
                  Sono trascorsi solo 
                    due mesi dal cinque di novembre, il giorno della fiaccolata 
                    contro l’occupazione militare della frazione Urbiano 
                    di Mompantero. Due mesi molto lunghi, come sanno esser lunghi 
                    i tempi quando, all’improvviso, tutto va più 
                    in fretta e il quotidiano, normalmente misurato da chi decide 
                    per tutti e a tutti impone la giornata scandita secondo i 
                    ritmi del lavoro, della produzione e del consumo, si spezza 
                    per far posto al tempo della lotta e della libertà. 
                    Capita di rado, ma capita.
                    La cronaca di quella fiaccolata chiudeva su questa rivista 
                    il racconto degli ultimi mesi della lotta contro il Tav in 
                    Val Susa. Già allora l’addensarsi degli avvenimenti 
                    rendeva difficile districare la descrizione degli eventi, 
                    necessariamente di parte, dall’analisi della complessa 
                    partita tra la lobby tavista e alcune decine di migliaia di 
                    uomini, donne e bambini decisi a non mollare.
                    Da allora di acqua sotto i ponti della Dora ne è passata 
                    tanta.
                    La Val Susa, un nome che per la maggior parte degli italiani 
                    era mera e vaga indicazione geografica, è divenuta 
                    un caso nazionale, occupando le prime pagine dei giornali 
                    e aggiudicandosi un posto di rilievo nei telegiornali e sui 
                    rotocalchi.
                  
 
                    Lo sciopero generale
                  Lo sciopero generale del 16 novembre, proclamato nei giorni 
                    immediatamente successivi all’occupazione dei terreni 
                    di Mompantero, in località Seghino, ha coinvolto l’intera 
                    valle, nonostante il giorno precedente la Commissione di garanzia 
                    lo avesse dichiarato illegale, intimando alla Cub, il sindacato 
                    di base che lo aveva proclamato, di revocarlo. Ma le norme 
                    antisciopero poco potevano contro la volontà di costruire 
                    un’iniziativa di lotta che, bloccando per un’intera 
                    giornata la Valle, rendesse evidente la coralità di 
                    un’opposizione che non si è lasciata intimorire 
                    neppure dalla polizia e dalle continue minacce del Ministero 
                    dell’Interno, che a intervalli regolari ha continuato 
                    ad invocare scenari di violenza e distruzione per la presenza 
                    di pericolosi anarchici infiltrati in valle. Una vecchia tattica, 
                    quella di mettere in difficoltà un movimento in crescita, 
                    tentando di creare una divisione tra i buoni, quelli della 
                    protesta democratica e i cattivi, gli anarchici violenti, 
                    il babau da sbandierare in ogni occasione. Una tattica che 
                    sinora non ha dato frutti, anche perché in Val Susa 
                    tanta gente ha imparato a toccare le cose con le proprie mani, 
                    ad andare al cuore delle questioni, a non farsi abbindolare 
                    dalla chiacchiere del Ministro di turno. Sia questo il Lunardi 
                    degli “affari di famiglia” o il Pisanu con l’ossessione 
                    degli anarchici.
                    Quel 16 novembre tutta la Valle si è fermata: solo 
                    i treni passavano e, rallentando al massimo nei punti in cui 
                    la ferrovia corre parallela e vicina alla strada, i macchinisti 
                    fischiavano a lungo mentre dai finestrini i passeggeri salutavano 
                    a pugno chiuso e sventolando bandiere No-Tav. Tutte le fabbriche 
                    della valle (5.000 addetti), tutti gli esercizi commerciali, 
                    compresi bar e distributori, tutte le scuole, uffici postali, 
                    banche, officine artigiane, allevamenti, erano chiusi. Sulle 
                    porte dei negozi bandiere e cartelli No-Tav e la scritta: 
                    “Per una valle viva, oggi sciopero: No Tav”.
                    Lungo le strade della Valle i cartelli, gli striscioni, le 
                    bandiere erano dappertutto. Significativa la volontà 
                    di respingere al mittente le provocazioni di Pisanu e di Lunardi. 
                    Numerosi i cartelli ironici in cui si stigmatizzava la frase 
                    del ministro sui “pelandroni” della Val Susa che 
                    perdono tempo a manifestare e quelli contro il tentativo di 
                    criminalizzare la lotta in Valle.
