|  
                
                 Un po' di chiarezza 
                   (Chi era Matteo Salvatore) 
                 Se l’Italia avesse un minimo di dignità e d’onore 
                  l’alta Puglia non sarebbe il luogo del culto di Padre 
                  Pio ma di Matteo Salvatore.  
                  Matteo Salvatore è stato un miracolo vivente degli ultimi 
                  cinquant’anni, un grande poeta popolare, un cantante sopraffino 
                  di ineguagliabile musicalità, un ottimo chitarrista con 
                  una tecnica autodidatta ma di audace raffinatezza.  
                  Le origini della sua arte affondavano nella leggenda: le biografie 
                  lo vogliono, pressoché bambino, ad accompagnare un violinista 
                  cieco, tale Pizzicoli, portatore di serenate a pagamento. Sembra 
                  esserci una sorta di reincarnazione del mito d’Omero alla 
                  base della cultura profonda di questo aedo del ’900.  
                  La miseria nera che fa compagnia alla quasi totalità 
                  degli abitanti del paesino d’Apricena (in provincia di 
                  Foggia, dove Matteo era nato nel 1925) è il basso 
                  continuo che accompagna tutte le sue opere, il motivo che 
                  lo spinge ben presto, come tanti suoi conterranei, a spostarsi 
                  a nord. Roma (ma anche Milano, Torino…tutta la via crucis 
                  del poer crist emigrante) lo troverà a esercitare 
                  il nobile mestiere del posteggio nelle trattorie, dove attira 
                  l’attenzione di alcuni intellettuali.  
                  Sono gli anni che preludono la riscoperta del patrimonio popolare 
                  (quello che avrà la sua eclatante rivelazione nello spettacolo 
                  Bella Ciao del Nuovo Canzoniere, presentato al Festival 
                  dei due mondi di Spoleto nel ’64). Sono anni in cui Ernesto 
                  De Martino, Diego Carpitella e Alan Lomax battono la penisola 
                  nel timore (fondatissimo) che presto la televisione di lascia 
                  o raddoppia fagociti la cultura contadina. Gli spiriti 
                  più sensibili se ne sono già accorti.  
                  Matteo canta nelle trattorie romane le canzoni di Napoli, perché 
                  son quelle conosciute che fanno tintinnare la mancia, ma Giuseppe 
                  De Santis, Calvino gli dicono “Matteo, tu sei pugliese. 
                  Perché non canti le canzoni della tua terra?”. 
                   
                  “Non ne conosco” dice Matteo. “Cercale!” 
                  gli ribattono.  
                  E allora, armato di registratore Matteo va ad Apricena a cercare 
                  tali melodie e, non trovandole, si mette a scriverne lui stesso. 
                  Torna e comincia a cantare queste canzoni spacciandole per repertorio 
                  anonimo.  
                  
                Matteo Salvatore 
                Comporre cantando  
                  Bisogna riflettere a quest’ambiguità di cui lui 
                  si servì, ma a cui molti vollero credere: Matteo inizia 
                  a scrivere canzoni popolari su commissione, egli di 
                  suo è voce, canto; il termine “scrivere” 
                  sarebbe già del tutto improprio nel suo caso visto che 
                  compone cantando. La percezione che si avrà per anni 
                  di Matteo come portatore, cioè memoria vivente ed esecutore 
                  di materiale popolare, è una falsificazione. Troviamo 
                  il suo repertorio inserito nelle grandi collezioni di Folk anni 
                  ’70 (dai Dischi del sole in poi), ma Matteo è 
                  un poeta, un musicista, popolare certo, ma raffinatissimo sia 
                  nei versi che nelle melodie.  
                  Se le prime canzoni che registrerà conterranno stucchevoli 
                  ritornelli di becera comicità, ben presto avviene in 
                  lui una sorta di purificazione: Matteo Salvatore diventa il 
                  medium del dolore secolare di un popolo, la sua opera assume 
                  carattere di grande affresco. Non vi è riflessione, le 
                  canzoni non “parlano di”, nemmeno, per intenderci, 
                  attraverso l’umanissimo filtro dell’immedesimazione 
                  deandreiana; sono proprio i personaggi che, senza presentarsi, 
                  si esprimono per voce di Matteo, di modo che l’esperienza 
                  della miseria faccia da sfondo a un discorso che ha le parole 
                  della vita di tutti i giorni. Nella canzone Lu furastiero 
                  non viene raccontata in modo esplicito la tragedia degli stagionali: 
                  uomini che vagavano a piedi per i paesi del Gargano e del Tavoliere, 
                  prestandosi alla massacrante raccolta dei pomodori, riposando 
                  poche ore a terra sull’aia, guardati in cagnesco dai lavoratori 
                  del posto, i cui salari da fame venivano ulteriormente ribassati 
                  per l’enorme offerta di braccia; nella canzone tutto ciò 
                  è un non detto. Nient’altro che l’impressionistica 
                  descrizione di un notturno in cui il forestiero, stremato, dorme: 
                 
