Yvonne Rainer/ 
                  L'anarchia a passo di danza 
                Yvonne Rainer è una ballerina, coreografa e regista 
                  americana che ha segnato la storia della danza postmoderna. 
                  Donna di grandissima intelligenza e spirito di sperimentazione, 
                  ha portato in ogni campo artistico, in cui si è confrontata, 
                  dei cambiamenti profondi e, per certi aspetti, irreversibili. 
                  Nasce il 24 novembre del 1934, a San Francisco, in un ambiente 
                  in cui l'arte e la politica erano di casa: dal padre imparerà 
                  ad usare la telecamera e dalla madre apprenderà la tecnica 
                  della danza classica. Come lei stessa racconta, i suoi genitori 
                  erano considerati per l'epoca “radicali” e fu esposta, 
                  sin dalla più giovane età, “alle influenze 
                  inebrianti di poeti, scrittori e anarchici italiani”. 
                  A 21 anni decide di trasferirsi a New York, città in 
                  cui studia con i grandi della danza contemporanea, ma come altri 
                  giovani dell'epoca, spinta da uno spirito libero, partecipa 
                  alla fondazione di un collettivo di ballerini, il Judson 
                  Dance Theater, in cui non c'è nessun maestro o coreografo 
                  che dispone dei corpi altrui, ma tutti sono maestri e coreografi 
                  di tutti. Il gruppo era formato da ballerini, compositori e 
                  artisti visivi che si riunivano ogni settimana per provare; 
                  il primo spettacolo ebbe luogo il 6 luglio 1962 e tra il 1962 
                  e il 1964 produssero quasi duecento spettacoli. Era un luogo 
                  di collaborazione tra artisti in un clima di totale libertà, 
                  in cui l'ispirazione, per molti dei pezzi creati, era rappresentata 
                  dai gesti quotidiani e spesso gli interpreti per le perfomance 
                  di danza non erano ballerini. 
                