                    Non si contavano gli striscioni contro l’occupazione 
                    militare, contro l’imposizione violenta della trivella 
                    a Seghino di Mompantero entrata provocatoriamente in funzione 
                    il giorno prima dello sciopero generale.
                    Andata letteralmente a ruba la lettera aperta al Presidente 
                    della Comunità montana Bassa Val Susa, Antonio Ferrentino, 
                    diffusa dalla FAI torinese in migliaia di copie alla manifestazione. 
                    Nella lettera veniva denunciata l’esplicita criminalizzazione 
                    degli anarchici da parte di Ferrentino che, in un’intervista 
                    al quotidiano “La Stampa”, aveva insinuato che 
                    dietro al pacco contenente esplosivo fatto rinvenire sulla 
                    statale del Moncenisio e i proiettili inviati alla governatore 
                    Mercedes Bresso, non ci potessero essere che gli anarchici, 
                    gli stessi che si erano permessi di criticare pubblicamente 
                    le scelte di chi, come lui, si era prodigato nella ricerca 
                    di improbabili scorciatoie istituzionali. Di fatto la criminalizzazione 
                    degli anarchici è il preludio al tentativo di criminalizzare 
                    le forme più radicali di resistenza al TAV della popolazione. 
                    Non a caso Ferrentino ha provato a contrapporre lo sciopero 
                    ai blocchi dei cantieri, delle strade e della ferrovia. In 
                    questo modo ha, nei fatti, condannato le pratiche che avevano 
                    sino ad allora consentito di tenere fuori dalla valle il TAV.
                    Ferrentino gioca in valle un ruolo ambiguo: un giorno capopopolo 
                    in versione Marcos della Bassa Val Susa, un altro giorno uomo 
                    d’ordine. Un ruolo che negli anni è riuscito 
                    sempre a reggere, restando abilmente in bilico tra le poltrone 
                    istituzionali e le piazze, ma che oggi, di fronte a scelte 
                    sempre più difficili, fa fatica a mantenere. In questi 
                    mesi abbiamo altresì assistito al crescere del ruolo 
                    delle assemblee popolari. Durante l’estate parevano 
                    del tutto allineate alle mosse delle istituzioni della valle 
                    e in quest’autunno di lotta sono divenute le vere protagoniste 
                    politiche di quella che oggi è senz’altro un’esperienza 
                    di partecipazione diretta popolare dalla spiccata attitudine 
                    libertaria.
                  
                   
 
                    Il campo No Tav di Venaus
                  L’accelerazione repressiva voluta da Pisanu con l’occupazione 
                    militare del territorio di Mompantero si fa più düra 
                    sui terreni di Venaus, che CMC, la cooperativa “rossa” 
                    con l’appalto per i lavori del tunnel di servizio di 
                    10 chilometri, preludio alle due canne di 54 Km tra Venaus 
                    e S. Jean de Maurienne, annuncia di voler espropriare il 30 
                    novembre. Per ben due volte CMC aveva provato a prendere possesso 
                    dei terreni e aveva dovuto desistere di fronte alle migliaia 
                    di persone che avevano infoltito il presidio permanente che, 
                    dal 4 giugno, teneva sotto osservazione la zona.
                    Pisanu questa volta gioca d’anticipo ed manda un paio 
                    di giorni prima le sue truppe ad occupare i terreni di Venaus, 
                    bloccando l’accesso al paese con check point piazzati 
                    al bivio “passeggeri” tra la statale 25 del Moncenisio 
                    e la provinciale per Venaus. Dopo una giornata di tensione 
                    il ministro di polizia è obbligato a far recedere i 
                    suoi uomini che si asserragliano all’interno dell’area 
                    dei cantieri ex Sitaf, poi AEM. Nella notte tra il 29 e il 
                    30 novembre una folla di uomini donne bambini, nonostante 
                    la neve ed il freddo, si raccolgono a Venaus. Intorno al cantiere 
                    nasce un vero accampamento No Tav che circonda la polizia 
                    che, a sua volta blocca tutti gli accessi al paese alle auto 
                    dei non residenti. Per giorni e giorni i valsusini e i tanti 
                    solidali che accorrono da ogni dove si danno il cambio intorno 
                    alle quattro barricate che circondano il campo No Tav. È 
                    un’esperienza straordinaria di solidarietà e 
                    cooperazione. Forse Pisanu riteneva che l’inverno avrebbe 
                    avuto la meglio.
