|  
 
 
 
 “Le tre cose importanti che ho fatto nella mia vita”Ricordo di Bruno Pianta
 
 Fra due telefonate Questo mestiere ha degli angoli bellissimi, benché poi 
                  la vita si riprenda tutto, a volte rubando sul tempo in maniera 
                  infame.Qualche mese fa, in un'ora che per me nottambulo per professione 
                  era assolutamente troppo mattiniera, vengo risucchiato via dal 
                  sonno da un imperioso squillo del telefono cellulare. Scivolo 
                  giù dal letto con cautela per non disturbare Chiara che 
                  lo divide con me, e me ne vado in mutande in bagno sperando 
                  che non sia una cosa lunga.
 «Sono Bruno Pianta» mi dice sgranchendosi la voce 
                  dall'altra parte «mi hanno passato il tuo numero, perché 
                  del collettivo di artisti che si occupa del Bella Ciao [“Bella 
                  Ciao” è uno storico spettacolo di musica popolare 
                  che abbiamo riallestito a cinquant'anni dall'originale e che 
                  con Riccardo Tesi, Lucilla Galeazzi, Elena Ledda, Ginevra di 
                  Marco, portiamo in giro con una certa continuità, nda] 
                  mi hanno detto che sei quello più addentro alle questioni 
                  storico-teoriche».
 Bruno Pianta? Penso io... quel Bruno Pianta? E mi rendo 
                  improvvisamente conto di due cose, che fa veramente troppo freddo 
                  lì in bagno e che sto parlando con uno dei pionieri della 
                  ricerca popolare, per dirne una quello che ha registrato i canti 
                  dei minatori della Val Trompia, una delle esperienze di ascolto 
                  più formative che possa capitare di fare sulla strada 
                  della musica popolare. Sempre quello stesso Bruno Pianta che, 
                  con Sandra Mantovani, suonava e cantava negli anni settanta 
                  nell'Almanacco Popolare, storica formazione creata su impulso 
                  di Roberto Leydi, dopo la rottura mai più risanata con 
                  l'Istituto de Martino di Gianni Bosio.
 «Caro Bruno, tu non puoi nemmeno immaginare che piacere 
                  sia conoscerti, ma se permetti ti richiamo fra cinque minuti...», 
                  «Guarda» mi risponde una voce che continua a schiarirsi 
                  con dei colpetti, come fanno quasi meccanicamente i cantanti 
                  sempre terrorizzati dal catarro «sono fuori al freddo 
                  anch'io perché vivo in piena Maremma e in casa il telefono 
                  prende poco, ma faccio in frettissima...».
 Questo è stato l'esordio della prima fluviale chiacchierata 
                  di un paio d'ore che ha fatto rischiare a entrambi la polmonite, 
                  ma c'era da subito troppo da dirsi. Poi abbiamo parlato ancora 
                  per telefono, ci siamo scritti regolarmente, finalmente ci siamo 
                  visti a casa sua, ho avuto modo di leggere quei suoi saggi che 
                  non conoscevo e approfondire gli infiniti collegamenti della 
                  mente di un vero maestro. Bruno ha avuto, in questo breve lasso, 
                  il tempo di assistere a un paio di miei concerti, l'ultimo il 
                  18 agosto con tutto il gruppo di Bella Ciao, e poi ci siamo 
                  salutati la mattina del 19.
 Ero trafelato in bicicletta il 6 settembre, quando m'ha telefonato 
                  Stefano Arrighetti del de Martino: «sai ch'è morto 
                  Bruno Pianta, un incidente di pesca pare». La morte è 
                  sempre la scudisciata di ghiaccio che s'abbatte sulla nostra 
                  schiena, ma mai forse come questa volta ho sentito spezzarsi 
                  un discorso aperto. In così poco tempo questo burbero 
                  signore, che si divideva fra certezze assolute di aver capito 
                  tutto e l'esitazione di chi ha la testa che corre un po' più 
                  avanti della parola, era entrato nel mio cuore.
 