                 Fu in questo contesto che Yvonne Rainer emerse con una critica 
                  fortissima e un rifiuto categorico a tutto quello che la danza 
                  in quel momento storico rappresentava e ai codici e alle limitazioni 
                  tecniche da questa imposta; infatti, nel 1965 pubblica il “No 
                  Manifesto”. Questo grido libertario sarà il punto 
                  di partenza della corrente artistica a lei attribuita, detta 
                  minimalismo: Yvonne porta la danza in un nuovo territorio, in 
                  cui ci si slega completamente dallo spettacolo, proponendo un'idea 
                  del tutto rivoluzionaria: tutti possono muoversi e quindi tutti 
                  possono danzare. Nel “No Manifesto” si concretizza 
                  non solo un'accusa sociale, ma vi sono una serie di istruzioni 
                  per l'artista. Questo documento le serve come terreno per demistificare 
                  la danza come spettacolo, che consenta di abbandonare una riflessione 
                  sullo spettatore volta unicamente a convincerlo di qualcosa, 
                  trasformandolo in un soggetto manipolato. 
                  La sua idea era, invece, quella di creare una scena neutrale 
                  che non avvolgesse il pubblico, dove il movimento non rappresenterà 
                  niente di più che il movimento e dove la naturalezza 
                  dell'opera si concentra nella presenza obiettiva dell'essere 
                  umano sulla scena. 
                  I no del Manifesto sono: 
                  No allo spettacolo 
                  No al virtuosismo 
                  No alle trasformazioni, alla magia e alla finzione 
                  No al fascino e alla trascendenza dell'immagine della star 
                  No all'eroico 
                  No all'antieroico 
                  No alle immagini spazzatura 
                  No al coinvolgimento dell'interprete e dello spettatore 
                  No allo stile 
                  No all'affettazione 
                  No alla seduzione dello spettatore attraverso artifici dell'interprete 
                  No all'eccentricità 
                  No al far commuovere o ad essere commosso. 
                  Convinta del fatto che l'arte è politica nella misura 
                  in cui destabilizza e crea tensione, Yvonne si allontana dal 
                  luogo comune della rappresentazione, poiché, mentre per 
                  la maggioranza la danza significava produzioni sceniche, lei 
                  cerca di allontanare il danzatore dallo spettatore. Si rifiuta 
                  di “vendere la fantasia”, come aveva fatto sino 
                  a quel momento la danza, ma propone un'idea nuova dove la danza 
                  non risponde alla semplice industria culturale che trasforma 
                  l'arte in bene di consumo, ai fini dell'intrattenimento e che 
                  viene legittimata per mezzo degli spettatori. È anche 
                  per questa ragione che la sua elezione spaziale va verso luoghi 
                  sino ad allora assolutamente impensabili per ospitare performance 
                  di danza: un modo anche questo per ribellarsi al “sistema 
                  dell'arte”. 
                  In questa sfida a tutto campo della “danza tradizionale” 
                  non si chiede che cosa possa significare la danza o rappresentare 
                  la danza, ma va all'essenza della questione: cos'è la 
                  danza? La danza è il movimento del corpo umano e questo 
                  diventa la centralità della sua attenzione. 
                  Emblematico è, a tal proposito, un pezzo intitolato Trio 
                  A, inserito in un progetto dal titolo eloquente The mind 
                  is a muscle (“La mente è un muscolo”, 
                  1966): si tratta di una partitura coreografica nella quale non 
                  si vuole dare alcun minimo piacere allo spettatore - manca infatti 
                  qualsiasi contatto visivo col pubblico - in cui si rompe lo 
                  stereotipo del danzatore attraverso l'uso di movimenti isolati 
                  e programmati, con una distribuzione uniforme di energia. L'obiettivo 
                  è quello di proporre l'essere umano come un qualcosa 
                  di espressivo di per sè, senza la necessità di 
                  tutta una trasformazione drammatica o psicologica per comunicare 
                  qualcosa. Da qui, l'altro assunto rivoluzionario: il corpo significa 
                  per se stesso1. 
                  Nel 1972 passa al cinema e in questo nuovo campo emerge una 
                  fiorente coscienza femminista: nei suoi film2 
                  c'è un'attenzione forte al modo in cui il corpo viene 
                  visualizzato o oggettivato dall'obiettivo della fotocamera, 
                  non segue convenzioni narrative, ma affronta questioni sociali 
                  e politiche. 
                  Dopo diversi anni dedicati al lavoro di regista e alla stesura 
                  di diversi libri3, ritorna alla 
                  danza4 e tuttora, ultraottantenne, 
                  continua a coreografare e a far sentire la sua voce libera. 
                 Julka Fusco 
                
                
                  - Tra i molti lavori di Yvonne Rainer ricordiamo: Three 
                    Satie Spoons (1961); Ordinary Dance (1962); Terrain 
                    (1962); We Shall Run (1963); Continuous Project-Altered 
                    Daily (1969); War Street Action (1970); This 
                    is the story of a woman who... (1973); Two People 
                    on Bed/Table (1974). 
                  
 - Journeys From Berlin (1971); Lives of Performers 
                    (1972); Film About a Woman Who (1974); Kristina 
                    Talking Pictures (1976); The Man Who Envied Women 
                    (1985); Privilege (1990); MURDER and murder 
                    (1996). 
                  
 - Work 1961-73, Halifax 1974; A Woman Who... Essays, Interviews, 
                    Scripts, Baltimore 1999; Feelings Are Facts: A Life, Cambridge 
                    2006; Poems, New York 2011. 
                  
 - AG Indexical, with a Little Help from H.M. (2000); 
                    RoS Indexical (2007); The Rite of Spring Living: 
                    Good Sports 2 (2010); Assisted Living: Do You Have 
                    Any Money? (2013); The Concept of Dust, or How do you 
                    look when there's nothing left to move? (2015).
                