                    Ma si sbagliava. La solidarietà concreta dei tanti 
                    che si sono dati turno al presidio, hanno portato legna e 
                    cibo ha consentito di superare le durezze dell’inverno 
                    in montagna. Decine di tende sono state piantate in mezzo 
                    alla neve caduta copiosa, mentre in tanti si susseguivano 
                    a cucinare e distribuire pasti e bevande calde.
                    Dopo una settimana la resistenza anziché scemare si 
                    è rinsaldata. A questo punto il governo ha deciso che 
                    la parola passasse ai manganelli.
                   
 
                    L’assalto della polizia
                  Sono arrivati di notte. Con le ruspe, i randelli d’ordinanza 
                    e la furia delle truppe di occupazione con l’ordine 
                    di colpire. Il vicequestore Sanna prima dell’assalto 
                    ad una delle barricate di Venaus ha gridato “uccideteli!”. 
                    Gambe rotte, teste spaccate, un anziano grave per i colpi 
                    ricevuti all’addome, un ragazzo ricoverato per trauma 
                    cranico. Il presidio di Venaus è stato spazzato via 
                    nella notte tra il 5 e il 6 dicembre.
                    “Ero sulla barricata a valle, quella grande verso Susa. 
                    Erano circa le tre e mezza di notte quando sono arrivati con 
                    una ruspa. Prima hanno colpito sulla destra e poi con più 
                    decisione sull’altro lato, incuranti delle persone che 
                    si trovavano lì”. Comincia così la testimonianza 
                    di Mario che la notte del 5 dicembre si trovava a Venaus. 
                    “In poco tempo hanno buttato giù la barricata. 
                    Poi hanno cominciato ad avanzare, caricando. Noi a mani nude 
                    e loro giù con i manganelli a picchiare e picchiare. 
                    Siamo riusciti ad arretrare senza correre ma è stata 
                    dura fare i cinquecento metri che ci separavano dalle tende 
                    e dalla baracca cucina, dove contavamo di unirci agli altri 
                    che presidiavano la seconda barricata sulla strada. Quando 
                    arriviamo troviamo le tende divelte, la baracca devastata: 
                    la polizia ha agito a tenaglia attaccando da tre lati. La 
                    situazione è durissima: ci sono due persone ferite 
                    a terra prive di sensi e la polizia impedisce l’arrivo 
                    delle ambulanze. Ci spingono a lato come bestiame: approfitto 
                    della confusione e mi butto per i campi e di lì raggiungo 
                    Venaus. Dalla strada da Giaglione, l’unica aperta, arrivano 
                    tanti valligiani e insieme si torna ad affrontare la polizia. 
                    La tensione è altissima ma il confronto tra gente disarmata 
                    e i robocop in divisa è impari: volano altre mazzate. 
                    Mi sa che quelli che il giorno prima offrivano il the ai poliziotti 
                    oggi non lo faranno più”.
                    Ancora una volta il ministro ed i tutori del disordine statale 
                    hanno fatto i conti senza l’oste. L’oste, in questo 
                    caso la popolazione dell’intera valle, ha sopportato 
                    per oltre un mese l’occupazione militare di Urbiano 
                    e di Venaus. La militarizzazione del territorio, i continui 
                    controlli, l’arroganza della polizia hanno avuto degno 
                    coronamento con l’attacco notturno al presidio, con 
                    la ferocia delle squadre antisommossa, con la disinvoltura 
                    con la quale il ministro dell’interno Pisanu ha affermato 
                    che la polizia non aveva caricato. E questo nonostante tra 
                    i feriti delle non-cariche vi siano stati giornalisti e fotografi, 
                    nonostante le numerose testimonianze, nonostante le urla che 
                    ho sentito al telefono nella notte del 5 novembre quando è 
                    arrivata la notizia dell’attacco.
                    Ai manganelli di Pisanu fanno da corollario i maggiori organi 
                    di disinformazione al servizio della lobby tavista. L’indecente 
                    campagna mediatica che da mesi tenta di costruire un clima 
                    di allarme intorno alla lotta della Val Susa diviene sempre 
                    più dura nei giorni precedenti l’attacco a Venaus. 
                    Pisanu si lascia andare all’ennesima dichiarazione contro 
                    il rischio di “infiltrazioni” violente dei soliti 
                    anarchici.
