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				 dossier Bookchin 
                  
                Per una società ecologica 
                  
                scritti di Murray Bookchin, Ermanno Castanò, Luca Lapolla, Giorgio Nebbia, Salvo Vaccaro 
                    
                Egrave; il titolo del volume di Murray Bookchin, padre dell'ecologia sociale, che Elèuthera ha da poco ristampato, quasi vent'anni dopo la prima edizione. Per noi, l'occasione per approfondire in questo dossier l'attualità di uno dei pensatori più innovativi e stimolanti dell'anarchismo, prima della sua rottura finale con l'anarchismo stesso. 
                 
                 
                 Uno stimolatore di 
                  riflessioni 
                   
                  di Salvo Vaccaro 
                   
                  La recente riscoperta curda del municipalismo 
                  libertario ha rianimato il dibattito sul valore teorico e pratico 
                  dell'ultima proposta bookchiniana per dare concretezza e progettualità 
                  all'anarchismo. Una riflessione al contempo stimolante e contraddittoria. 
                  Con la quale, comunque, è necessario fare i conti. 
                   
                    
                  Murray Bookchin è stato un intellettuale-militante del 
                  XX secolo, attraversando numerosi conflitti sociali e politici, 
                  mutando sensibilità ideologiche, maturando una posizione 
                  teorica di notevole segno libertario, inaugurando un filone 
                  di ricerca ambientale e urbanistica di grande spessore. E tuttavia 
                  la recente riscoperta di Bookchin in Europa la si deve a qualche 
                  paradosso curioso cui la storia spesso ci abitua. Un mancato 
                  incontro, una lettura attenta della sua opera in cui risaltano 
                  vistosamente le assenze di citazioni, uno slogan che traduce 
                  la celebre formula del municipalismo libertario in confederalismo 
                  democratico – il che non sarebbe la stessa cosa. 
                  Mi riferisco, come è ovvio, all'esperimento in Rojava 
                  in cui le best practices evocate negli scritti di Bookchin 
                  sono testate sul campo e adattate nonostante circostanze avverse 
                  e non certo idonee per esperienze innovative sul piano politico, 
                  partecipativo, sociale e persino istituzionale. «La richiesta 
                  di uno stato curdo indipendente è stata sostituita dal 
                  rifiuto dello stato in quanto tale per abbracciare il principio 
                  del confederalismo democratico, fondato su una sintesi delle 
                  idee dell'anarchico ed ecologista sociale americano Murray Bookchin 
                  e di altri autori con la tradizione curda nonché con 
                  esperimenti di ampia portata tipici della pragmatica organizzazione 
                  rivoluzionaria»1. 
                  Öcalan e Bookchin non si sono mai incontrati né, 
                  a quanto sembra, esiste un carteggio reale, al di là 
                  di uno scambio di lettere tra maggio e l'estate del 2004; Öcalan 
                  ha approfittato della presenza culturale di Bookchin in Turchia, 
                  e quindi della disponibilità di alcune sue opere in traduzione 
                  turca, per leggere avidamente e tradurre a suo modo la proposta 
                  di municipalismo libertario, cambiando definizione e ponendola 
                  come pietra miliare per i suoi seguaci, ancora oggi animati 
                  da un culto della personalità leggermente fuori registro 
                  per libertari e anarchici. Ma comunque senza mai citare direttamente 
                  una sola frase di Bookchin, se leggiamo gli scritti in carcere 
                  di Öcalan disponibili in lingua inglese o italiana. Qualcosa 
                  potrebbe essermi sfuggita, però. 
				Elementi di autogoverno in senso orizzontale 
                La proposta di Bookchin del municipalismo libertario rappresenta 
                  una strategia politica tesa a uscire dalla stagnazione di uno 
                  stile antagonista del fare politica collettivamente, che sistematicamente 
                  respinge ogni ipotesi di autogoverno se prima non si avvera 
                  l'evento rivoluzionario. Ma tale evento può divenire 
                  praticabile solo se i suoi protagonisti, oltre a combattere 
                  contro i sistemi di dominio, si rendano capaci, si allenino, 
                  comincino sin da subito a praticare elementi di autogoverno 
                  dei territori in senso orizzontale e partecipativo, offrendosi 
                  quindi come proposta politica non riformista nel senso grezzamente 
                  parlamentare, ma nemmeno puramente (e falsamente) esterna e 
                  estranea ad ogni lotta politica e sociale che abbia al proprio 
                  centro l'autogestione conflittuale del fatto politico, della 
                  convivenza politica su un dato territorio. E questa porzione 
                  di territorio Bookchin la individua nel microcosmo della città 
                  e delle sue istituzioni fortemente permeabili a modi di essere 
                  condotte diversamente. 
                  Là dove il rapporto tra governanti e governati è 
                  più prossimo fisicamente, diviene possibile erodere la 
                  verticalità condizionando il potere politico con un controllo 
                  dal basso o addirittura con un autogoverno dal basso. «Egli 
                  distingue la statualità, entro la quale gli individui 
                  hanno una ridotta influenza sulle questioni politiche dati i 
                  limiti del governo rappresentativo, dalla politica in 
                  cui i cittadini hanno un controllo diretto e partecipativo sui 
                  loro governi e comuni»2. 
                  Certo, Bookchin ha in mente le piccole città del suo 
                  Vermont, un paese del New England statunitense in cui i nessi 
                  tra potere centrale e poteri decentrati sono molto laschi, in 
                  cui non esiste alcuna figura riconducibile a quella del nostrano 
                  Prefetto, alto rappresentante del governo sul territorio locale, 
                  in cui gli echi di Washington arrivano deboli, in cui quotidianamente 
                  contano cose concrete piuttosto che le strategie dell'establishment 
                  finanziario di Wall Street o delle lobbies politiche-affariste-militari 
                  del Pentagono. 
                  Bookchin tuttavia non arriva a tale proposta solo per épater 
                  (meravigliare, ndr) la sonnolenta coscienza di una prassi 
                  libertaria spesso avvitata su se stessa, appagata del proprio 
                  percorso storico, compiaciuta di una sua pretesa purezza e incontaminatezza 
                  dalle porcherie della politica politicante. No, Bookchin vi 
                  arriva anche attraverso una ricognizione storica e urbanistica 
                  della nascita della città, della formazione del municipio 
                  italiano in epoca post-medievale e rinascimentale, sapendo cogliere 
                  con estrema finezza analitica i punti forti di una gestione 
                  collettiva del territorio da parte di segmenti sempre più 
                  consistenti di persone coinvolte in prima persona e autorganizzate 
                  in gilde, reti consortili e altre forme sperimentali in cui 
                  la politica di autogoverno si distanzia mille anni luce dai 
                  giochi del potere per il mero potere. 
                  Il municipalismo libertario non è solo una palestra di 
                  pratiche libertarie in conflitto con istituzioni accentrate, 
                  con partiti politici tradizionali, con formazioni sovrane extra-politiche 
                  come le imprese del capitale. È anche il terreno di conflitto 
                  da cui muovere verso una trasformazione qualitativa dell'esistenza 
                  che, in una parte ben precisa del mondo occidentale, ha abbandonato 
                  il fulcro centrale dell'industria operaia per ridislocarsi a 
                  tutto campo sul territorio in senso lato, e non solo nella ristretta 
                  configurazione dell'ente locale. 
                  Infatti Bookchin analizza il territorio sotto molteplici aspetti, 
                  primo dei quali quello ambientale, individuando innanzitutto 
                  nel mito politico ed economico della scarsità 
                  il perno dello sfruttamento del pianeta da parte di formazioni 
                  dominanti. Solo abbandonando questo falso paradigma antropico, 
                  così come fecero Clastres e Sahlins su registri etnografici, 
                  possiamo comprendere la giusta misura dell'impronta umana sulla 
                  terra, la prima delle quali è la cifra del dominio dell'umano 
                  sull'umano. 
				Contro il primitivismo, per un anarchismo sociale 
                L'ecologia della libertà non è perciò 
                  solo il titolo del suo testo più celebre, non è 
                  solo il manifesto di un nuovo ambientalismo radicale, ma è 
                  l'exemplum del nesso tra ambiente e libertà declinato 
                  virtuosamente in senso dialettico, come rovesciamento quindi 
                  dei rapporti di dominio e di sfruttamento dell'uomo sull'uomo 
                  (e sulla donna) che sono alla radice delle questioni più 
                  strettamente ecologiche e ambientaliste. Un rovesciamento che 
                  si fonda su uno sforzo critico in cui l'analisi del presente 
                  tiene conto del reale non come esso è, 
                  bensì come potrebbe divenire. 
                  Ecco l'impatto della sua posizione anarchica maturata nel corso 
                  di decenni in cui il suo pensiero non solo evolve, come è 
                  naturale per chiunque, ma delinea stratificazione sopra stratificazione, 
                  spiazzamento dopo spiazzamento, una cornice teorica anarchica 
                  al cui interno ricollocare, in modo rielaborato, i principali 