  
                  
  
                   
                La terra è di chi la canta/ 
                  Claudia Crabuzza, “portatrice sana” di tradizione 
				Vincitrice della targa Tenco 2016 per la categoria “miglior 
                  album in dialetto e lingua minoritaria” con il lavoro 
                  Com un soldat (in coabitazione con James Senese autore 
                  dell'album 'O sanghe) Claudia Crabuzza, cantautrice, 
                  compositrice, scrittrice, ricercatrice e attivista algherese, 
                  è una delle voci “nomadi” più interessanti 
                  del panorama musicale situato tra la ricerca cantautorale e 
                  la matrice popolare. 
                  Il nomadismo di cui parliamo si riferisce, oltre al viaggio 
                  fisico tra le capitali europee e le “carreteras” 
                  messicane che Claudia ha attraversato, in particolar modo alla 
                  desueta capacità di metabolizzare i cambiamenti e le 
                  trasformazioni, umane e sociali, che Claudia porta con naturalezza 
                  con sé mettendo “in movimento”, e quindi 
                  in connessione, vissuto personale e paesaggi sonori, attivismo 
                  sociale e percorso artistico. La matrice popolare, invece, di 
                  cui Claudia Crabuzza è “portatrice sana”, 
                  si affranca dalla posticcia e sterile connotazione etnico-dialettale 
                  ed emerge come nitida voce e fervido pensiero delle genti e 
                  dei popoli che la storia da sempre relega a sudditi e comprimari. 
                  Claudia è una sorta di cantastorie, anzi, cantora, che 
                  utilizza la voce come veicolo di guarigione e come una sorta 
                  di libro che svela finalmente pagine di storia (e di storie) 
                  negate, messe al bando. Racconta con forza e delicatezza il 
                  disagio e il dolore, la rabbia e la dignità, la bellezza 
                  e le emozioni che l'essere umano produce per la sopravvivenza, 
                  sulla linea di confine tra la festa e la lotta, tra la contemplazione 
                  che trasforma il disagio in qualcosa di artistico e le tante 
                  battaglie quotidiane che l'uomo, e soprattutto la donna, deve 
                  compiere per “bonificare” i campi minati dalle ingiustizie 
                  e dalle sopraffazioni, dalle solitudini e dal pensiero massificato. 
                  Com un soldat, appunto. 
                
                 Gerry - Cominciamo da qui, Claudia. Raccontaci di questo 
                  tuo ultimo lavoro (il primo da solista, narrano le cronache) 
                  e del significato del riconoscimento al Tenco. 
                  Claudia - Com un soldat è un racconto dalla parte 
                  delle donne. Non era un piano, mettendo insieme le canzoni mi 
                  sono resa conto che il filo conduttore era la femminilità, 
                  la mia e quella di ogni donna. C'è la maternità 
                  e il legame spirituale con Madre Terra, ci sono gli omaggi alle 
                  donne-modello come Frida Khalo, a cui avevo già dedicato 
                  una canzone in Barbari dei Chichimeca, Lhasa de Sela e anche 
                  un omaggio a Bianca D'Aponte, cantautrice aversana di cui ho 
                  ripreso una ninna nanna che descrive un legame tragico tra figlia 
                  e madre, quindi anche in questo caso un tema fortemente femminile. 
                  Poi ci sono le paure che ho descritto in Com un soldat, 
                  che ti chiudono in un'armatura che paralizza e impedisce movimenti 
                  e sentimenti, come un soldato, e che in modo molto femminile 
                  si possono invece abbandonare per ritornare alla libertà 
                  e alla vita. 
                   
                  Mi ha sempre colpito la tua determinazione, la tua passione 
                  e la tua voglia di stare “sulle barricate” dell'umano 
                  cammino (dolente e leggero al tempo stesso). Molti ti conoscono 
                  per la straordinaria esperienza che porta il nome Chichimeca, 
                  Barbari. Raccontaci, non solo dal punto di vista biografico, 
                  il percorso di Claudia Crabuzza. 
                  Ho iniziato a cantare piccolissima e non ho mai smesso. Dopo 
                  qualche anno di piano bar e piccole esperienze live ho fondato 
                  i Chichimeca nel 2000, con Fabio Manconi e Andrea Lubino. Abbiamo 
                  inciso tre dischi con l'etichetta indipendente di Cagliari Tajrà 
                  insieme a Massimo Canu e Gianluca Gadau. Poi ritornati in trio 
                  non abbiamo mai smesso, tanto che ora i Chichimeca storici mi 
                  accompagnano come band nei miei live. Nel frattempo ho avute 
                  tante belle esperienze con artisti come Il parto delle nuvole 
                  pesanti, Mirco Menna, Tazenda, dr Boost, e un duo dedicato alla 
                  Canción Americana con Caterinangela Fadda, ed anche lei, 
                  insieme a Felice Carta che si occupa della parte elettronica, 
                  fa parte della mia band live. 
                   