                   
                    |  |   
                    | Bruno Pianta con una pionieristica ghironda |  
 Il percorso di un maestro Bruno Pianta era un pioniere, un intellettuale e un musicista. 
                  È morto per una tragica caduta sugli scogli mentre pescava, 
                  sette giorni prima di compiere 73 anni. Aveva dedicato la vita 
                  all'etnologia, allo studio e alla valorizzazione delle tradizioni 
                  italiane e della cultura orale.Come molti studiosi della sua generazione aveva cominciato per 
                  caso: appassionato sin dall'adolescenza alle canzoni e alla 
                  cultura di quella che allora si chiamava “Altra America” 
                  quella delle canzoni degli “Hobo” e dei “Bluesman”, 
                  aveva avvicinato il “Guru” Roberto Leydi perché 
                  voleva fare il “folk singer”. Questi, col suo carisma 
                  contagioso, lo aveva proiettato nell'orbita del Nuovo Canzoniere 
                  Italiano che cominciava in quegli anni la propria attività. 
                  Bruno era allora un ragazzino di buone maniere e dalla faccia 
                  pulita, e soprattutto era astemio - cosa che crea sempre una 
                  certa diffidenza in un ambiente di gente che ama alzare il gomito 
                  - ascoltava le storie e le teorie degli intellettuali impegnati, 
                  conviveva con il poeta e cantore urbano Ivan Della Mea e col 
                  ricercatore Franco Coggiola, prendendo parte ai furiosi litigi 
                  che agitano da sempre la sinistra italiana. Ma un po' si sentiva 
                  tagliato fuori, per quello strano indistricabile impasto di 
                  timidezza e orgoglio, supponenza e sensibilità che hanno 
                  gli introspettivi e perché un po' era davvero diverso: 
                  antiaccademico, poco propizio ai movimenti di massa, diffidente 
                  delle teorie date per scontate, profondamente individualista.
 Bruno professionalmente si divise fra il “Servizio Cultura 
                  del Mondo Popolare” della Regione Lombardia (attuale AESS) 
                  producendo un catalogo di libri, registrazioni audio e documentari 
                  video senza pari, con ricerche diventate leggendarie come il 
                  Carnevale di Bagolino, i Suonatori delle quattro province, la 
                  Famiglia Bregoli di Pezzaze, gli Scarpinanti, ecc., e la militanza 
                  musicale in prima persona con l'Almanacco Popolare. Intellettuale 
                  finissimo, come scrittore aveva il dono del collegamento fra 
                  i molti mondi che frequentava: musica, lirica popolare, letteratura, 
                  storia, sociologia. I suoi saggi sul mondo della “Leggera”, 
                  le sue intuizioni sulla crisi che sospende fra campagna e città, 
                  la marginalità picaresca dei cantastorie, degli imbonitori 
                  di fiera, dei minatori, è uno snodo cruciale della cultura 
                  moderna e situa il suo pensiero fra quello di Piero Camporesi 
                  e di Danilo Montaldi.
 Io, per quel poco che ho avuto la fortuna di frequentarlo, ho 
                  conosciuto qualcuno di polemico e bonario, ironico e autoironico, 
                  un pozzo di scienza al servizio di una fede nell'umanità, 
                  che con l'umanità intera litigava spesso. Nella campagna 
                  maremmana che era diventata la sua seconda terra (lui di famiglia 
                  apolide, ebrea, tedesca, veneta, milanese) si divideva fra le 
                  ricerche di una vita e la maledetta passione per caccia e pesca, 
                  sempre alla ricerca di “miti” contadini da incarnare.
 Ho registrato qualcuna delle sue parole, e ve le trascrivo qui 
                  di seguito - credetemi, già solo riaprire quella registrazione 
                  dopo la sua scomparsa... è stata la trascrizione più 
                  faticosa della mia vita - ma l'impressione che mi resta e che 
                  su quegli scogli si sia schiantato qualcosa di irrecuperabile, 
                  una biblioteca umana, una raccolta di civiltà e intelligenza 
                  proletaria, un mondo sempre più perduto.
 