                    Sul Corsera di sabato 3 dicembre si descrivevano i poliziotti 
                    di stanza a Venaus come ostaggi di manifestanti ostili e violenti. 
                    Una falsità sfacciata che faceva a pugni con la realtà 
                    di una protesta che, persino di fronte all’occupazione 
                    militare, è rimasta del tutto pacifica.
                    Il persistente tentativo di criminalizzare i valsusini è 
                    il segno della profonda difficoltà che il governo di 
                    Roma e quello di Torino hanno nell’affrontare la singolare 
                    congiunzione tra modalità organizzative orizzontali, 
                    lucidità sugli obiettivi, profondo radicamento sociale 
                    e scelta di modalità di lotta non violente ma assolutamente 
                    radicali, non riassorbibili nell’alveo delle compatibilità 
                    politiche. La violenza esercitata a Venaus nella notte del 
                    5 dicembre resterà impressa in modo indelebile nella 
                    memoria della gente della valle, che sin dalle prime ore dei 
                    6 dicembre ha dato vita ad una vera e propria rivolta.
                  
 
                    La rivolta
                  Il 6 dicembre alcuni compagni di ritorno da Bussoleno dopo 
                    un pomeriggio trascorso in valle dicevano che vi si respirava 
                    “un piacevole clima insurrezionale. Ovunque c’erano 
                    blocchi fatti con tronchi segati e masserizie” Al diffondersi 
                    rapido delle notizie sulla mattanza in corso in Val Cenischia 
                    sono iniziati gli scioperi spontanei nelle fabbriche della 
                    Valle e in quelle dei paesi della gronda Ovest di Torino. 
                    Molti negozi hanno chiuso esponendo cartelli contro il Tav 
                    e la militarizzazione e così le scuole elementari dove 
                    i genitori hanno ritirato i figli e quelle superiori dove 
                    i ragazzi sono scesi in strada.
                    In breve tutte le strade che da Torino risalgono la valle 
                    in direzione del confine francese sono state bloccate dai 
                    manifestanti. In tremila hanno eretto barricate sull’autostrada 
                    32 del Frejus, mentre per chilometri e chilometri si allungavano 
                    le file dei tir in coda.
                    A Bussoleno una colonna di camionette della polizia che tentava 
                    di aggirare i blocchi passando per vie laterali è stata 
                    bloccata da una densa folla di manifestanti e solo l’ennesima 
                    mediazione di sindaci e preti ha consentito ai mezzi di andarsene.
                    La Ferrovia internazionale è stata bloccata ad Avigliana 
                    sin dalla mattinata da persone che si sono date il cambio 
                    per l’intera giornata. Allo slogan dei giorni precedenti, 
                    “Resistere per esistere”, si affianca il motivo 
                    conduttore della lotta, pronunciato in dialetto e gridato 
                    da tutti a più riprese “Sara düra!”.
                    La protesta si è estesa anche a Torino, dove per l’intera 
                    giornata del 6 gennaio si sono susseguite manifestazioni spontanee 
                    e blocchi ferroviari, che hanno coinvolto migliaia di persone.
                  
                   
 
                    La “riconquista” 
                    di Venaus
                  L’8 dicembre è giornata festiva: dopo due giorni 
                    di rivolta e blocchi stradali e ferroviari le strade sono 
                    libere. Sin dalla serata del 6 dicembre l’assemblea 
                    della valle, riunitasi a Bussoleno aveva deciso che quel giorno 
                    sarebbe partita una marcia con destinazione i terreni occupati 
                    di Venaus.
                    Riporto di seguito la cronaca che buttai giù dopo quella 
                    memorabile giornata.
                    “Susa prime ore del mattino. L’aria è frizzante 
                    ma non nevica ancora. L’autostrada è più 
                    trafficata del solito, ma non di turisti, sebbene tutti, arrivando 
                    a Susa, mettano scarponi ai piedi e si coprano come per una 
                    gita invernale. Quando si arriva la marcia è già 
                    partita, di buon passo verso Venaus su per i curvoni della 
                    statale 25. È il popolo No Tav, è la gente della 
                    Val Susa e i tanti che sono accorsi solidalmente da fuori. 
                    C’è gente di tutte le età e decine di 
                    bambini anche piccolissimi, a piedi o in carrozzella: sembra 
                    quasi una passeggiata, ma tutti sanno che non lo sarà. 