                  Tra le esperienze che fortemente hanno caratterizzato 
                  il tuo cammino, sicuramente trova posto primario il tuo attivismo 
                  a sostegno dei popoli indigeni del Messico e della lotta Zapatista. 
                  Il sottoscritto viene da un'esperienza decennale con l'emittente 
                  antagonista bresciana Radio Onda d'Urto e scrive sulle pagine 
                  di A-rivista, due esperienze di informazione dal basso protagoniste 
                  nel raccontare le vicende dell'insurgencia zapatista 
                  a partire da quel 1 gennaio 1994. Cosa ti ha spinto verso quella 
                  lotta (che hai anche cantato) e quali le istanze che fai tue 
                  nella ricerca personale ed artistica. 
                  Ho conosciuto la lotta zapatista a San Cristóbal de las 
                  Casas quando un artigiano, Armando, mi ha raccontato tutto quello 
                  che era successo aprendomi un mondo sino ad allora sconosciuto. 
                  Nel mio secondo viaggio in Messico ho fatto un piccolo periodo 
                  come osservatrice internazionale nella comunità di Polhó, 
                  negli Altos del Chiapas, e ho avuto modo di vedere coi miei 
                  occhi il lavoro fatto dagli zapatisti. 
                  Condivido tutto il percorso politico, a partire dalla consapevolezza 
                  che le armi non avrebbero potuto rappresentare nessuno e che 
                  la difesa vera è da fare dall'interno, sradicando alcolismo 
                  e violenze dalle comunità devastate dal degrado a cui 
                  erano state condannate dai governi centrali, garantendo pace 
                  attraverso la ricostruzione dall'interno della scuola, della 
                  sanità, del lavoro cooperativo. Per molti anni i rapporti 
                  internazionali favoriti dall'impatto mediatico di Marcos hanno 
                  aiutato a raggiungere gli obiettivi iniziali, poi le comunità 
                  hanno imparato a marciare da sole dimostrando la capacità 
                  di autogovernarsi con una democrazia partecipativa che noi occidentali 
                  ci sogniamo. Mi ritrovo in questo percorso anche come paradigma 
                  e credo che tutti dovrebbero imparare da questo grande esempio 
                  dal basso. 
                   
                  Inevitabile e ineluttabile parlare del tuo “mondo 
                  indigeno”, quello sardo-algherese. Cosa rappresentano 
                  per te lingua e territorio e come si fa a non lasciarsi ammaliare 
                  dalle sirene esotico-demagogiche della questione legata alla 
                  cosiddetta appartenenza etnica? Che valore attribuisci alla 
                  cultura di tradizione popolare e quale significato riveste per 
                  te cantare nel catalano di Alghero? Parlaci anche della connotazione 
                  storico-linguistica di Alghero. 
                  Alghero è un porto e ha assorbito mille culture. La traccia 
                  più forte che abbiamo conservato, quella a cui teniamo 
                  di più, è quella linguistica, che deriva dalla 
                  dominazione catalana iniziata nel 1354 da cui abbiamo ereditato 
                  architettura e lingua catalana. Oggi il nostro algherese è 
                  riconosciuto come lingua minoritaria e riassume in sé 
                  il senso di identità che ci distingue, anche se purtroppo 
                  la trasmissione si è interrotta per molti della mia generazione. 
                  Credo che si debba fare uno sforzo per non perdere quello che 
                  è forse il nostro unico tesoro tradizionale. Avevo il 
                  desiderio di contribuire a questo lavoro di utilizzo reale più 
                  che di conservazione. Il sound del disco, elettronico e contemporaneo, 
                  serve a riportare tutto ad un uso corrente e “normale”, 
                  allontanandosi dal suono del folk/etnico. 
                   
