|    Oggi 
                    che il qualunquismo è un’arte 
                  Luca Bassanese è un cantautore vicentino, giovane 
                    sui trent’anni. Ha una voce simpatica che si ascolta 
                    volentieri, ma non è questo il punto. Di bello c’è 
                    che sa scrivere testi molto diretti e semplici senza scivolare 
                    sulla superficialità, anzi ci incastra dentro qua e 
                    là tracce di poesia intima, quasi confessasse attraverso 
                    le canzoni i suoi piccoli desideri e i suoi grandi sogni. 
                    A leggerle senza l’accompagnamento della musica, le 
                    sue parole restano ritte in piedi -a volte con un sasso in 
                    mano altre con addosso il rumore rosso della sete di cambiamento- 
                    a rivendicare una giustizia più giusta, spazi liberi 
                    ed aria pulita.  
                    “Oggi che il qualunquismo è un’arte...”, 
                    questo il titolo del suo lavoro, è un assaggio breve 
                    delle sue capacità: solo due canzoni, però ben 
                    rifinite nell’arrangiamento e nella registrazione.  
                    “Confini” è una bella ballata pacifista 
                    e internazionalista come da troppo tempo non se ne scrivono 
                    più (cantata in due versioni distinte, italiana e spagnola), 
                    a cui contribuisce la sezione fiati degli Ska-J, il che sta 
                    a dire che è impossibile ascoltarla restandosene fermi 
                    come pietre, e che è valsa a Luca il premio Recanati 
                    per la migliore musica.  
                    “Il 20 luglio 2001” racconta in modo visionario 
                    i sanguinosi fatti di Genova, un po’ sulla scia della 
                    traduzione della “Desolation row” di Dylan a suo 
                    tempo addomesticata da De André ai fattacci di casa 
                    nostra. Complice la tromba assassina di King Naat Veliov (quello 
                    de “Il tempo dei gitani” di Emir Kusturica) e 
                    l’intera Kocani Orkestar, si consuma in sei minuti a 
                    passo di 3/4 una tragedia personale, in cui Luca mette in 
                    rima la frustrazione di non poter reagire alla violenza: “Mi 
                    sento inutile, come se non fosse qui quest’aria che 
                    respiro”. Volendo esagerare, ci si potrebbe soffermare 
                    su qualche intrusione leopardiana tra le pieghe del testo. 
                   
                    
                  Luca Bassanese 
                   Qualcuno ha scritto, senza barare, che Luca è una 
                    specie di Manu Chao che incontra De André tra i campanili 
                    e i capannoni del nordest: può sembrare un accostamento 
                    sacrilego, ma mi sento onestamente di sottoscriverlo, con 
                    un pizzico di entusiasmo (e Faber si sarebbe certamente messo 
                    a sorridere, accogliendo a braccia aperte Luca in camerino 
                    dopo un suo concerto). Queste canzoni sono una dimostrazione 
                    luminosa che si può ancora scrivere musica da offrire 
                    generosamente in giro senza farcirla di banalità per 
                    renderla appetibile. Gran bel lavoro, e chissà che 
                    ci sia presto un intero album di questo livello. Complimenti, 
                    davvero. E grazie.  
                    contatti: 
                    www.lucabassanese.it. 
                   
                  PS: alcune copie del cd di Luca sono disponibili, in offerta 
                    libera, tramite la lista di Musica 
                    per A/Rivista Anarchica.  
                  
