoli e ai portoghesi, in modo meno preciso ai latinoamericani, ai francofoni (che sono però più originari), ai cantori dell'Est Europa, con la significativa evidenza dei bardi russi, che senza imbarazzi si attribuivano la definizione di “poeti cantanti” e le cui raccolte di versi, nelle librerie russe, si trovano sullo stesso scaffale di quelli di Puskin ed Esenin. Il pubblico per un cantautore europeo è una cosa che si imparenta con il teatro di avanguardia, con le serate di poesia, col cabaret tedesco, nella versione proletaria col night e i jazz club e che poi, solo negli anni settanta, assume il ruolo di happening musical-religioso-politico. 
Il mondo anglosassone, con la significativa eccezione del Canada francofono (proprio Leonard Cohen è un maiuscolo esempio di cantante di lingua inglese, ma di cultura francofona-europea), vive tutt'altri e contrapposti miti. 
Negli Stati Uniti Dylan appartiene ancora a una generazione di passaggio che affonda le sue radici nella musica popolare di strada, nei “dritti gerganti” che imboniscono alle fiere: non puoi aspettarti da loro il rispetto per il pubblico, perché l'unica ragione di essere bravi non è aderire a un concetto estetico letterario, ma far piovere le monetine nel bicchiere. Dylan ha qualcosa del predicatore quacchero che arringa in mezzo al paesino, del filosofo hippie, del bluesman che canta la salvazione in chiesa la domenica mattina e poi va a suonare la chitarra nel bordello, molti mondi popolari sono i potentissimi indimenticati modelli della sua cultura. Non è con una medaglia che avresti potuto redimere il bluesman Leadbelly dalla sua condanna per omicidio, c'è alla base di quelle vite (e nella memoria viva dei loro seguaci) un'esperienza durissima, inconciliabile. 
Certo il comportamento di Dylan non è mai stato molto urbano, e soprattutto in questo caso non s'è smentito: se Dylan sa da molto tempo di non essere l'eroe della classe lavoratrice Woody Guthrie, non è mai voluto diventare nemmeno un saltimbanco vitaminico come Springsteen, che ha trasformato il concerto rock in un esercizio muscolare e adora il pubblico che lo ricambia. Dylan sta in mezzo irresoluto, più cieco di Omero brancola genialmente sapendo benissimo dove va ma non sapendo perché, senza pace in una tournée infinita. Dylan disprezza il suo pubblico e la sua condanna a suonare eternamente, lo fa come se fosse inseguito dalla miseria, come se ignorasse di essere miliardario. È questo il suo genio, la sua condanna e il suo pessimo carattere. 
Dylan si sente imparentato in pari grado con Elvis, con Guthrie, con Rimbaud, con Charley Patton e con... Abramo Lincoln. Non vive la cuginanza/dipendenza dalla Letteratura Accademica né il contrapposto senso di superiorità e meschino rancore economico rispetto al Pop. Invitarlo in Svezia vuol dire invitare tanto un erede di Withman quanto uno di Jerry Lee Lewis - il rocker degli anni cinquanta soprannominato “il Killer” che incendiava i pianoforti per far dispetto a chi suonava dopo di lui. 
Dare il Nobel a Dylan è come invitare un madonnaro (col talento di Michelangelo) nel salotto buono della nobiltà letteraria pensando che non sia costitutivamente estraneo e alieno da quel mondo. Lui probabilmente dipingerà la sua peggiore schifezza (perché non lì gli serve dimostrare che è bravo: la bravura in un artista di strada serve solo sulla strada per ricevere più spiccioli di mancia) e in più ruberà l'argenteria e vi lascerà una cacata sul tappeto buono. 
Dylan non è Sartre, non boicotta né approva, Dylan è Jokerman: il baro, il ladro, il mercante. Non ha posizioni etiche, lui serve la bellezza e in più è notoriamente uno stronzo (“troppo stronzo per essere corruttibile” disse più o meno Patty Smith, che infatti è andata in Svezia in sua rappresentanza). 
Quindi il fatto che non si sia presentato era il massimo della cortesia che gli si potesse chiedere. 
                 Alessio Lega 
                
                   
                    |    Ricordando 
                        Riccardo Schwamenthal. Vi dobbiamo purtroppo comunicare 
                        che il nostro amico Riccardo Schwamenthal è morto 
                        il 4 novembre scorso. È un'altra, l'ennesima, perdita 
                        incalcolabile nel campo della musica popolare e del jazz 
                        (le sue due grandi passioni), a maggior ragione perché 
                        Riccardo di questi mondi era l'occhio della memoria, lo 
                        splendido fotografo. Spesso, praticamente tutte le volte 
                        che abbiamo parlato di questi argomenti, avevamo saccheggiato 
                        il suo archivio, anche recentissimamente, e lui sempre 
                        di buon grado ce lo ha concesso, per passione, per militanza, 
                        per memoria. 
                       a.l.  | 
                   
                 
                
               |