                  assi filosofici del '900, primo tra tutti la Teoria critica 
                  della famosa Scuola di Francoforte declinata in senso libertario 
                  e non solo marxista (ambito teorico da cui pur proveniva il 
                  giovane Bookchin, da ragazzo stalinista e trotzkista come tutti 
                  i marxisti degli anni '30 e '40). 
                  È il dominio politico alla radice di ogni sfruttamento 
                  mondano, dall'estrazione del plusvalore al degrado del clima 
                  della terra, dalla discriminazione di genere alla militarizzazione 
                  delle relazioni sociali, e questa chiara rivendicazione anarchica 
                  viene diffusa da Bookchin a sfere sempre più allargate 
                  dell'esistenza quotidiana, arricchita da un profondo respiro 
                  di segno storico che lungo i secoli della modernità insegue 
                  tenacemente le avventure della libertà contro l'ipoteca 
                  del dominio. Sono queste avventure concrete, storiche, legate 
                  a territori, legate a istituzioni politiche innovative, legate 
                  a dimensioni culturali per nulla etichettabili come anarchiche 
                  perché ante litteram, ma comunque votate alla 
                  ricerca di una libertà radicale, a segnare l'approccio 
                  teorico di Bookchin. 
                  Un respiro spesso denotato da una vena polemica fortemente vissuta 
                  anche verso i propri compagni più stretti, sino a sfidare 
                  la tolleranza verso posizioni di pensiero non sempre condivisibili, 
                  a maggior ragione allorquando la polemica si insinua dentro 
                  le fila dei libertari e degli anarchici. 
                  Uno degli ultimi pamphlet di Bookchin ha fatto molto 
                  discutere in ambiente anglo-sassone, aprendo una spaccatura 
                  analitica e politica che addirittura sospinse Bookchin ad allontanarsi 
                  dal movimento anarchico, poco prima di morire nel 2006 all'età 
                  di 85 anni3. Mi riferisco al 
                  testo Social Anarchism or Lifestyle Anarchism: an Unbridgeable 
                  Chasm, pubblicato nel 1995. 
                  Qui Bookchin attacca, talvolta in modo virulento come del resto 
                  praticano i suoi interlocutori, una esasperazione dell'individualismo 
                  anarchico quando esso si contrappone all'anarchismo sociale 
                  in cui l'elemento della pluralità collettiva della vita 
                  associata assume il ruolo di baricentro per ogni agire anarchico 
                  e libertario. Solo in tale condizione diviene possibile parlare 
                  di libertà – costitutivamente plurale -, laddove 
                  nella tipica postura individualista di derivazione liberale 
                  è l'autonomia a rivestire i panni principali del singolo 
                  individuo, tutto proteso a sé, alla propria autoformazione, 
                  alla propria pretesa di impermeabilità rispetto ad ogni 
                  penetrazione del potere nella sua identità. Bookchin 
                  non intende solo l'individualismo di fin de siècle 
                  che tanto sconquassò le fila del movimento anarchico 
                  a cavallo del secondo millennio, ma è inquieto di fronte 
                  alla risorgenza del primitivismo anticulturale, al rifiuto di 
                  ogni tecnologia umana, all'insurrezionalismo caotico e irrazionale, 
                  come lo definisce, in cui mettere assieme John Zerzan e Hakim 
                  Bey. 
				L'anarchismo come forma-di-vita, non solo pensiero e azione 
                Ai fini della trasformazione rivoluzionaria della società, 
                  tali posizioni vanno fermamente condannate perché distolgono 
                  forze e menti dall'agire entro le sfere della società 
                  per sincronizzarne un mutamento qualitativo di segno libertario, 
                  mentre l'arroccamento a sé dell'individualismo estetizzante 
                  significa un pericoloso allontanamento dall'obiettivo strategico 
                  della rivoluzione, per esaltare di contro il momento per il 
                  momento dell'atto ribelle, del beau geste esemplare e 
                  isolato, fine a se stesso, spesso incompreso se non da coloro 
                  che sono già sintonizzati sulla medesima onda del codice 
                  simbolico. 
                  Bookchin sembra cogliere una forte pressione del neoliberalismo 
                  governamentale di oggi a estirpare del tutto ogni esperienza 
                  plurale e collettiva per esaltare e valorizzare al massimo il 
                  singolo individuo che può tutto perché è 
                  l'attore prioritario del contemporaneo, un attore che, come 
                  dice lo stesso termine, mette in scena liberamente se stesso 
                  tanto se conforme al sistema imperante, quanto se difforme, 
                  pur di stagliarsi come singolo di fronte ad una società 
                  che non esiste in quanto tale (Maggie Thatcher docet), 
                  ma solo se intesa come società di individui, singoli 
                  e liberi per definizione liberale e libertaria insieme. 
                  È ovvio che per un anarchismo sociale di segno rivoluzionario, 
                  al cui interno attivare tattiche politiche quali il municipalismo 
                  libertario che obbliga l'anarchismo a misurarsi sulla gestione 
                  contraddittoria dell'autogoverno locale, esattamente come contraddittoria 
                  fu l'esperienza rivoluzionaria del 1936 in Spagna, l'individuo 
                  in sé è un'astrazione fittizia se pretesa incontaminata 
                  e pura da ogni forma di penetrazione del potere nel microcosmo 
                  della quotidianità. La sfida rivoluzionaria è 
                  giusto quella di accelerare in direzione libertaria un movimento 
                  di trasformazione collettiva che attraversa inesorabilmente 
                  ogni configurazione societaria, sempre dinamica e sempre in 
                  procinto di biforcarsi verso gli esiti più disparati, 
                  tanto reazionari quanto rivoluzionari. 
				Emancipazione dall'autorità costituita e autogoverno 
                Al contempo, però, Bookchin sembra non cogliere la grande 
                  valenza scardinante di un anarchismo che non è solo pensiero 
                  e azione, ma si fa vita, stile di vita non solo in senso estetizzante, 
                  ma che anzi assume la forma della vita stessa come agire rivoluzionario, 
                  come pensiero e azione sovversivo. Da Landauer a Foucault, lo 
                  stile di vita non è una astrazione estetica, bensì 
                  la precisa volontà singolare di legarsi collettivamente 
                  alla dimensione plurale attraverso una cura di sé che 
                  funge da collante con altri sé, al fine di modellare 
                  una condotta sovversiva, critica, avversa al potere che unisca 
                  ciò che la modernità ha scisso, ossia politica 
                  ed etica, agire sociale e modo di comportarsi tra sé 
                  e sé ma soprattutto tra i vari sé costituitisi 
                  come soggetti anarchici4. 
                  Questa forma-di-vita anarchica, mai data ma sempre conquistata 
                  nel conflitto tra sé e mondo illibertario, ha una potenza 
                  inestimabile perché connette pensiero e azione, una scelta 
                  dottrinaria con una scelta vitale e esistenziale non di superficie, 
                  non generazionale. È una potenza etopolitica5 
                  che costituisce ciascun sé nel legame associativo con 
                  altri sé – l'anarchismo lo designa come affinità, 
                  sulla scia delle affinità elettive di Goethe, a ben pensarci 
                  il crogiolo romantico cui devono molto Stirner e Bakunin pur 
                  nelle differenze di visioni – e che diviene capace, in 
                  tempi di effervescenza sociale, di scardinare forme tradizionali 
                  e contenuti consolidati sia di modi di pensare che di vivere. 
                  Nascono i movimenti degli ultimi decenni, nella loro traiettoria 
                  carsica che va da Seattle a Zuccotti Park, dagli zapatisti agli 
                  Indignados (nella loro avventura prepartitica rispetto 
                  a Podemos), dai vari Occupy a piazza Taksim (Turchia), 
                  dalle insorgenze nelle banlieux francesi alle periferie 
                  inglesi, e via continuando6. 
                  Quel che Bookchin riteneva una frattura insanabile, irriducibile, 
                  suona invece come una ineludibile tensione tipica di un ethos 
                  anarchico che si fa fatto sociale, e proprio nella giunzione 
                  tra posizione radicale del singolo e suo legame organizzato 
                  nei vari segmenti del vivere associato rende possibile l'affermazione 
                  di uno stile politico drasticamente mutato rispetto alla degenerazione 
                  istituzionale che l'ha pervertito. Infatti, come ricorda Jacques 
                  Rancière, l'irruzione della politica come rivendicazione 
                  del controllo della propria esistenza plurale è senza 
                  dubbio an-archica in senso costitutivo, ferocemente conflittuale 
                  con ogni pretesa archica di dominio tradizionale risalente 
                  alla notte dei tempi, all'inizio della storia, al “così 
                  è perché così è sempre stato”. 
                  Emancipazione dall'autorità costituita, precludendole 
                  ogni riapparizione, e autogoverno della forma di vita in cui 
                  siamo immersi costituiscono il doppio volto con cui storicamente 
                  e teoricamente si presenta l'anarchismo. 
                  Probabilmente, oggi, abbiamo un bagaglio concettuale più 
                  affinato che ci consente di declinare congiuntamente ciò 
                  che Bookchin riteneva una giuntura incolmabile. 
                  