                  
                   “Le 
                    stanze dei giochi”  
                  I monzesi Daniele Manini e Roberto Barbini sono dentro a 
                    progetti musicali dai primi anni Ottanta, coinvolti nelle 
                    attività di Faded Image e Underground Life (molti quasi-cinquantenni 
                    di oggi, tra cui il sottoscritto, sono i punx e i new-wavers 
                    di allora). Li ritroviamo nel passato recente nel Circo Fantasma 
                    e a gironzolare nell’Apecar dei Mercanti di Liquore. 
                     Roberto 
                    Barbini e Daniele Manini
                  
  I nomi dunque non suonano nuovi. Quello che suona nuovo 
                    (…e pure assai strano) è questo loro disco fatto 
                    marcandolo con i cognomi appiccicati insieme e intitolato 
                    “Le stanze dei giochi”, perché contiene 
                    canzoni che esigono un ascolto attento. Del genere: se vi 
                    interessa musica del tipo qualcosa-non-importa-cosa da mettere 
                    sotto i denti mentre fate dell’altro, lasciate stare, 
                    girate alla larga. Se invece vi va di tuffarvi in un viaggio 
                    sonoro piuttosto impegnativo e nodoso, allora prendetevi un’ora 
                    libera e mettetevi seduti tranquilli, e dategli tutta l’attenzione 
                    e la pazienza che potete perché altrimenti questo disco 
                    non funziona. E non funzionano soprattutto i testi, elaboratissimi 
                    e contorti: ogni parola pesa, ha un significato, un suggerimento 
                    preciso.  
                    Il disco, musicalmente parlando, è popolato da presenze 
                    inquietanti e numerosi fantasmi ispiratori, tanto da sembrare 
                    un viaggio privato italiano di Tom Waits e David Thomas finiti 
                    a cucinarsi una pasta e bere vino e grappa di contrabbando 
                    a casa di Vinicio Capossela. Ma qui non c’entrano né 
                    Tom né David né Vinicio, perché si va 
                    ben oltre. Forza ora. Liberate la mente, e pigiate play. 
                   
                    - Si parte con “Ecosentimento”, storia spigolosa 
                    di Mario e Maria che fanno l’amore presso la discarica 
                    abusiva o lo svincolo della tangenziale o dove capita, portando 
                    a loro modo un po’ di verde disperato tra l’immondizia 
                    e l’asfalto, giocata su ammiccamenti e sinuosità, 
                    la fisarmonica soffocante e la chitarra desertica annodate 
                    strette. 
                    Da qui alla fine è un percorso sghembo lungo un’ora 
                    fatto di disagio metropolitano e stati mentali/sonici allucinati, 
                    il suono ultracurato e gli arrangiamenti ricchissimi di incastri, 
                    sorprese e particolari. 
                    
 - “Donna ideale” racconta di un amore andato 
                    a male che manda luce di lampadina economica, tratteggiato 
                    da un basso elettrico distorto e cattivo come un cane trattenuto 
                    a fatica al guinzaglio dell’arrangiamento. 
                    
 - “Riti domestici” è una foto senza futuro, 
                    ritagli di spazzatura televisiva ricomposti in forma di tango 
                    strappabudella a raccontare della vita obbligatoriamente felice 
                    della famiglia nucleare condannata all’ergastolo tra 
                    le quattro mura di casa. 
                    
 - “I vicini” è la mostra delle atrocità 
                    delle ossessioni condominiali, porte chiuse a chiave per paura 
                    del mondo di fuori, segreti sepolti sotto la carta da parati 
                    e il foglio di nylon appoggiato a conservare il divano buono, 
                    parole sussurrate perché non scavalchino le pareti 
                    sottili.
                    
 - “Fido destriero” è l’inno alle 
                    quattro quote spinte a benzina e suona del suono della polvere 
                    petrolifera del deserto texano a metà tra Howe Gelb 
                    e i Cardigans… 
  
                    
                  E il viaggio allucinato dei due continua tra mazurche sporche 
                    di periferia e cori femminili così improbabili da suonare 
                    malati, piccole melodie da osteria e macchine cromate parlanti, 
                    rate da pagare e rassegnazione infinita. Una specie di circo 
                    sinistro dove pian piano noi che ascoltiamo scopriamo di assomigliare 
                    inesorabilmente agli animali/mostri in gabbia, scimmie, tigri, 
                    topi, cani.  
                    Daniele Manini me lo immagino come il padrone del circo o 
                    meglio come il truce capo dei domatori, altissimo irraggiungibile 
                    e sguardo di fuoco, divisa nera e bottoni e alamari d’oro 
                    su cui si riflette tagliente la luce dei riflettori. Cappello 
                    a cilindro e baffi impomatati, avvicina un megafono alla bocca 
                    e fa prendere alla sua voce colori di perversione e disgusto, 
                    trasformandola in un gelato amaro variegato di cattiveria 
                    e sguaiatezza.  
                    