                    Tre notti prima la furia della polizia si era scatenata sull’accampamento 
                    No Tav, ferendo i corpi di tanta gente e calpestando la dignità 
                    di tutti. Una bava di vento porta acre l’odore dei lacrimogeni: 
                    la polizia ha caricato su ai Passeggeri, il bivio da cui si 
                    dipana la provinciale per Venaus, che ormai da settimane solo 
                    i residenti e gli uomini in divisa possono imboccare. Incontro 
                    un conoscente, uno che lavora dalle mie parti ed incontro 
                    spesso al bar. È un uomo non più giovane dall’aspetto 
                    mite: appare trafelato. “Ce le hanno date, quante ce 
                    ne hanno date. Ci hanno incartati ben bene” E mostra 
                    la mano gonfia. Quando arriviamo al bivio vediamo gli sbirri 
                    schierati. Il corteo va avanti su per la statale oltrepassando 
                    il blocco di polizia mentre comincia a nevicare fitto fitto. 
                    La polizia lascia fare: probabilmente pensano che ci accontenteremo 
                    di occupare l’autostrada che ha l’ingresso poco 
                    sopra. In breve l’autostrada viene bloccata ma il grosso 
                    del corteo va ancora avanti sulla statale.
                    Il fiato mi si fa corto corto. Un giovane accanto a me si 
                    carica in spalla il bambino più piccolo e ci sono anziani 
                    che passano lesti in avanti: mi vergogno un po’ della 
                    mia debolezza. Si arriva poi su un sentiero largo ma pieno 
                    di neve, ghiaccio e fango e si comincia a scendere la montagna. 
                    Altri imboccheranno una strada che passa più in alto, 
                    altri ancora aggirano i birri passando per le case e superando 
                    il costone roccioso ai Passeggeri.
                    Tutta la montagna si riempie di gente che lenta cala giù. 
                    Alla partenza da Susa, secondo le stime dei contafile da corteo 
                    saremo stati 50.000. È un fiume umano quello che scende 
                    la montagna.
                    Come indiani abbiamo aggirato la polizia: li vediamo dall’alto 
                    schierarsi. Una signora accanto a me porta la mano alla bocca 
                    e lancia il grido di guerra: un attimo e tutta la montagna 
                    risuona. Qualcuno intona Bella Ciao e tutti si sentono come 
                    partigiani.
                    Non avverto più la stanchezza. Arriviamo all’area 
                    occupata dai birri, il posto dove vogliono impiantare il cantiere: 
                    vedo un nugolo di persone che abbattono le recinzioni e invadono 
                    l’area. Pare che poco prima i carabinieri abbiano sparato 
                    dei lacrimogeni e poi se la siano data a gambe. Mentre ancora 
                    in fondo al cantiere c’è movimento in molti guadagnano 
                    un sasso e scartano i panini.
                    Venaus è stata liberata ed è ora di mangiare. 
                    Come sempre in tanti anni che vengo in valle mi stupisco di 
                    tanta pacatezza.”
                    Migliaia e migliaia di persone che pacificamente si riprendono 
                    le loro vite violate dalla violenza dello stato: una cosa 
                    da far paura.
                    Tanta paura. Al punto che il giorno dopo la ripresa di Venaus 
                    la politica, quella dei palazzi e delle poltrone dorate, si 
                    è messa in moto convocando a Roma, nel bel mezzo del 
                    ponte dell’immacolata, i sindaci della valle ribelle.
                    Sul tavolo il governo ha gettato una proposta che nei fatti 
                    sancisce la volontà di siglare una tregua, mettendosi 
                    al riparo dal rischio di una manifestazione oceanica per le 
                    strade di Torino e dalla minaccia di boicottaggio delle Olimpiadi. 
                    Dove avevano fallito i manganelli e l’occupazione militare 
                    paiono riuscire gli artifizi della politica: il giorno successivo 
                    i sindaci, che pure non avevano firmato l’accordo, decidono 
                    di rinunciare alla manifestazione prevista per il 17 a Torino, 
                    limitandosi a promuovere una kermesse culturale. Nel pomeriggio 
                    un’assemblea di centinaia di persone rigetta la proposta-truffa 
                    del governo e a gran maggioranza richiede la conferma della 
                    manifestazione. Di fronte al no dei sindaci e, in particolare, 
                    di Antonio Ferrentino, il giorno successivo un’affollata 
                    assemblea convocata dai comitati No Tav proclama la manifestazione 
                    del 17 a Torino, scegliendo, per estrema volontà di 
                    mantenere unite le varie anime del movimento, di far convergere 
                    il corteo con l’iniziativa dei sindaci.