                  Restiamo agganciati ai temi di cui sopra e alla tua città. 
                  Uno dei lavori più belli e significativi del tuo nomadismo 
                  artistico e del tuo ruolo di “portatrice sana” di 
                  tradizione è stato l'omaggio al poeta e cantautore Pino 
                  Piras, Un home del país e alla sua indole libertaria, 
                  anarchica. Raccontaci di Pino, del suo pensiero in forma di 
                  attualità, e del progetto successivamente da te ideato. 
                  Proprio da Piras è partito il mio riavvicinamento al 
                  catalano di Alghero. Pino Piras è un autore completo, 
                  con una produzione immensa e ancora oggi non del tutto esplorata. 
                  Ha scritto canzoni e opere teatrali, fiabe e diari. Lo considero 
                  un De André del popolo. Ha messo nelle sue opere la critica 
                  del potere e dei vizi del popolo, ma anche la tenerezza e l'amore 
                  per il centro storico in cui era nato e i suoi abitanti, con 
                  uno sguardo acuto e mai gratuito, sempre inflessibile. È 
                  un De André che non aveva dalla sua né l'istruzione 
                  né i soldi. Ha fatto tutto da solo imparando e studiando 
                  tutto quello che poteva, perché si sentiva responsabile 
                  della propria crescita e del miglioramento della sua classe 
                  sociale. Il mio omaggio è partito da un piccolo documentario 
                  video in cui ho intervistato l'anziana madre Maria e tanti che 
                  l'hanno conosciuto e amato. 
                   
                  Con il progetto Violeta Azul, avevi ricevuto il premio 
                  Maria Carta. Senti dei punti di contatto con questa straordinaria 
                  testimone del canto di festa e di lotta? Che sensazione hai 
                  quando si parla di canto politico? Qual è la funzione 
                  principale del canto secondo Claudia Crabuzza? 
                  Il canto è sempre politico, come la vita. È una 
                  forma di pensiero e di lotta. Violeta è stata la maestra 
                  del canto politico e la prima ricercatrice del canto popolare. 
                  È il mio modello, ma il suo contributo è inarrivabile. 
                  Io canto quando posso, come posso, diceva il poeta, cercando 
                  di dare un segno utile, e l'utilità sta anche solo nel 
                  fare delle canzoni che diano un goccio di gioia a chi le ascolta. 
                   
                  Un po' di considerazioni sparse che sono indissolubilmente 
                  legate fra loro. 
                  Mi piacerebbe intanto che tu parlassi anche del progetto 
                  di produzione indipendente Tajrà (anche da un punto di 
                  vista etimologico). Cosa si può ancora dire rispetto 
                  alla polverosa e fossile iconografia con la quale si innesta 
                  un artista in un genere musicale? Il maestro Jannacci cantava 
                  “quelli che cantano dentro ai dischi perché c'hanno 
                  i figli da mantenere”; non è il tuo caso, mi sembra 
                  di capire, anche se di figli ne hai tre. Rispetto all'annosa 
                  questione del diritto d'autore Claudia Crabuzza che idea si 
                  è fatta in merito? 
                  Ho inciso i tre dischi dei Chichimeca con Tajrà, etichetta 
                  indipendente di Cagliari fondata da Gianni Menicucci, che ha 
                  un nome onomatopeico, richiama il tajrarà con cui si 
                  canticchia allegri ignorando le parole. La politica di Tajrà 
                  e anche la nostra è sempre stata quella del puro piacere. 
                  Piacere di fare quello che ti piace e senza porsi problemi di 
                  successo o di riscontro. L'Italia non è un paese per 
                  romantici, e infatti nessuno di noi ha campato di musica sino 
                  ad ora ma convinta che sia l'unica maniera di creare qualcosa 
                  di duraturo e sincero. I diritti d'autore sono l'unica eredità 
                  che lascerò ai miei figli, un giorno spero che varranno 
                  qualcosa, e sono fiduciosa che il mastodonte SIAE si adatti 
                  ai nuovi sistemi di scambio in rete in cui gli autori ottengono 
                  il pagamento delle royalties, anche se per ora sono molto basse. 
                  Confido anche nelle società come il Nuovoimaie che riconoscono 
                  il diritto di esecuzione, che oggi invece può fare la 
                  differenza. 
                   