                 Salvo Vaccaro 
                
                  
                  - David Graeber, Foreword a Michael Knapp, Anja Flach 
                  and Ercan Ayboga, Revolution in Rojava. Democratic Autonomy 
                  and Women's Liberation in Syrian Kurdistan, Pluto Press, 
                  London, 2016, p. XV.
                  
 - Debbie Bookchin and Blair Taylor, Introduction, a Murray 
                  Bookchin, The Third Revolution, Verso, London, 2015, 
                  p. XVIII. In italiano, cfr. Murray Bookchin, Democrazia diretta, 
                  eleuthera, Milano, 2015.
                  
 - «Bookchin disse agli anarchici che il suo progetto di 
                  municipalismo libertario costituiva la loro vera politica, la 
                  loro naturale teoria rivoluzionaria. Lo ascoltarono con rispetto, 
                  ma poi gli replicarono che non gradivano il governo locale al 
                  pari di altre cose del genere; mossero poi obiezioni al principio 
                  di votazione per maggioranza perché la minoranza non 
                  avrebbe avuto spazio. Gli anarchici preferivano gruppi comunitari 
                  non politici, cooperative, librerie radicali, comuni. Bookchin 
                  riteneva che tali istituzioni andassero bene, ma che per fare 
                  una rivoluzione seriamente si ha necessità di avviare 
                  un percorso per conquistare un potere politico concreto, strutturale, 
                  legittimo, legale. Il municipalismo libertario era un modo per 
                  farlo, per avere un piccolo punto saldo contro lo stato nazionale. 
                  Bookchin sollecitò gli anarchici, li cercò, li 
                  implorò, provò a persuaderli, li pregò, 
                  li invocò, polemizzò con loro. Fece di tutto per 
                  convincerli che il municipalismo libertario era il modo per 
                  rendere politicamente rilevante l'anarchismo. Ma nel 1999 – 
                  più o meno quando venne arrestato Öcalan – 
                  confessò infine a se stesso il proprio fallimento e iniziò 
                  un percorso di allontanamento dall'anarchismo» (Janet 
                  Biehl, Bookchin, Öcalan, and the Dialectics of Democracy, 
                  “New Compass”, 16 febbraio 2012).
                  
 - Reiner Schürmann, Costituire se stesso come soggetto 
                  anarchico, trad. it. in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), 
                  “Soggetto” a variazione, BFS, Pisa, 2000, 
                  pp. 67-87.
                  
 - Per una prima configurazione teorica, mi sia consentito rinviare 
                  a Salvo Vaccaro, Foucault: dall'etopoiesi all'etopolitica, 
                  in “materiali foucaultiani”, IV, n. 7-8, 2015.
                  
 - Cfr. Ursula K. Le Guin, Foreword, a Murray Bookchin, 
                  The Third Revolution, cit., pp. IX-XI. Inoltre cfr. Salvo 
                  Vaccaro, Genealogia dell'ingovernabile, in S. Vaccaro 
                  (a cura di), Agire altrimenti. Anarchismo e movimenti radicali 
                  nel XXI secolo, Elèuthera, Milano, 2014.
                  
  
                 
                 
                  Per una società libertaria e autogestita 
                   
                  di Luca Lapolla 
                   
                  Municipalismo libertario, comunalismo, unanimità, consenso, 
                  ecc. Una riflessione sulle modalità organizzative e decisionali. 
                   
                  Partendo da fatti di cronaca spesso mi viene chiesto – 
                  sia genuinamente che provocatoriamente – come reagirebbe 
                  una società anarchica. Per esempio, parlando con amici 
                  o parenti delle dilaganti manifestazioni di razzismo sociale 
                  e istituzionale si finisce a volte col discutere di nazionalismo 
                  e confini, e lì scatta la domanda: “Ma come farebbe 
                  uno stato (sic!) anarchico ad evitare di essere invaso da milioni 
                  di migranti?”. E così iniziano dibattiti che – 
                  a seconda del tipo di rapporto e del livello di alcol in corpo 
                  – possono trasformarsi in vere e proprie arringhe o furibonde 
                  litigate. 
				Comunità federate e il rischio di micro stati 
                Il riferimento allo “stato anarchico” dimostra 
                  quanto certe idee siano talmente radicate da impedire anche 
                  solo di contemplare un'alternativa. Eppure pensatori e militanti 
                  anarchici hanno prodotto sin dal diciannovesimo secolo innumerevoli 
                  esempi di società libertarie, sia nella teoria che nella 
                  pratica. Il modello più diffuso è quello della 
                  federazione di comunità o comuni, teorizzato già 
                  da pensatori come Bakunin, Kropotkin e Landauer, e rielaborato 
                  a partire dagli anni Cinquanta da Murray Bookchin col nome di 
                  municipalismo libertario all'interno di un più ampio 
                  progetto per adattare l'anarchismo alle sfide del mondo moderno.1 
                  Progetto che abbandonò negli ultimi anni di vita quando 
                  lasciò il movimento anarchico – ritenuto troppo 
                  individualista – per quello che definì “Comunalismo”. 
                   