                    Il movimento da prova di straordinaria maturità rifiutando 
                    ogni mediazione e facendo propria, autorganizzandola, la manifestazione 
                    di Torino del 17 dicembre.
                    Sono scelte per nulla scontate che segnano un salto di qualità 
                    nella storia della lotta contro il Tav in Valsusa: la gente, 
                    come più volte ribadito nelle assemblee della settimane 
                    successive, è consapevole ed orgogliosa della propria 
                    capacità di autorappresentarsi. In quei giorni la pressione 
                    dei media impegnati in una campagna diffamatoria sempre più 
                    violenta e quella della magistratura che annuncia arresti 
                    e sequestra i terreni di Venaus affidandone la custodia nientedimeno 
                    che al General contractor del Tav, la società LTF, 
                    nonché la volontà di Ferrentino di mettere in 
                    campo il peso di una leadership di tipo carismatico sin’allora 
                    quasi indiscussa avrebbero potuto indurre i meno intrepidi 
                    ed autonomi a scegliere di accettare la tregua elettorale 
                    voluta dal governo e dall’opposizione. Invece no. Le 
                    assemblee del 9 e del 10 confermano che la gente è 
                    decisa ad andare avanti. Con o senza i sindaci.
                   
 
                    La manifestazione di Torino
                  Il 17 dicembre a Torino sfilano decine di migliaia di persone: 
                    chi dice 50, chi 70 chi persino 80 mila. In testa la gente 
                    della Val Cenischia, poi gli altri comitati, poi gruppi, associazioni 
                    ambientaliste, partiti, e sindacati di base. Persino una manciata 
                    di sindaci si presenta alla manifestazione con tanto di fascia 
                    tricolore. Gli anarchici sono diverse migliaia. Indicati dai 
                    media per giorni e giorni come violenti a caccia di scontri 
                    la loro presenza al corteo è stata cancellata da quegli 
                    stessi media delusi che gli anarchici non avessero voluto 
                    recitare la parte loro assegnata nel teatrino della disinformazione 
                    mediatica.
                    La scelta di scendere in piazza nonostante i politicanti – 
                    anche locali – volessero che la gente restasse a casa 
                    per consentire ai giochi della politica di palazzo di decidere 
                    al loro posto è non solo giusta ma anche efficace. 
                    Solo una minoranza segue Ferrentino ed i suoi, mentre i più 
                    attraversano in corteo le strade di Torino. La componente 
                    anarchica all’interno del movimento è un dato 
                    di fatto contro il quale possono ben poco le manovre criminalizzanti 
                    di Pisanu e la repressione di polizia, che il 22 dicembre, 
                    dopo un presidio al tribunale in solidarietà agli antifascisti 
                    e antirazzisti torinesi sotto processo, arresta un anarchico, 
                    accusandolo di violenze durante il corteo No Tav del 6 dicembre, 
                    il giorno della mattanza di polizia contro l’accampamento 
                    di Venaus. I giornali si scatenano sperando di ottenere una 
                    spaccatura del movimento, ma, ancora una volta la manovra 
                    fallisce.
                    Il 3 dicembre al Polivalente di Bussoleno un’assemblea 
                    di valle esprime la propria solidarietà a Marco, l’anarchico 
                    arrestato.
                  
                  Corteo No Tav a Chambery
                    L'immagine è tratta dal sito www.notav.it
                   
 
                    Chambery e poi…
                  Nella stessa assemblea viene decisa la partecipazione alla 
                    manifestazione No Tav indetta a Chambery per il 7 gennaio 
                    dal neonato Collettivo del Rodano Alpi contro la Lione-Torino. 
                    Un’altra decisione per nulla scontata, dopo il comunicato 
                    con il quale sin dal 27 dicembre il solito Ferrentino, dal 
                    sito della Comunità Montana “sconsigliava” 
                    la partecipazione ad una manifestazione “organizzata 
                    dagli anarchici”.
                    I compagni arrivati da Chambery vengono accolti con un fragoroso 
                    applauso e nessuno chiede loro la carta di identità 
                    politica: la marcia della Val Susa si prepara a oltrepassare 
                    le alpi.
                    Sarà düra!
                    (Ne riparliamo sul prossimo numero)