                   
                    |  |   
                    | Paolo Ciarchi, Jo Garceau, Bruno Pianta a metà degli anni '60 |  
 Intervista sui Minatori di Pezzaze (Brescia) Alessio: Vorrei che mi raccontassi, fra le tue tante 
                  esperienze di ricerca, quella che a me impressiona di più: 
                  i minatori di Pezzaze, ovvero la Famiglia Bregoli. Per ogni 
                  ricercatore c'è sempre una crosta di diffidenza da rompere: 
                  entri dentro esperienze di vita molto dure, con un registratore 
                  in mano...Bruno: Io ho fatto tre cose importanti in vita mia e a tutte 
                  sono stato molto vicino con la vita. I Minatori, i Dritti (gli 
                  imbonitori) ed Ernesto Sala il pifferaio. Con i Dritti - che 
                  forse erano i più indecifrabili e gelosi del loro mondo 
                  - ho avuto modo di parlarci, di bazzicare, di farmi spiegare. 
                  Con Ernesto sono addirittura diventato uno della famiglia, tanto 
                  che lui, quando io mi separai da mia moglie, mi fece la ramanzina 
                  e mi mise il muso: “non si fanno queste cose”. Insomma 
                  non c'è ricerca senza scambio emotivo, senza stabilire 
                  una relazione culturale che non può essere tutta a favore 
                  del ricercatore, se no è un furto, non una ricerca. Tu 
                  mi fai entrare nel tuo mondo e io nel mio, se no non funziona.
 
 Però anche questa non è una tecnica: non 
                  ci si cala dall'alto a caso nelle famiglie... in quelle di minatori 
                  della Val Trompia poi!
 Stiamo parlando dei primissimi anni settanta. Roberto Leydi 
                  per la Discoteca di Stato aveva avuto l'incarico di fare una 
                  serie di ricerche sulle zone etnologicamente più sconosciute 
                  della Lombardia, una di queste era il bresciano. Mi dice «ti 
                  va bene la Val Trompia?» e io dico «bene, andiamo 
                  in Val Trompia», avevo solo una vaga percezione che, fra 
                  le altre cose, fosse stata anche zona di miniere, non sapevo 
                  proprio in quale direzione impostare la ricerca. Son partito 
                  da un paese in alto, Collio, e lì registro una serata, 
                  ma non trovo nulla che mi colpisca musicalmente. Mi avevano 
                  invece molto colpito le vedove dei minatori: c'erano delle signore 
                  - alcune giovani, belle - e la prima mi dice «io sono 
                  vedova», ma con lo stesso tono con cui avrei detto «ho 
                  fatto il liceo classico» come una cosa naturale, e un'altra 
                  «io sono vedova», «io lo sono da tanti anni...», 
                  insomma la tragedia abitava quel paese con naturalezza. Mi ha 
                  colpito il fatto che essere nubili-sposate-vedove erano tre 
                  stadi in naturale successione, dove era evidente che le vedove 
                  avevano una libertà di comportamento e di eloquio che 
                  era un riconoscimento di ruolo.
 
 E dove li rintracci i Bregoli?
 Nel paese più sotto, Pezzaze, in uno spaccio di alimentari 
                  ho chiesto al salumaio se poteva indicarmi qualche musicista 
                  del posto, e mi ha detto «guarda, quello lì che 
                  sta entrando».
 Mi presento, e con molta onestà gli confesso che sto 
                  cercando i canti di quel luogo, senza promettere niente, non 
                  c'era nessuna intenzione di farne un disco, volevamo giusto 
                  documentare le musiche del posto «se vi interessa, vi 
                  sarei grato, se no amici come prima». Conosco così 
                  i fratelli Bregoli e mi rendo conto, appena questi aprono la 
                  bocca, di aver trovato degli esecutori di alto livello, con 
                  un cantante in particolare straordinario che è Peppino, 
                  con una forza espressiva indescrivibile e poi questo repertorio 
                  di miniera.
 
 Chi erano i Bregoli, intendo dire chi era fra loro che 
                  faceva musica?
 Lino, Peppino, Adriano, Angelo detto “Buro”... io 
                  ne ho conosciuti almeno 5, il più giovane aveva la mia 
                  età, è morto qualche anno fa ed era Adriano Quindicesimo, 
                  perché era il quindicesimo nato in famiglia, era una 
                  di quelle famiglie così numerose che perdi un po' i confini 
                  fra consanguinei, acquisiti, ecc.
 