                  Bookchin presentò il Comunalismo come “socialismo 
                  del ventunesimo secolo” basandosi su principi provenienti 
                  dalla tradizione dell'anarchismo, del marxismo e del sindacalismo 
                  rivoluzionario, e con una forte influenza ecologista.2 
                  In particolare, Bookchin si soffermò a lungo sulla dimensione 
                  politica del Comunalismo che chiamò “municipalismo 
                  libertario”. Questo ha al suo centro l'idea di federazioni 
                  di comunità basate sulla distinzione tra policy-making 
                  (essenzialmente il potere legislativo) ed administration 
                  (una sorta di gestione amministrativa), affidando il primo ad 
                  assemblee locali composte da cittadini e la seconda a consigli 
                  federali con rappresentanti nominati – e revocabili – 
                  dalle stesse assemblee. Consigli federali che, nella visione 
                  di Bookchin, dovrebbero evitare che singole comunità 
                  tradiscano il patto federativo.3 
                  Di certo un compito controverso che mi fa pensare alla repressione 
                  statale su piccola scala. Ma è davvero meglio tollerare 
                  – in nome di una presunta libertà – che una 
                  comunità confederata compia disastri ambientali o violi 
                  i diritti umani? 
				Consenso: dittatura della minoranza? 
                Altra questione spinosa è rappresentata dal processo 
                  decisionale all'interno di queste assemblee comunitarie. Oggigiorno 
                  il metodo più diffuso in organizzazioni e spazi di ispirazione 
                  libertaria è basato sul consenso perché ritenuto 
                  l'unico veramente democratico. Si tratta di un metodo che si 
                  è diffuso a partire dagli anni Settanta, quando gruppi 
                  femministi e quaccheri introdussero la pratica delle decisioni 
                  prese dopo aver ascoltato tutte le opinioni finché nessuno 
                  si dichiari apertamente contrario – diverso dunque dal 
                  voto all'unanimità.4 Anche 
                  nella comune pugliese di Urupia usano il metodo del consenso. 
                  Intervistando una comunarda nel 2014, lei ammise che il metodo 
                  “è complicato perché allunga i tempi, però” 
                  – aggiunse – “è importante perché 
                  dà spazio a tutti e a tutte di esprimersi [...] sping[e] 
                  ognuno ad ascoltare l'altro e magari a rivedere la propria posizione. 
                  [Così ci] si arricchisce tantissimo anche a livello individuale”. 
                  Tuttavia Bookchin smascherò la presunta democraticità 
                  di questo metodo esclamando: “Ne ho avuto abbastanza delle 
                  decisioni per consenso, in cui una minoranza ha il bizzarro 
                  diritto di bloccare le decisioni della maggioranza diventando 
                  così una tirannide che fa ostruzionismo mentre accusa 
                  assurdamente la maggioranza di essere tirannica”.5 
                  Difatti, quello che oggi il movimento libertario considera un 
                  tabù, prima era la norma. Ad esempio, in alcune interviste, 
                  dei libertari baresi mi hanno confermato che negli anni Settanta 
                  decidevano a maggioranza. Certamente entrambi i metodi presentano 
                  pro e contro, ma quanto è realistico pensare che centinaia 
                  di persone raggiungano il consenso su base quotidiana? 
				Verso la federazione di comunità autogestite 
                Alcuni di quegli anarchici baresi gestirono per anni un comitato 
                  di quartiere – in cui si votava a maggioranza – 
                  che riprodusse incosapevolmente la divisione suggerita da Bookchin 
                  tra un organo decisionale (l'assemblea aperta agli abitanti 
                  del quartiere) e uno esecutivo-amministrativo (l'assemblea degli 
                  attivisti).6 Molti centri sociali 
                  presentano tutt'oggi simili strutture confermando quindi la 
                  base pragmatica delle idee di Bookchin, anche se a volte scomode. 
                  Per questo meritano di essere riscoperte e dibattute, e magari 
                  sperimentate creando, ad esempio, una federazione di centri 
                  sociali autogestiti. Una rete che si faccia promotrice, col 
                  supporto del movimento anarchico e attraverso una pratica quotidiana, 
                  di un cambiamento della società in senso libertario. 
                  D'altra parte “non si può separare il processo 
                  rivoluzionario dall'obiettivo rivoluzionario. Una società 
                  fondata sull'autogestione deve essere raggiunta attraverso lo 
                  strumento dell'autogestione”.7 
                 Luca Lapolla 
                
				  
                  - Biehl, Janet. «Introduction». In The Murray 
                  Bookchin reader. London: Cassell, 1997.
                  
 - Bookchin, Murray. Social Ecology And Communalism. Oakland-Edinburgh: 
                  Ak Press, 2007.
                  
 - Bookchin, Murray. «Libertarian Municipalism: An Overview». 
                  Green perspectives, n. 24, 1991.
                  
 - Gordon, Uri. Anarchy alive! London, Ann Arbor: Pluto 
                  Press, 2008, pp. 36-70.
                  
 - Bookchin, Murray. «Thoughts on Libertarian Municipalism». 
                  Institute for Social Ecology, 26 agosto 1999.
                  
 - Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica. «Dibattito 
                  politico 1 - I Consigli di Quartiere».
                  
 - Bookchin, Murrray. «The forms of freedom». In 
                  Post-scarcity anarchism. Berkeley: Ramparts, 1971, p. 
                  167.
                
  
                 
                
                 
                  Quella transizione necessaria 
                   
                  di Giorgio Nebbia 
                   
                  Gli scritti di Bookchin mostrano che è possibile soddisfare 
                  le necessità di una popolazione umana crescente attraverso 
                  una tecnologia ecologica. 
                   
                  Murray Bookchin si avvicina all'ecologia nella seconda metà 
                  degli anni quaranta, poco più che ventenne, nell'ambito 
                  del movimento ispirato da Josef Weber. 
                  Nel 1948 William Vogt aveva pubblicato il libro: Road to 
                  survival, la prima analisi popolare dei rapporti fra popolazione, 
                  risorse, consumi e ambiente; pur non condividendo la tesi neo-malthusiana, 
                  che lo sfruttamento e l'impoverimento delle risorse naturali 
                  sia dovuto alla “eccessiva” popolazione del pianeta, 
                  Bookchin concorda con Vogt che il vero responsabile dei guasti 
                  del pianeta è il capitalismo. Il quale usa, a fini di 
                  profitto, le tecnologie più avanzate, i progressi nella 
                  produzione di concimi, i pesticidi, i nuovi materiali sintetici, 
                  il piombo tetraetile come additivo delle benzine, gli ormoni 
                  con cui è possibile far aumentare il contenuto in acqua 
                  e il peso degli animali e far guadagnare di più gli allevatori: 
                  tutte sostanze che, direttamente o indirettamente, passano poi 
                  nel corpo degli ignari consumatori. 
                  Un'appassionata denuncia delle violenze di tale tecnologia è 
                  presente già nel saggio: The problem of chemicals 
                  in food, del 1952, pubblicato con lo pseudonimo Lewis Herber 
                  che Bookchin userà in molte altre pubblicazioni. Alla 
                  critica della tecnologia al servizio del potere Bookchin era 
                  arrivato anche attraverso l'opera di Lewis Mumford, il cui libro 
                  Technics and civilization, del 1934, era molto popolare 
                  negli Stati Uniti. 
                  La consapevolezza ecologica di Bookchin cresce negli anni cinquanta 
                  del Novecento, segnati dalla contaminazione planetaria con i 
                  frammenti radioattivi sparsi nell'atmosfera da centinaia di 
                  esplosioni sperimentali di bombe atomiche, dalla diffusione 
                  dei rifiuti di materie plastiche e di detersivi persistenti, 
                  dagli effetti dei pesticidi sintetici sugli esseri viventi; 
                  l'avvelenamento non riguarda più soltanto gli alimenti 
                  ma l'intero ambiente un tema che Bookchin affronta nel libro 
                  Our synthetic environment del 1962, uscito pochi mesi 
                  prima della pubblicazione del libro di Rachel Carson, Primavera 
                  silenziosa. Bookchin denuncia gli effetti nocivi sugli esseri 
                  umani delle varie sostanze tossiche immesse nell'ambiente dalle 
                  attività militari e industriali e insiste nel riconoscere 
                  il modo capitalistico di produzione come vera causa di tale 
                  avvelenamento. 
                  La salvezza può essere ottenuta soltanto con una visione 
                  rivoluzionaria dell'ecologia, con una “ecologia umana”, 
                  e Bookchin è forse il primo a usare questo termine. Non 
                  è un rifiuto della tecnologia, ma una proposta di orientare 
                  la tecnologia e le innovazioni al servizio dell'uomo e non del 
                  profitto e dei soldi. Sull'onda della ricerca di una “tecnologia 
                  sociale”, proposta da Mumford, Bookchin parla di una Tecnologia 
                  liberatoria: è il titolo del libro del 1965. E la 
                  cerca proprio in tutti gli scritti successivi, nell'analisi 
                  della crisi urbana, in nuovi rapporti fra città e campagna, 
                  nelle nuove forme di agricoltura ispirate dall'inglese Albert 
                  Howard; non si tratta di rifiutare la tecnica: gli esseri umani 
                  hanno dei bisogni materiali che condizionano anche il diritto 
                  alla libertà e la dignità, e per soddisfare tali 
                  bisogni occorre produrre dei beni materiali dalla natura con 
                  la tecnica e il lavoro. 
                  Una visione originale e attualissima; da decenni, pur con alterne 
                  vicende, stiamo vivendo in un mondo che si sforza di aumentare 
                  la disponibilità di merci e macchine con un crescente 
                  sfruttamento delle risorse naturali. Le innovazioni tecniche 
                  consentono di avere crescenti e sempre nuovi oggetti, di moltiplicare 
                  i bisogni artificiali dei paesi opulenti, un modello che il 
                  libero mercato e la globalizzazione cercano di diffondere nei 
                  paesi emergenti e in quelli ex-comunisti. Ricchi e poveri schiavi 
                  di bisogni artificiali e complici nell'impoverimento e nell'inquinamento 
                  dei corpi inorganici e degli stessi viventi. Ne sono una riprova 
                  i mutamenti climatici dovuti all'aumento della concentrazione 
                  di alcuni gas nell'atmosfera, un fenomeno di cui parlava già 
                  mezzo secolo fa Bookchin. Più merci, più gas climalteranti, 
                  più siccità e desertificazione, più piogge 
                  improvvise che allagano la pianure e le città e fanno 
                  franare le valli e le colline in cui l'avidità e la speculazione 
                  private hanno ostruito le vie di scorrimento delle acque. 
                  Gli scritti di Bookchin mostrano che è possibile soddisfare 
                  le necessità di una popolazione umana crescente attraverso 
                  una tecnologia ecologica. Si tratta di riprogettare le città 
                  e i dintorni, di diffondere abitazioni e servizi nel territorio, 
                  di ripensare i mezzi di trasporto, di progettare le merci sotto 
                  i vincoli di un minore consumo di acqua, di energia, di materie 
                  prime. Di ripensare l'agricoltura, unica fonte del cibo, superando 
                  l'agricoltura industriale, facendo evolvere l'agricoltura contadina 
                  in una nuova agricoltura, una “terza agricoltura” 
                  come propone Pier Paolo Poggio, capace di produrre sufficiente 
                  cibo per tutti con minore alterazione della natura e delle sue 
                  risorse. 
                  Una transizione che richiede innovazioni e tecnologia. E che 
                  una tecnologia libertaria possa essere liberatoria è 
                  mostrato anche dal fatto che le opere di Bookchin oggi possono 
                  essere lette dovunque, anche a casa propria, grazie a Dana Ward, 
                  del Pitzer College di Claremont, California, fondatore degli 
                  Anarchy Archives telematici (www.dwardmac.pitzer.edu). 
                 Giorgio Nebbia 
                 