                    La fisarmonica di Roberto Barbini è assieme ricamo 
                    cangiante e rumore di fondo dell’intero disco: si arrampica 
                    sulle pareti di ogni canzone come un ragno in fuga, trasformandosi 
                    ora in voce familiare altre in brivido di spettro.  
                    È un disco che ha un coltello in mano, e che continua 
                    a colpire proprio dove fa più male, perché ci 
                    ha sorpreso nudi all’angolo del letto con tutte le nostre 
                    bugie e scuse sparse per terra, inservibili. Un disco da cui 
                    difficilmente si esce rappacificati, e che continua a far 
                    compagnia di notte -a pezzi- nella colonna sonora vischiosa 
                    che hanno i sogni che non si raccontano al mattino.   
                  contatti: www.putiferio.it. 
                   
                  PS: alcune copie del cd di Manini & Barbieri sono disponibili, 
                    in offerta libera, tramite la lista di Musica 
                    per A/Rivista Anarchica.  
                  
                  
                   John 
                    Loder  
                  Due parole – infine – per ricordare John Loder 
                    (1946-2005), che se n’è andato lo scorso agosto 
                    dopo una lunga e terribile malattia.  
                    L’ho incontrato a Londra all’alba degli anni Ottanta, 
                    proprio una delle primissime volte in cui sono andato a trovare 
                    i Crass alla loro casa comune (erano stati proprio lui e Scott 
                    Piering di Rough Trade a telefonare a Dial House annunciando 
                    la mia visita): Penny Rimbaud e compagni avevano messo in 
                    piedi la loro attività appoggiandosi al suo piccolo 
                    studio di registrazione e dato vita alla loro etichetta discografica 
                    con il suo contributo determinante, così che John era 
                    considerato a tutti gli effetti come uno del gruppo.  
                    L’intera attività della Crass Records è 
                    passata attraverso i Southern Studios di John Loder, che offriva 
                    impeccabile assistenza tecnica e creativa e consigli utili 
                    oltre che registrazioni di elevata qualità ad un prezzo 
                    accessibile.  
                    “La musica era pessima e i soldi erano pochi, ma ci 
                    si divertiva” – così lo ricorda Penny dalle 
                    pagine del Guardian. Nel giro di un paio d’anni, il 
                    piccolo studio casalingo col registratore a quattro tracce 
                    dove venne registrato il debutto dei Crass si trasformò 
                    in una sala attrezzatissima sempre fervida di lavoro che attirò, 
                    oltre che musicisti in numero sempre maggiore, anche il Signor 
                    Padrone, dal quale John seppe tenersi sempre a distanza di 
                    sicurezza propugnando un’assoluta e incompromissoria 
                    indipendenza.  
                    Grazie a John abbiamo potuto ascoltare buona parte del canto 
                    anarchico dell’Inghilterra thatcheriana, da Crass a 
                    Conflict a Flux a Poison Girls, nonché l’espressione 
                    artistica di Bjork, Chumbawamba, Fugazi, Jesus and Mary Chain 
                    e cento altri musicisti occupati a colorare d’arcobaleno 
                    un mondo che il Signor Padrone vorrebbe invece grigio e silenzioso, 
                    oppure frastornato dal rumore delle bombe. 
                     
                    Marco Pandin 
                    stella_nera@tin.it 
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