 E chi era fra loro il fisarmonicista che si sente nel 
                  disco?
 Tutti suonavano la fisarmonica, tranne Peppino che suonava il 
                  pettine con la membrana, - una sorta di kazoo autoprodotto - 
                  e soprattutto era il cantante/leader, il vero grande talento 
                  della famiglia. Potrei dire che avevo intuito subito la loro 
                  eccezionalità, ma per capirli davvero ho dovuto studiare, 
                  ripercorrere le mie passioni e le mie conoscenze, mettere in 
                  campo la mia esperienza di apprendistato con Ewan MacColl, superare 
                  la rassicurante concezione della “cultura contadina” 
                  in cui noi, ricercatori dell'epoca, avevamo chiuso esperienze 
                  troppo diverse tra loro.
 Tanto per cominciare in Italia del Nord - cominciavo appena 
                  allora a rendermene conto - ci sono due grandi usi sociali del 
                  canto popolare: ci sono delle aree dove sopravvive una perizia 
                  musicale riconosciuta sia strumentale che vocale, come nel tralallero 
                  ligure, nel canto della Langa, in quello di Premana. In questi 
                  tipi di culture vocali non frega niente delle parole cantate, 
                  sono solo un pretesto per emettere delle note. Poi ci sono i 
                  luoghi dove invece privilegiata è la parola portatrice 
                  di racconto. Ai Bregoli non gliene frega poi troppo della musica, 
                  la cosa importante sono le cose che hanno da dire. Questi due 
                  mondi, che a volte distano una sola valle, presuppongono approcci 
                  interpretativi completamente diversi.
 Mi divertì col tempo a far ascoltare i Bregoli ad altri 
                  musicisti che stimavo, Ernesto Sala per esempio, che oltre ad 
                  essere uno dei più grandi musicisti popolari era uomo 
                  curioso e di acuta intelligenza, amava molto i Bregoli, pur 
                  nella distanza di interessi che non sarebbe potuta esser maggiore. 
                  I miei amici cantori di Magliano Alfieri nelle Langhe - che 
                  cantavano molto bene, ma avevano un rapporto col testo a tutt'altro 
                  livello di necessità - quando sentirono i Bregoli dissero 
                  una cosa illuminante nella semplicità: «ehhh... 
                  ma questi stanno proprio attenti a quello che dicono”.
 
                   
                    |  |   
                    | Alessio Lega, Bruno Pianta, Riccardo Tesi, Lucilla Galeazzi il 18 agosto 2016 |  
 “Di loro mi fidavo” Dunque per i Minatori della Val Trompia la parola non aveva un valore ritmico, ma proprio di racconto della loro vita?La parola usata come strumento per fare musica è cosa bellissima, ma per i Bregoli - e per tutta l'area orobica, della Lombardia orientale - contano le cose che si dicono, le storie.
 Nelle canzoni dei Bregoli ogni parola detta da Pino è un colpo di fucile [scandisce] “QUANDO-AVEVO-QUINDICI-ANNI-PER-IL-MONDO-ME-NE-ANDAI”... a ripensarci mi vengono i brividi! Questa cosa qua lui la canta perché è un cantante - un grande cantante - ma in realtà la vive! La memoria emotiva gliela rimette in circolo. È la storia, sono le parole.
 Una nota a margine: ho notato che nei posti dove c'è questa sapienza qui, stranamente, c'è anche   una tradizione strumentale, mentre nei posti dove si privilegia il canto come fatto musicale - senza attenzione alla parola e al racconto - non c'è tradizione strumentale: la voce diventa lo strumento. A Premana non c'è una fisarmonica nel paese, non c'è a pagarlo oro! Dove invece c'è il racconto nelle canzoni, lì ci sono anche musicisti da ballo. A Bagolino - dove c'è straordinaria tradizione strumentale - cantano, ma cantano in quel modo: le parole sono PAROLE e devono avere un senso, non sono un pretesto.
 