                  Crabuzza scrittrice. Dovessi pensare ad un racconto per 
                  A-rivista che trame e che personaggi sceglieresti? E ancora, 
                  di chi e di cosa vorrebbe scrivere e cantare Claudia Crabuzza 
                  nei suoi prossimi viaggi randagi? 
                  Proporrei un pezzo che ho appena scritto che si chiama Femminicidio. 
                  Un racconto in versi che starebbe bene in un Poetry Slam, con 
                  cui do il mio punto di vista sulla violenza, che inizia molto 
                  prima di finire ammazzate da un uomo. 
                  Ancora non so di cosa scriverò, non scrivo tanto, ogni 
                  tanto faccio il punto della situazione e mi accorgo di aver 
                  scritto un po' di cose e ci lavoro. Il prossimo disco spero 
                  che sia con i Chichimeca e che sia un disco di festa e di lotta 
                  con un suono internazionale ed elettronico. Per niente folk. 
                   
                  Per contattare Claudia Crabuzza: www.claudiacrabuzza.eu                 
                 Gerry Ferrara 
                  
  
                   
                Educazione libertaria/ 
                  Un incontro molto vivace e partecipato 
                Le realtà che costituiscono la REL hanno organizzato 
                  il 7° Incontro nazionale della Rete per l'Educazione Libertaria 
                  ad Abbiategrasso il 10 e 11 settembre 2016, con il contributo 
                  di Ubuntu, realtà di autoapprendimento libertario presente 
                  proprio ad Abbiategrasso. 
                  La forma decisa collettivamente è stata quella dell'incontro 
                  aperto al pubblico per entrambi i due giorni. Il primo giorno 
                  è stato dedicato a gruppi di discussione su temi proposti 
                  e condivisi nell'iniziale assemblea plenaria. Questi i temi 
                  scelti: La comunicazione nel gruppo: condividere, confrontarsi, 
                  confliggere; L'accoglienza e la relazione tra il gruppo e le 
                  famiglie; Oltre i generi: la sessuazione nei contesti di educazione 
                  libertaria; Educazione libertaria, non elitaria!; Statale libertario? 
                  Rapporti tra educazione libertaria e scuola di Stato; Filosofia 
                  con bambin* e ragazz*; L'educazione libertaria, questa sconosciuta. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Abbiategrasso (Mi), settembre 2016 - Il pubblico interessato alle discussioni  | 
                   
                 
                 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Un momento dell'apertura dell'incontro  | 
                   
                 
                 La mezza giornata successiva si sono invece svolti incontri 
                  con ospiti invitati a dialogare su questioni ritenute particolarmente 
                  significative: Più che un “successo scolastico”, 
                  con i/le ragazz* delle scuole libertarie Kether e Ubuntu; Giovani 
                  migranti. Oltre l'identità reti di solidarietà 
                  linguistica, con Sara Honegger Fresco (Presidente APS Asnada 
                  - Milano); L'educazione capovolta. Pratiche avverse alla 
                  congiura contro i giovani, con Stefano Laffi (ricercatore 
                  presso l'agenzia di ricerca “Codici” a Milano); 
                  Educazione, scuole e cultura libertaria. Una lunga storia 
                  anche italiana, con Goffredo Fofi (saggista, attivista, 
                  giornalista e critico cinematografico, letterario e teatrale) 
                  e Francesco Codello (pedagogista, per anni insegnante e dirigente 
                  scolastico, cofondatore della REL, referente italiano dell'IDEN 
                  e dell'EUDEC). Il programma completo si può trovare sul 
                  sito: www.educazionelibertaria.org. 
                  Tra sabato e domenica hanno partecipato all'incontro più 
                  di duecento persone provenienti da diverse regioni. Una parte 
                  apparteneva a realtà di autoeducazione libertaria che 
                  costituiscono la stessa REL; il resto erano educatori/educatrici 
                  che operano in contesti differenti, in un certo numero insegnanti 
                  della scuola di Stato, in presenza minore genitori interessati. 
                  La qualità della partecipazione ha confermato la crescita 
                  di interesse verso le esperienze di autoeducazione libertaria; 
                  espressione di un bisogno collettivo sempre più consapevole 
                  e convinto della necessità di realizzare esperienze di 
                  autoapprendimento autentiche e autonome, nate dai liberi interessi 
                  di bambin* e ragazz*, distanti dai diktat degli stati 
                  nazionali come dalle imposizioni familiari e, più in 
                  generale, dal dominio degli adulti. 
                  Per quanto riguarda gli incontri del sabato i gruppi di discussione 
                  sui temi proposti hanno dovuto misurarsi con il difficile esercizio 
                  di confrontarsi in gruppi fortemente eterogenei. Diversa provenienza, 
                  differenti aspettative e motivazioni producono spesso difficoltà 
                  che per essere sciolte bisognano di un tempo di esplicitazione, 
                  di ascolto attivo e di disposizioni d'animo non sempre facilmente 
                  e felicemente raggiunti. 
                  D'altro canto per chi è consapevole della necessità 
                  di un'opera di divulgazione è difficile esimersi da tale 
                  esercizio e, in ogni caso, tale esercizio è quotidiano 
                  per chi è consapevole che i processi di apprendimento 
                  libero si nutrono di incidentalità. 
                  È certo che le difficoltà di comprensione divengono 
                  occasione reciprocamente proficua solo se l'esercizio di ascolto 
                  viene liberamente scelto e/o accettato. Va aggiunto che ogni 
                  incontro, per dirsi significativo, necessita di un tempo che 
                  consenta di riconoscersi; un tempo più disteso di quanto 
                  non siamo riusciti a darci in quest'ultimo incontro. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Goffredo Fofi e Francesco Codello  | 
                   