                Lu furastiero dorme 
                  stanotte sull’aia  
                  Dorme sull’aia alla frescura  
                  E pe cuperta la raccanella  
                  E pe cuscino la sacchettola  
                La dolcezza struggente della melodia, la nettezza diamantina 
                  dei versi fa di questo, come di quasi tutti i canti di Matteo 
                  Salvatore, una specie di Lied dialettale, un concentrato 
                  inestimabile di concisione e follia.  
                  Le parole di queste canzoni non potevano, come abbiamo detto, 
                  essere scritte perchè Matteo non sapeva scrivere (se 
                  non con estrema difficoltà e già in età 
                  avanzata), dunque son canzoni che nascono senza mediazione letteraria, 
                  dal e per il canto. Questo, si sa, è 
                  un tratto della musica popolare o più in generale della 
                  cultura orale, ma la caratteristica specifica di Matteo sta 
                  nella misura, nel raccoglimento, nel controllo; l’arte 
                  tutta di Matteo Salvatore poggia su un carattere di forte astrazione, 
                  cosa tanto più rara nella tradizione meridionale o mediterranea. 
                  Le sue canzoni, da questo punto di vista, potrebbero essere 
                  accostate a certi canti del De André degli ultimi dischi 
                  (quello di da me riva, o di ho visto nina volare) 
                  e, un po’ più logicamente, le sue melodie accostate 
                  a certe melodie belliniane o para-belliniane (certamente Matteo 
                  conosceva Fenesta ca lucive).  
                Un grande lirico  
                  Matteo Salvatore possedeva e usava una vocalità particolarissima, 
                  in grado di passaggi vorticosi dai toni gravi al falsetto attraverso 
                  reminiscenze, si direbbe, arabe. Ne Lu pecurere (Lu 
                  pecurere pe li murge vaje / a pasculà le pecore) 
                  la voce si avvita in un melisma che fa pensare alla leggendaria 
                  nota blu. È sinceramente impressionante e distante anni 
                  luce dal vigore un po’ greve dei pur grandissimi cantori 
                  popolari del sud (Rosa Balistreri, Cicciu Busacca). Per dirlo 
                  in una parola Matteo Salvatore non è un cantastorie, 
                  egli è un grande lirico.  
                  Ecco, non vorrei fosse un’ennesima forzatura, ma a me 
                  piace pensare Matteo Salvatore come un bluesman leggendario, 
                  un Blind Lemmon Jefferson pugliese. Anche biograficamente: la 
                  maggior parte dei bluesman erano personaggi violenti e incontrollabili; 
                  la carriera di Matteo fu precocemente spezzata dagli anni passati 
                  in carcere in seguito all’assassinio della sua compagna 
                  Adriana Doriani nel 1973.  
                  Il silenzio che negli ultimi anni si fa intorno a questa vicenda 
                  è rivelatore di un atteggiamento moralistico e falsificante 
                  tipico dell’Italia, dove si tiene il parente strambo chiuso 
                  in cantina, anche se il parente è Van Gogh (o Ligabue), 
                  dove c’è sempre stata una particolare difficoltà 
                  nel confronto fra arte popolare e intellighenzia, dove si può 
                  accettare un cantore popolare come una curiosità antropologica, 
                  sociologica, dove si considera sempre la sua opera una sorta 
                  di materia grezza a cui attingere, ma dove si fa fatica ad ammettere 
                  che l’arte conosce strade che a volte passano lontanissime 
                  non solo dalle accademie, ma anche semplicemente dalle scuole 
                  elementari o dalle nostre vite “rispettabili”.  
                  L’America in questo senso è stato un porto più 
                  franco in cui nessuno si stupisce del rapporto strettissimo 
                  fra le figure leggendarie del Blues (Leadbelly, Robert Johnson) 
                  e i cantautori moderni (Dylan, Springsteen).  
                  Il 27 agosto di questo 2005 Matteo Salvatore è morto. 
                   
                  Per quanto acciaccato ha voluto cantare fino all’ultimo: 
                  il 29 luglio scorso, a Loano, Enrico Deregibus e John Vignola 
                  gli avevano conferito un premio nell’ambito del festival 
                  della musica popolare, quella è stata la sua ultima esibizione. 
                  Prima di questa il Club Tenco, Otello Profazio, Eugenio Bennato, 
                  Daniele Sepe, Teresa De Sio, Vinicio Capossela e qualche altro 
                  avevano fatto il possibile per alleviare a questo maestro la 
                  durezza di una vecchiaia povera.  
                  È però mancata un’attenzione delle istituzioni 
                  culturali (l’unico documentario sulla sua vita è 
                  di produzione francese), mancano pubblicazioni serie su di lui, 
                  a parte un recente racconto/autobiografia della benemerita Stampa 
                  Alternativa, curata dall’ancor più benemerito Angelo 
                  Cavallo (che lo ha accudito come un fratello fino all’ultimo 
                  respiro); manca tuttora (vergogna!) una ristampa in CD della 
                  gran parte dei suoi dischi.  
                  Noi restiamo con il rimpianto di non aver parlato abbastanza 
                  e correttamente di questo meraviglioso artista.  
                  Io resto con il piccolo personale rimpianto di non aver fatto 
                  prima l’articolo su di lui, e sì che me l’ero 
                  ripromesso (e in parte l’avevo già scritto) dall’alba 
                  di questa rubrica. Invece, come nella peggiore tradizione, che 
                  vuole veder celebrati i grandi artisti in occasione o a partire 
                  dalla loro scomparsa, eccomi a versare le lacrime tipografiche 
                  del coccodrillo medio.  
                  Ma aldilà di ogni considerazione di carattere sociale, 
                  morale o personale, l’occasione è buona per cominciare 
                  a fare un po’ di chiarezza sul suo lascito. Matteo è 
                  stato un grandissimo poeta, portatore e rielaboratore di una 
                  cultura altra, che, nonostante i tentativi di sotterramento 
                  della nostra società globalizzata, giunge ancora a scuoterci 
                  dalla notte di Orfeo.  
                  
                  Alessio Lega 
                  alessio.lega@fastwebnet.it 
                 |