 E tu capisci immediatamente che l'esperienza della miniera è l'esperienza centrale della loro vita, quella a cui pensano quando cantano, sia che i canti vi si riferiscano direttamente sia che stiano attingendo da altri repertori?
 Devo confessarti che dal primo momento sapevo che erano minatori, ma era un fatto accessorio, pensavo giusto che erano molto bravi a cantare. Sandra [Mantovani] che aveva sempre una visione positivista, diede una definizione medico-musicale: “hanno la voce da silicosi”. Forse era vero, ma quello che mi aveva stupito era che li avevo conosciuti in osteria, con i comportamenti tipici da osteria - io allora non avevo gli strumenti per capire quale comportamento volesse dire una determinata cosa, dopo ho capito che l'osteria che vivevano loro era una ritualità con i suoi comportamenti archetipici, i suoi “ruoli” - a me colpirono proprio con un impatto emotivo che mi buttò a terra: “cazzo” questi sono dei giganti! Come fanno, da dove vengono?
 Vedi, io prima di occuparmi del mondo popolare italiano mi ero accostato a Leydi perché amavo il Folk americano, all'epoca era l'unico che se ne occupasse, un mondo dove esisteva ed era riconosciuta la straordinarietà e il professionismo anche dell'interprete popolare. Beh, quando a Pezzaze mi trovai di fronte a queste storie cantate: fare soldi e sputtanarseli subito in baldoria, in donne, fino a finire sul lastrico... e solo allora ricominciare l'inferno del lavoro in miniera. La spinta alla mobilità continua, la voglia di partire, l'ambiente contadino che stava troppo stretto. Questo mondo marginale, ma poeticamente potentissimo, era così diverso da quello operaio. Questi allora, che non erano né contadini né operai, da dove venivano? Ma questi sono i Cowboys, mi dissi, questi sono i nostri Cowboys! E lì ho avuto la prima intuizione di questo mondo storicamente trasnazionale, di gente che forse non si conosceva, ma che tu potevi riconoscere attraverso i comportamenti comuni e sovrapponibili: la spavalderia che non era un vanto, ma che era vera disposizione e abitudine a misurarsi con la vita e con la morte.
 
 Una poetica che va ben al di là del fatto sonoro e dell'etnomusicologica. Da quello che mi dici, dalla passione con cui a distanza di oltre quarant'anni me ne parli, capisco quanto tu stesso fossi alla ricerca di un collegamento fra le fascinazioni dell'adolescenza e il lavoro che stavi facendo.
 Sai, quelli erano momenti delicati per la società italiana, il mondo della contestazione politica, l'estremismo del Movimento Studentesco - nel quale ero cresciuto e generazionalmente mi riconoscevo - cominciava ad essere affascinato dalle armi, si facevano i primi discorsi di lotta armata, e io mi trovai subito in perfetto disaccordo per motivi etici, ma anche per motivi pratici: mi parevano sbruffoni del tutto impreparati che avrebbero fatto danni a se stessi e agli altri senza cavare un ragno dal buco. Non ero d'accordo con la loro analisi, ma soprattutto non mi fidavo di loro come persone, perché per loro la parola era come per quei cantori che non gli davano importanza: serviva per vantarsi, per fare musica. Invece quando conobbi la Famiglia Bregoli mi ritrovai automaticamente a pensare: se ci fosse da fare “qualcosa”, se ci si trovasse in una condizione di resistenza, in un momento rivoluzionario... io di questi mi fido, con loro io ci vado, perché di questi io mi posso fidare. Capisci che non stiamo parlando solo di musica.
 
 Quindi, come sempre accade quando ci troviamo di fronte a delle registrazioni straordinarie, è perché il tuo rapporto con loro è andato ben oltre la semplice documentazione, è diventato una sorta di transfert emotivo ed esistenziale.
 Io lì ho preso casa! Sono stato a Pezzaze per due anni, volevo star loro vicino.
 
 Frammento dell'intervista raccolta nella notte fra il 4 e il 5 luglio 2016
  Alessio Lega |