                 
                  Un pensatore sottovalutato 
                   
                  di Ermanno Castanò 
                   
                  Dopo una giovanile militanza trotzkista, era diventato anarchico. 
                  Fondatore della social ecology, è stato uno dei 
                  pensatori più originali. All'incrocio tra anarchismo, 
                  ecologia e comunitarismo. 
                   
                  Murray Bookchin non è mai stato un intellettuale accademico. 
                  E questo non ha certamente favorito l'accostamento del suo nome 
                  a quello dei pensatori più noti del panorama americano 
                  recente come Noam Chomsky, John Searle o Richard Rorty. È 
                  raro, infatti, trovarlo menzionato in studi filosofici di un 
                  certo rilievo; ma spesso si sorvola con troppa facilità 
                  e un pizzico di snobismo sulle problematiche che Bookchin ha 
                  sollevato in una vita di ricerca intellettuale e militanza politica. 
                  Ed è proprio sull'importanza di tale intreccio che le 
                  righe che seguono si soffermeranno. 
                  Michel Foucault, in un noto dibattito televisivo, accusò 
                  Noam Chomsky di separare nettamente la sua implacabile militanza 
                  dalla riflessione filosofica, come se le due appartenessero 
                  ad ambiti separati ed eterogenei fra loro. Al contrario i testi 
                  di Foucault si comprendono meglio se si guardano non solo come 
                  studi teorici innovativi, ma anche come attrezzi per scardinare 
                  certi rapporti di potere. 
                  Ecco, pure se Bookchin non ha mai espresso simpatie per Foucault 
                  (ne ha anzi criticato la visione della storia come casuale e 
                  imprevedibile preferendo una razionale progettualità 
                  politica), si potrebbe dire che il filosofo francese non avrebbe 
                  potuto muovergli l'accusa rivolta a Chomsky. Tutti i testi di 
                  Bookchin, infatti, sono nati all'interno di percorsi di lotta 
                  ed elaborazione teorica volti a trasformare lo stato di cose 
                  presente. Sin dall'inizio, quando il pensatore americano era 
                  un marxista vicino al movimento operaio e iniziava a far circolare 
                  i primi opuscoli sotto pseudonimo. 
                  Questa esperienza che lo portò ad avvicinarsi alla scuola 
                  di Francorte (che lasciò su di lui un'impronta durevole), 
                  produsse nel 1962 il primo testo bookchiniano di una certa importanza: 
                  Our Synthetic Environment. Il libro descrive un capitalismo 
                  capace ormai di manipolare completamente l'ambiente e di piegarlo 
                  ai propri interessi fino a generare una contraddizione profonda 
                  fra natura e umanità. Questo ambiente sintetico a disposizione 
                  dell'industria fa sì che tutta la natura venga ridotta 
                  a risorsa a uso della società consumistica. Ma la posizione 
                  di superiorità raggiunta in tal modo dall'uomo si rivela, 
                  a uno sguardo più attento, meno comoda di come possa 
                  apparire. Sottomettendo la natura a tale regime, l'uomo vi sottomette 
                  anche la propria, la quale diviene, per l'industria, semplice 
                  risorsa umana. Inoltre, a lungo andare, distruggendo le basi 
                  biologiche della vita, egli rischia addirittura di distruggere 
                  se stesso. 
                  La cosa più strabiliante di questo libro, che per primo 
                  ha inteso sollevare la questione ambientale nei movimenti sociali, 
                  è che riesce a conciliare un'intenzione pratica (radicale) 
                  e un pensiero chiaramente ispirato a filosofi del calibro di 
                  Adorno o Heidegger. 
                  Negli anni '70 esce una raccolta di brevi scritti e opuscoli 
                  intitolata Post-scarcity Anarchism che mette insieme 
                  l'impronta francofortese con un certo spirito situazionista. 
                  In questi testi Bookchin si distanzia nettamente dalle posizioni 
                  dei marxisti americani di allora per virare verso un utopismo 
                  libertario che non abbandonerà più. Il punto focale 
                  della polemica era la tecnologia di cui alcuni auspicavano la 
                  concentrazione nelle mani degli organismi rivoluzionari e altri 
                  invece la distruzione. Al di là di queste posizioni Bookchin 
                  sostenne l'esigenza di riconvertire la tecnologia (eolico, fotovoltaico, 
                  ecc.) in modo ecologico e locale e di usarla per gli scopi di 
                  una società libera ed egualitaria sottraendola sia allo 
                  sfruttamento capitalistico che alle gerarchie statali. 
                  Nello stesso periodo I limiti della città descrive 
                  l'orizzonte asfittico delle metropoli contenporanee che, a differenza 
                  delle poleis greche e delle città rinascimentali, 
                  hanno espulso dal proprio spazio urbano tanto la vita animale 
                  dell'oikos quanto quella politica dell'agorà 
                  e, oggi, non sono altro che lo spazio della produzione e del 
                  consumo alienati in cui oikos e agorà scompaiono 
                  e si confondono. 
                  Di lì a poco si inizieranno a diffondere in America e 
                  nel resto del mondo le idee dell'ecologia profonda e del neoprimitivismo 
                  con cui Bookchin non smetterà mai di polemizzare. 
				Il dominio e la libertà 
                Negli anni '90 l'elaborazione teorica si fa più 
                  rigorosa e ricca. Mentre Bookchin fonda l'Institute for Social 
                  Ecology, nel Vermont, escono libri come Filosofia dell'ecologia 
                  sociale, Democrazia diretta e L'ecologia della 
                  libertà. Quest'ultimo in particolare si presenta 
                  come un testo simile a Le origini del totalitarismo di 
                  Hannah Arendt e a Dialettica dell'illuminismo di Adorno 
                  e Horkheimer, di cui eredita il metodo storico filosofico. Caratterizzato 
                  da una grande erudizione e dalla vastità delle fonti, 
                  il libro propone una ricostruzione della storia del dominio 
                  sulla natura che discende sino agli albori dell'umanità 
                  quando l'uomo inizia a costruire la civiltà sottomettendo 
                  a sè le forze naturali (esteriori e interiori) per ritrovarsi, 
                  nel corso del suo sviluppo, sempre più asservito alle 
                  stesse tecniche che lo “liberano” dalla necessità. 
                  Il perchè di un tale esito sta nel fatto che, insieme 
                  alla crescita della civiltà, sta anche quella di una 
                  società di classe che fa del dominio sull'uomo il proprio 
                  orizzonte invalicabile. 
                  Il dominio non si limita al solo sfruttamento e sottomissione 
                  esteriori, ma è qualcosa di più profondo: è 