                 
                 La giornata di domenica ha proposto degli ospiti che, a parte 
                  gli studenti di Kiskanu/Kether e di Ubuntu, non 
                  appartenevano propriamente al “mondo” dell'educazione 
                  libertaria. Per alcun* di loro, per loro stessa ammissione, 
                  l'educazione libertaria risultava una realtà alquanto 
                  sconosciuta. Il loro dire procedeva quindi da uno sguardo altro 
                  su temi e con osservazioni che riguardano anche le esperienze 
                  di autoeducazione libertaria: il dialogo tra provenienze culturali 
                  e sociali differenti, la questione della lingua, il nodo politico 
                  della differenza di genere (Sara Honegger Fresco); la dominazione 
                  adulta, la possibile liberazione dell'infanzia e dell'adolescenza 
                  dalla prefigurazioni del mondo adulto, la denuncia critica di 
                  un mondo della prestazione che l'adulto impone sin prima della 
                  nascita (Stefano Laffi). 
                  Dal canto loro Goffredo Fofi e Francesco Codello hanno dialogato 
                  amichevolmente. Fofi si è subito dichiarato “pessimista 
                  attivo” e in quanto tale per nulla disposto a riconoscere 
                  nell'esistente l'immagine del mondo migliore possibile. Ne ha 
                  invece rintracciato e descritto tutti quegli elementi che ne 
                  fanno una realtà il più possibile distante da 
                  un mondo realmente libero. Riguardo all'oggi ha svolto una critica 
                  serrata al mercato culturale riconoscendo alla produzione culturale 
                  la funzione di essere sempre più strumento di un potere 
                  che ha ridotto anche la cultura alle logiche del mercato e del 
                  commercio in forme adeguate ad un “popolo di consumatori”: 
                  “La cultura è l'oppio dei popoli. La cultura serve 
                  oggi per addormentare le coscienze, per far consumare cultura”. 
                  A partire da ciò Goffredo Fofi ha riconosciuto l'importanza 
                  e la necessità di costruire una trasformazione radicale 
                  dell'esistente. Tale trasformazione può essere possibile 
                  a partire proprio da forme di apprendimento che realizzino un'esperienza 
                  critica del mondo: “Siamo in una fase in cui la mutazione 
                  ci impone di essere anche noi dei mutanti, di mutare anche noi. 
                  Di essere all'altezza dei bisogni, delle speranze e delle paure 
                  di questo tempo”. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   I ragazzi e ragazze di di Kether (Verona) e di Ubuntu (Abbiategrasso) si confrontano con la platea  | 
                   