                  un modo di pensare (un'epistemologia) e un modo di concepire 
                  l'essere (un'ontologia) che fondano la pratica. 
                  L'ecologia della libertà propone, però, 
                  (caso quasi unico insieme, oggi, all'ultimo capitolo di Homo 
                  sacer di Giorgio Agamben) non solo la ricostruzione dell'emergenza 
                  del dominio, ma anche di quella delle forze che gli si oppongono 
                  e che hanno aperto strade diverse, per quanto frammentarie. 
                  Dalla polis antica alle società tribali, dai comuni 
                  medievali alle lotte contro le enclosures (che opponevano 
                  l'uso alla proprietà), dalle rivolte operaie e 
                  contadine ai movimenti ecologisti, la libertà ha provato 
                  a percorrere strade inedite e, quando è stata radicale, 
                  a elaborare una propria epistemologia e una propria ontologia. 
                  E anche se queste hanno spesso perduto, i loro frammenti giacciono 
                  per essere raccolti e usati ancora contro il dominio. 
                  Il dominio e la libertà nascono insieme e si fronteggiano 
                  lungo tutte le varie diramazioni della storia che altro non 
                  è che il risultato di queste lotte, delle vittorie, delle 
                  sconfitte, delle memorie e delle rimozioni. Per questo non esiste 
                  una posizione neutrale per gli intellettuali, poiché 
                  tale lotta ha anche una valenza culturale. O di qua o di là: 
                  l'intellettuale deve scegliere, in fondo, da che parte stare. 
                  Oggi, secondo Bookchin, è la volta delle lotte ecologiste 
                  perché è sulla faglia fra il potere e la vita 
                  che si gioca il presente. La vita intera è esposta al 
                  pericolo della distruzione a causa delle devastazioni sociali 
                  e ambientali dello sfruttamento capitalistico. Ma qui i suoi 
                  oppositori devono fare attenzione: così come l'ontologia 
                  di fondo che vede la natura (i corpi) come inferiore e sottoposta 
                  alla ragione non è nata col capitalismo, ma molto tempo 
                  prima, allo stesso modo essa potrebbe sopravvivergli e rimodularsi 
                  in nuove forme, proprio come è successo nel cosiddetto 
                  socialismo reale. Gli attuali movimenti ecologisti, se vorranno 
                  essere veramente radicali e inaugurare una nuova forma di vita, 
                  dovranno essere capaci di destituire tale ontologia economica 
                  dalle radici lontane e di revocare la stessa divisione fra una 
                  vita razionale che comanda e una vita corporea che, per accedere 
                  alla civiltà, deve essere dominata. 
                  L'irripetibile occasione che, secondo Bookchin, caratterizza 
                  la società odierna sta nel fatto che proprio laddove 
                  più cresce il pericolo della crisi ecologica, cresce 
                  pure la scienza (l'ecologia) capace di rovesciare tale situazione 
                  e favorire una società in cui la politica (l'autogestione 
                  della comunità per mezzo di assemblee) si sovrapponga 
                  alla vita naturale (l'animalità e la natura) senza residui. 
                  Negli ultimi anni Bookchin si è dedicato a potenziare 
                  i mezzi di questa controstoria raccogliendo in grandi volumi 
                  la storia delle rivoluzioni del Novecento, in particolare della 
                  rivoluzione spagnola del '36. 
				I tanti volti dell'ecologismo 
                Qual è allora l'importanza di Murray Bookchin e perché 
                  sarebbe un pensatore sottovalutato? La risposta non può 
                  che essere molteplice. Come abbiamo visto egli ha portanto avanti 
                  una ricerca che non ha avuto solo una valenza teoretica, ma 
                  anche politica e sociale. Ma non basta. A partire da autori 
                  come, fra gli altri, Arendt o Marcuse egli ha studiato le connessioni 
                  fra il potere e la vita con esiti prossimi alla biopolitica 
                  di Foucault, ha usato un metodo archeologico che tiene assieme 
                  l'aspetto ideale e quello materiale, ha poi sviluppato tali 
                  elementi in una direzione paragonabile a quella attualmente 
                  percorsa da Agamben: dal governo dei viventi all'origine teologica 
                  dell'economia, dal dispositivo della crisi alla forma di vita. 
                  La sua visione utopica di una società ecologica è 
                  un punto d'incontro fra la critica del capitalismo di Marx e 
                  la critica dello stato di Kropotkin e Fourier, in cui la vita 
                  non è più separata e amministrata dagli apparati 
                  di governo, ma ha riguadagnato la propria valenza politica, 
                  comunitaria e armonica con la natura. Una visione che si è 
                  disseminata nei più svariati movimenti ambientalisti: 
                  da Occupy Wall Street ai No Tav, dai centri sociali alle lotte 
                  contro il fracking (fratturazione idraulica, tecnica 
                  utilizzata per estrarre il gas naturale – n.d.r.). 
                  Ma forse il caso più eclatante fra tutti questi è 
                  stato il fatto che le idee di Bookchin sono state riprese nel 
                  2012 dai rivoluzionari dei cantoni curdi del Rojava (in Siria) 
                  che stanno provando a costruire un confederalismo democratico 
                  che si ispira direttamente al suo municipalismo libertario. 
                  Laddove lo stato siriano è imploso in una guerra civile 
                  alimentata dalla volontà capitalistica di saccheggio 
                  delle risorse, i rivoluzionari sono riusciti a mettere in piedi 
                  un paradigma di società alternativo tanto al fascismo 
                  integralista dell'Isis quanto al capitalismo liberale. Le comuni 
                  dei cantoni del Rojava (quella più famosa è Kobane) 
                  hanno, infatti, abolito la società di classe, il patriarcato, 
                  lo sfruttamento della natura e l'organizzazione statale per 
                  autogestire le comunità in modo assembleare e antiautoritario, 
                  interetnico ed ecologista (fino al punto di rifiutarsi di estrarre 
                  il petrolio) tentando di garantire pace e benessere alle popolazioni 
                  dell'area nel pieno rispetto della natura. 
                  Insomma, il nuovo millennio non si è aperto sotto i migliori 
                  auspici e col tempo la situazione sembra peggiorare. Se il secolo 
                  sarà deleuziano, foucaultiano o altro, non lo sappiamo. 
                  Sta di fatto che certamente sarà anche un po' bookchiniano: 
                  poiché se l'oligarchia capitalistica distruggerà 
                  il mondo a forza di sfruttarlo o se al contrario l'umanità 
                  riuscirà a costruire una società ecologica e libertaria, 
                  in ogni caso Bookchin ve l'aveva detto. 
                 Ermanno Castanò 
                
                 
                 
                  Tecnologia e decentramento 
                   
                  di Murray Bookchin 
                   
                  Si intitola così un capitolo del volume 
                  Per una società ecologica edito da Elèuthera. 
                  Lo riproduciamo al termine di questo dossier, evidenziando ancora 
                  una volta la ricca problematicità della visione bookchiniana, 
                  tesa sempre a unire la riflessione teorica con la possibile 
                  soluzione dei mille problemi della società attuale. 
                   
                  A questa esigenza di creare un movimento municipalista libertario 
                  l'ecologia sociale ha portato una dimensione originale e nel 
                  contempo imperativa. La necessità di ridimensionare le 
                  comunità umane in modo da adeguarle alle risorse naturali 
                  del territorio in cui si trovano e di instaurare un nuovo equilibrio 
                  tra città e campagna (temi tradizionali del pensiero 
                  utopico e anarchico del diciannovesimo secolo) è diventata 
                  oggi ecologicamente imprescindibile. Non rappresenta soltanto 
                  il perdurare dell'utopismo di ieri o i sogni e i desideri di 
                  alcuni pensatori solitari, bensì è diventata la 
                  condizione necessaria perché la specie umana possa continuare 
                  a esistere, in armonia con un mondo naturale complesso e minacciato 
                  di distruzione. In effetti l'ecologia ha posto nettamente questa 
                  alternativa: o ci volgiamo alle soluzioni, solo apparentemente 
                  utopiche, basate sul decentramento, su un nuovo equilibrio con 
                  la natura e sull'instaurazione di rapporti armonici nella società, 
                  o dovremo affrontare Io sconvolgimento delle basi materiali 
                  e naturali della vita umana su questo pianeta. 
                  L'urbanizzazione minaccia anche la campagna, non solo la città. 
                  Il famoso contrasto tra città e campagna che tanto rilievo 
                  ha avuto nella storia del pensiero sociale, è oggi del 
                  tutto privo di senso, superato dall'invasione del cemento anche 
                  in aree a vocazione agricola e in comunità rurali di 
                  grande valore storico. L'omogeneizzazione delle culture rurali 
                  a opera dei mezzi di comunicazione di massa, del diffondersi 
                  dei modelli esistenziali urbani e di una pervasiva mentalità 
                  consumistica minaccia non solo di distruggere modi di vivere 
                  peculiari con una lunga tradizione storica, ma di devastare 
                  completamente il panorama naturale. Ciò che l'agribusiness 
                  non ha ancora avvelenato con i suoi pesticidi e fertilizzanti 
                  o impoverito con i suoi macchinari che compattano il suolo, 
                  viene distrutto dalle piogge acide, dall'alterazione climatica 
                  di origine sociale, dal disboscamento e dalla crescente aridità. 
                  L'urbanizzazione del pianeta, eliminando strati di suolo che 
                  hanno richiesto millenni per formarsi, riducendo a una finzione 
                  la vita selvaggia e alterando in senso peggiorativo, anche se 
                  a volte indirettamente, il clima di interi territori, comporta 
                  infatti una drammatica semplificazione dei complessi ecosistemi 
                  esistenti. 
                  La tecnologia ereditata dalle precedenti rivoluzioni industriali, 
                  l'uso insensato di veicoli a motore individuali, la concentrazione 
                  di strutture industriali gigantesche vicino ai corsi d'acqua, 
                  il continuo ricorso a combustibili fossili e nucleari e un sistema 
                  economico che ha per unica legge la crescita, tutto ciò 
                  non mancherà di produrre in pochi decenni un degrado 
                  ambientale mai visto prima. Quasi tutti i nostri corsi d'acqua 
                  sono stati trasformati in fogne, e persino negli oceani sono 
                  state scoperte «zone morte» che si estendono per 
                  centinaia di miglia. Non è il caso di insistere con questa 
                  fosca litania delle continue e forse mortali ferite inflitte 
                  ovunque al nostro pianeta, anche perché i danni perpetrati 
                  nell'atmosfera allo strato protettivo di ozono sono risaputi, 
                  al pari di quelli che colpiscono le aree più remote del 
                  globo, come l'Artico e l'Antartide, o le antiche foreste tanto 
                  delle zone temperate quanto di quelle equatoriali. 
				Congestione, rumore, stress 
                Al di là della nostra esigenza di vivere una vita pienamente 
                  umana in base alla visione libertaria che ci muove, è 
                  la stessa sopravvivenza umana che ci impone di rivedere il processo 
                  di urbanizzazione in atto, la relazione tra le città 
                  e il loro substrato ecologico, il rapporto tra la tecnologia 
                  e i beni che produce, e in definitiva la nostra stessa concezione 
                  di natura. Per realizzare le nostre concezioni libertarie, ma 
                  anche per garantire le esigenze più elementari di un'esistenza 
                  che sia in qualche modo in equilibrio con la natura, abbiamo 
                  bisogno di città più piccole. I giganteschi agglomerati 
                  urbani generano omogeneità culturale, anonimato individuale 
                  e potere centralizzato, e inoltre danneggiano insostenibilmente 
                  le risorse idriche, l'aria che respiriamo e tutte le caratteristiche 
                  naturali delle aree che occupano. Congestione, rumore e stress 
                  (tipico prodotto dalla vita urbana di oggi) stanno diventando 
                  sempre più intollerabili, a livello psichico oltre che 
                  fisico. Le città che un tempo riunivano sotto l'egida 
                  di una medesima solidarietà comunitaria individui di 
                  varia provenienza, oggi atomizzano i propri abitanti. La città 
                  contemporanea è un luogo nel quale nascondersi, non l'occasione 
                  per ricercare la vicinanza degli altri esseri umani. La paura 
                  tende a sostituirsi alla socialità, la scortesia inghiotte 
                  la solidarietà, l'ammassarsi della gente in edifici, 
                  mezzi di trasporto, uffici e ipermercati, sovverte il senso 
                  dell'individualità e porta all'indifferenza verso la 
                  condizione umana. 
                  Il decentramento delle grandi città in comunità 
                  a misura umana non è dunque il sogno romantico di un 
                  solitario amante della natura, né un remoto ideale anarchico. 
                  È invece un obiettivo indispensabile per una società 
                  ecologicamente stabile. Bisogna scegliere tra un ambiente in 
                  rapido degrado, che finirà per compromettere l'integrità 
                  e la complessità delle forme di vita del pianeta, e una 
                  società capace di vivere in equilibrio con la natura. 
                  Lo stesso può dirsi dell'esigenza di riconsiderare la 
                  base tecnologica della società attuale. La produzione 
                  non può più essere vista come una fonte di profitto 
                  o il conseguimento di interessi personali. I beni di cui gli 
                  esseri umani necessitano per la propria sopravvivenza, oltre 
                  che per il proprio benessere fisico e culturale, sono ben più 
                  importanti dei feticci mistificati con cui ci abbagliano le 
                  varie religioni e i tanti culti superstiziosi. Il pane è 
                  più «sacro» di una benedizione sacerdotale; 
                  i vestiti di tutti i giorni sono più «sacri» 
                  dei paramenti ecclesiastici; il luogo in cui si abita ha un 
                  significato spirituale più denso di qualsiasi chiesa 
                  o tempio; vivere bene su questa terra è più santificante 
                  che andare in paradiso. I mezzi di sussistenza devono essere 
                  considerati per quello che sono realmente: strumenti senza i 
                  quali la vita è impossibile. Negarli al popolo è 
                  più che un furto, per usare l'espressione di Proudhon, 
                  un omicidio. Nessuno ha il diritto - moralmente, socialmente 
                  o ecologicamente - di possedere beni dai quali dipende la vita 
                  altrui, né di imporre alla società tecnologie 
                  che danneggino la salute di altri esseri umani o del pianeta. 
                  Ed è qui che l'ecologia si compenetra con la società 
                  per diventare ecologia sociale, sottolineando la stretta interdipendenza 
                  tra problemi sociali ed ecologici. La tecnologia, che dovrebbe 
                  essere usata per sostenere la vita umana e planetaria e che 
                  invece oggi mette in pericolo entrambe, costituisce uno dei 
                  più importanti punti di contatto tra valori sociali e 
                  valori ecologici. In un'epoca di degrado ecologico galoppante 
                  e diffuso, non è più accettabile mantenere tecniche 
                  che danneggiano spudoratamente gli esseri umani e il pianeta 
                  tutto. 
                  Una delle maggiori tragedie della nostra epoca è che 
                  la tecnica non è più considerata da un punto di 
                  vista etico. Nel pensiero greco, produrre oggetti di qualità 
                  e di fattura artistica era un impegno morale che instaurava 
                  una speciale relazione tra l'artigiano e l'oggetto prodotto. 
                  Per molti popoli tribali, la manifattura di un oggetto corrispondeva 
                  alla messa in atto delle potenzialità insite nel materiale 
                  grezzo, dando così alla pietra, al marmo, al bronzo, 
                  una «voce» attraverso cui venivano espresse le latenti 
                  capacità estetiche della materia prima. 
				Egoismo illimitato 
                Il capitalismo ha completamente eliminato questo modo di pensare. 
                  Ha separato il produttore dal consumatore, cancellando ogni 
                  senso di responsabilità etica del primo nei confronti 
                  del secondo e mettendo da parte ogni altro tipo di considerazione 
                  morale. L'unica dimensione morale ammessa nella produzione capitalista 
                  è la presenza della cosiddetta «mano invisibile» 
                  del mercato, la quale guida l'interesse individuale in modo 
                  che la produzione a scopo di profitto finisca per generare il 
                  «bene comune». Ma anche tale miserabile giustificazione 