                 
                 Sotto il segno di questa “necessaria” critica 
                  dell'esistente, Fofi ha pubblicamente dichiarato il proprio 
                  definitivo avvicinamento all'anarchia: “Io fino a poco 
                  tempo fa mi definivo socialista vagamente libertario. [...] 
                  Sono diventato anarchico perché il sistema di potere 
                  di quest'epoca non mi lascia tanta speranza. L'anarchia per 
                  me è diventata un obbligo e un bisogno. Non è 
                  un ideale generico, è una necessità fisica fondamentale 
                  oggi. Il sistema di potere è talmente capillare, talmente 
                  oppressivo, talmente vasto, talmente onnipresente in tutte le 
                  nostre esperienze quotidiane che resistere a questo sistema 
                  oggi è un dovere. Essere anarchici vuol dire non aderire 
                  alle ideologie del mondo così come è. [...] 
                  Bisogna avere la capacità di stare in questo mondo mentre 
                  si costruisce un altro mondo. È fondamentale”. 
                  Riprendendo parte del discorso di Fofi, Francesco Codello ha 
                  chiuso il 7° Incontro nazionale richiamando alcuni problemi 
                  aperti: 
                  - innanzitutto la necessità di crescere insieme: “Il 
                  futuro del cambiamento non può essere futuro di poche 
                  persone, di un'avanguardia più o meno illuminata”; 
                  - la consapevolezza che “la REL è soprattutto fatta 
                  dalle esperienze delle scuole libertarie e questo comporta una 
                  responsabilità collettiva per le persone, bambin*, adolescenti 
                  e adulti in esse coinvolte. Vite che sperimentano e rischiano 
                  quotidianamente successi e fallimenti passando dal desiderio 
                  alla realizzazione”; 
                  - la consapevolezza che dietro a parole, concetti, esperienze 
                  dichiarati e vissuti c'è una storia di cui ci si sente 
                  parte e rispetto alla quale ci si sente altrettanto responsabili. 
                  Una storia che appartiene a “una tradizione di pratiche 
                  e di riflessioni che viene da lontano” che nell'anarchismo 
                  ha la sua principale fonte di teoria e di prassi: “L'educazione 
                  libertaria è qualche cosa di preciso e caratterizzato 
                  e non può essere confusa con altre teorie e pratiche, 
                  poiché assume, anche, una precisa dimensione “politica” 
                  antiautoritaria e rappresenta, sicuramente, di fatto, un consapevole 
                  e fondamentale ruolo nel processo di radicale trasformazione 
                  della società in senso libertario”. 
                  Queste considerazioni finali confermano quali siano, per chi 
                  liberamente compone la REL, gli impegni al presente e per l'immediato 
                  futuro. Da un lato la costante verifica di quali siano oggi 
                  in Italia le possibilità per realizzare esperienze di 
                  educazione libertaria pubbliche e non di Stato. Quale e quanto 
                  impegno si rende necessario per sostenerle, renderle sempre 
                  più diffuse, qui e ora, nella convinzione di quanto queste 
                  esperienze contribuiscano alla “radicale trasformazione 
                  della società in senso libertario”. D'altro lato 
                  evitare il rischio di chiudersi nell'autoreferenzialità. 
                  Occorre “cercare costantemente di andare al di là 
                  del proprio specifico, magari gratificante, bello, positivo. 
                  Mantenere e sviluppare la capacità di leggere l'insieme 
                  delle cose. Far sì che le scuole libertarie divengano 
                  punto di riferimento, specchio nel quale riconoscersi”. 
                  Per fare questo bisogna anche “saper ascoltare e attendere 
                  queste persone; perché anch'esse possono essere specchio 
                  per le scuole libertarie in un'esperienza di reciproco riconoscimento”. 
                  Il 7° Incontro nazionale si è quindi concluso nella 
                  convinzione che un'altra educazione è possibile e con 
                  il rinnovato impegno di costruire insieme esperienze di autoapprendimento 
                  pubbliche, non di Stato, radicalmente libertarie, non solo “progressiste” 
                  o “democratiche”, in forme sempre più ampie 
                  e partecipate. 
                 Maurizio Giannangeli 
               |