                  è del tutto scomparsa oggi. Un egoismo illimitato, altro 
                  esempio della presenza di un'etica del male, ha sostituito ogni 
                  rispetto per il bene pubblico. Sebbene possa apparire facile 
                  dare alla tecnologia colpe che vanno invece addebitate agli 
                  interessi delle élite dominanti, bisogna comunque ammettere 
                  che sotto il capitalismo anche la tecnica, liberata da ogni 
                  limitazione di tipo morale, può diventare demoniaca. 
                  Una centrale nucleare, ad esempio, è un male in sé, 
                  non ha alcuna giustificazione per la sua esistenza. E nessuno 
                  può più dubitare che la proliferazione di impianti 
                  nucleari - e quanto più ce ne sono, tanto più 
                  la probabilità di incidenti come quello di ernobyl' aumenta 
                  - può a un certo punto trasformare l'intero pianeta in 
                  una colossale bomba nucleare. 
                  Oltretutto, la dislocazione di quelle che erano le lavorazioni 
                  industriali convenzionali ha ulteriormente aggravato il degrado 
                  ecologico. L'agribusiness, che un tempo era un'attività 
                  marginale rispetto alle aziende agricole di tipo familiare, 
                  si è talmente diffuso negli ultimi tempi da provocare 
                  seri problemi globali legati all'uso di pesticidi e fertilizzanti 
                  sintetici. La continua emissione di fumi industriali e l'uso 
                  sconsiderato delle automobili private stanno modificando l'intero 
                  equilibrio ecologico naturale, in particolare quello dell'atmosfera. 
                  Basta un rapido esame dell'attuale panorama tecnologico per 
                  rendersi conto di quanto sia acuta la necessità di una 
                  sua ristrutturazione. Interessi non solo ecologici ma di pura 
                  sopravvivenza umana impongono il ricorso a tecnologie compatibili 
                  che rendano il nostro rapporto con la natura creativo e non 
                  distruttivo. 
                  Mi sia concesso ripetere ancora una volta che tale cambiamento 
                  non può prodursi senza che avvenga una concomitante mutazione 
                  nei rapporti umani, a partire dall'individuazione di un interesse 
                  generale che superi gli interessi particolari legati alla gerarchia, 
                  alla classe, al genere, all'etnia e alla nazione. I presupposti 
                  per un rapporto armonico con la natura sono di tipo sociale, 
                  ovvero implicano l'instaurazione di rapporti armonici tra gli 
                  esseri umani. Il che postula l'abolizione non solo della gerarchia 
                  in tutte le sue forme (anche psicologiche e culturali, oltre 
                  che sociali), ma anche delle classi, della proprietà 
                  privata e dello Stato. 
                  Il passaggio da «qui» a «là» 
                  non avverrà certo grazie a un'improvvisa esplosione, 
                  ma implicherà una lunga preparazione intellettuale ed 
                  etica. C'è bisogno di un percorso di apprendimento approfondito 
                  se sono gli individui a dover cambiare la propria esistenza, 
                  in prima persona, senza più affidarsi a élite 
                  autonominatesi che tendono inevitabilmente a trasformarsi in 
                  oligarchie. La sensibilità, l'etica, il modo di vedere 
                  la realtà, il senso di sé devono cambiare attraverso 
                  modalità educative, argomentazioni razionali, sperimentazioni 
                  che mettono in conto la possibilità di imparare dai propri 
                  errori: solo questo consentirà all'umanità di 
                  raggiungere la coscienza necessaria per la propria autogestione. 
				È necessario creare na nuova politica 
                I movimenti radicali non possono più accontentarsi irriflessivamente 
                  di un'azione che è ormai fine a se stessa. Mai come oggi 
                  c'è bisogno di approfondimento teorico e di studio, proprio 
                  perché l'incultura politica ha raggiunto proporzioni 
                  spaventose e l'azione è ormai stata trasformata in un 
                  feticcio. Abbiamo anche bisogno di capacità organizzative, 
                  non di quel caos nichilista dove ogni tipo di struttura è 
                  liquidata come «elitaria» e «centralistica». 
                  La tenacia, il duro lavoro quotidiano necessario alla costruzione 
                  di un movimento, servono assai più che i gesti teatrali 
                  di certe primedonne, che aspirano a «morire» sulle 
                  barricate di una remotissima rivoluzione, ma che si reputano 
                  troppo duri e puri per dedicarsi al banale tran-tran di diffondere, 
                  le idee e tenere in piedi una rete organizzativa. 
                  Passare da «qui» a «là» è 
                  un processo, non un'azione esemplare. E sarà sempre segnato 
                  da incertezze, fallimenti, deviazioni e dispute prima di trovare 
                  la sua direzione. Né è detto che lo spazio di 
                  una vita sia sufficiente perché si verifichi una mutazione 
                  radicale. I rivoluzionari di oggi devono trarre la propria ispirazione 
                  dai grandi idealisti del passato, in particolare della storia 
                  francese o russa, che pur sapendo di avere poche probabilità 
                  di assistere ai sommovimenti da loro auspicati, si sono comunque 
                  adoperati con tutto il loro impegno e convincimento per farli 
                  accadere. La volontà rivoluzionaria infatti non è 
                  solo un impegno per cambiare il mondo: è anche un imperativo 
                  interiore a salvaguardare la propria identità dalla corruzione 
                  di una società che degrada la personalità umana 
                  con la promessa di denaro e status in un mondo totalmente privo 
                  di senso. 
                  È necessario creare una nuova politica che sappia sfuggire 
                  alle trappole del parlamentarismo e alle subdole gratificazioni 
                  offerte dai media. Movimenti come i Verdi tedeschi sono già 
                  saturi di vedettes che inseguono il successo personale, distruggendo 
                  l'integrità, l'etica e lo slancio dei loro tempi eroici. 
                  Questi nuovi programmi politici devono essere elaborati a partire 
                  dall'effettiva situazione ambientale in cui le persone vivono: 
                  la struttura abitativa, i problemi del quartiere, l'accessibilità 
                  ai trasporti, il tasso di inquinamento, le condizioni sul luogo 
                  di lavoro. Il potere deve essere continuamente restituito ai 
                  quartieri e alle municipalità, sotto forma di centri 
                  comunitari, cooperative, agenzie per l'occupazione e soprattutto 
                  assemblee cittadine. 
                  Il successo non è da misurarsi in funzione del favore 
                  immediato che un movimento di questo tipo riesce a ottenere. 
                  Inizialmente solo un numero relativamente ridotto di persone 
                  lavorerà con un simile movimento, e pochi parteciperanno 
                  alle assemblee di quartiere e alle confederazioni municipali, 
                  eccetto forse quando si affrontano temi di particolare rilevanza 
                  pubblica. Le vecchie idee e i metodi interiorizzati nella vita 
                  di tutti i giorni sono lenti a morire, e i nuovi sono lenti 
                  a crescere. Può accadere che gruppi di iniziativa civica 
                  animati da grande fervore compaiano all'improvviso quando una 
                  comunità si trova ad affrontare problemi come l'installazione 
                  di una centrale nucleare o la scoperta di una discarica di materiale 
                  tossico. Ma un movimento municipalista a orientamento ecologico 
                  non deve mai illudersi che tali iniziative di massa siano necessariamente 
                  destinate a durare: possono infatti svanire altrettanto rapidamente 
                  di come sono comparse. L'unica speranza è che contribuiscano 
                  comunque a sedimentare una tradizione cui far riferimento in 
                  futuro e che l'attività educativa così svolta 
                  resti patrimonio della comunità. 
				Esplicitare i propri ideali 
                Contemporaneamente, i membri più impegnati di un tale 
                  movimento devono anche essere in grado di offrire una visione 
                  di ciò che la società potrebbe diventare in futuro. 
                  Ovvero devono non solo saper guardare lontano, in modo che altri 
                  siano spinti a realizzare quegli obiettivi, ma essere anche 
                  capaci di fornire soluzioni storicamente valide oltre che pratiche. 
                  È sempre la società a dettare le regole del gioco, 
                  alle quali anche i ribelli meglio intenzionati devono attenersi. 
                  Se non lo si tiene sempre ben presente, è più 
                  facile cadere in compromessi moralmente debilitanti, basati 
                  su una ricerca del male minore che conduce invece al male peggiore. 
                  Nessun movimento rivoluzionario può perdere di vista 
                  la sua visione ultima di una società ecologica, se non 
                  vuole perdere, un pezzetto alla volta, tutti gli elementi della 
                  sua stessa identità. 
                  Una tale impostazione deve essere espressa in modo chiaro e 
                  inequivocabile in modo da non poter mai essere oggetto di compromessi. 
                  La fumosità della visione ultima di socialisti e marxisti 
                  ha apportato danni irreparabili permettendo che gli obiettivi 
                  finali di quella visione potessero essere piegati alle esigenze 
                  di una politica «pragmatica», fino alla rinuncia 
                  della stessa ragion d'essere di quei movimenti. Viceversa, ogni 
                  movimento deve chiaramente esplicitate i propri ideali, in modo 
                  che essi possano entrare a far parte di un nuovo immaginario 
                  politico e non si riducano a mere dichiarazioni programmatiche. 
                  Un approccio di questo tipo è stato attuato in passato, 
                  con discreto successo, da un gruppo come People's Architecture, 
                  che si è preso la briga di ripianificare interi quartieri 
                  di Berkeley, in California, dimostrando praticamente come potevano 
                  essere resi più abitabili, comunitari ed esteticamente 
                  attraenti. 
                  
                 Murray Bookchin 
                  
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